venerdì 5 agosto 2016

I miei due cent su Pokemon Go


Pokemon Go è ormai uscito da diverse settimane, con i suoi pro e contro.
Da un lato, il suo essere un'interfaccia tra reale e virtuale ha creato alcuni paradossi, alcuni orrori che erano già stati anticipati dalla narrativa cyberpunk: tra gente investita con lo smartphone nel pugno e rapinatori che usano i Pokemon Stop per trovare vittime inconsapevoli siamo in pieno Charles Stross, o Neal Stephenson.
Come sempre nel caso di giochi/tecnologie del genere, le loro deviazioni, usi&abusi, difetti da “giocattolo rotto” contano più del gioco stesso, in sé stupido.
Da considerare con particolare attenzione il caso dell'etica della caccia al Pokemon, con il dibattito (unilaterale) se si dovrebbe proibire la “cattura” in alcuni luoghi, per rispetto verso la loro funzione (chiese, luoghi pubblici, case private, musei ecc ecc). Unilaterale, perché vietare l'app significherebbe mettersi contro il mercato, che si sa deve restare libero e incontrollabile: niente interventi statali, ne con i Pokemon, ne con l'economia!
Le istituzioni si rivelano anche in un ambito triviale quale il Pokemon Go impotenti, incapaci di mettere in atto anche la più minima imposizione al free Pokemon trade.
Il divieto di usare la app dagli americani viene visto come una violazione dei diritti umani, una schiavitù inconcepibile. Il secondo giorno c'era già chi catturava Pikachu&Cazzomon vari all'Holocaust Museum di New York (!) Alle proteste dei curatori, i giocatori protestavano che non era un'offesa alla Memoria, ma una celebrazione dei valori americani, perchè...
… il nazismo avrebbe vietato Pokemon Go, pertanto giocarci nella ricostruzione di un campo di sterminio non è solo possibile, è anche necessario per ribadire la nostra libertà contro ogni totalitarismo...

Non trovo le forze per smontare un simile magister cazzarum, se non per ribadire ancora una volta il solito nesso identificativo tra libertà di mercato, libertà di giocare e libertà di consumo.

lunedì 1 agosto 2016

Ventitré cose che non vi dicono sul capitalismo secondo Ha-Joon Chang


Il saggio di economia di Ha-Joon Chang, sud koreano insegnante all'Università, si presenta col peggiore titolo possibile: 23 Things They Don't Tell You About Capitalism.
Quel “ventitré” sembra richiamare certi articoli di giornale e certe catene di sant'antonio – 10 cose che rivoluzioneranno la tua vita! 5 semplici passi per diventare ricco sfondato! – mentre dall'altro quel “non vi racconteranno” sembra alludere a chissà quale conoscenza esoterica.
Scelta infelice o meno, è il genere di titoli che va di moda col mondo anglosassone, il saggio di Ha-Joon Chang è invece un testo pacato e misurato, davvero un buon saggio a favore dell'intervento dello stato nell'economia e di contro alle misure più pesanti del neoliberalismo inaugurato dagli anni '80 e gonfiatosi nei '90 delle diverse bolle finanziarie che continuano a scoppiarci in faccia.
Si vede che Ha-Joon Chang è un insegnante, perchè l'inglese è semplice, fluente, capace di spiegare in tanti passaggi operazioni altrimenti facilmente incomprensibili, specie in un mondo quale la finanza internazionale, che proprio di questa incomprensibilità si avvantaggia.

Il saggio vede 23 capitoli, che corrispondono a 23miti” neoliberali.
Il mito è descritto nel primo paragrafo – What they tell you – dove l'argomento è descritto adottando il punto di vista di un suo sostenitore, con particolare enfasi. Ad esempio, la necessità di tagliare le tasse alla classe dei milionari e dei miliardari, perchè possano investire e creare lavoro, generando ricchezza “a cascata”, la voodoo economics di Reagan. Oppure, la convinzione che le industrie manifatturiere nel mondo post industriale non contino più, prevalendo i “servizi”. O ancora: i paesi del terzo mondo sono tali perchè pigri, poveri, in climi inadatti e senza politiche di apertura al mercato... ecc ecc
Il secondo paragrafo – What they don't tell you – controbatte e demolisce argomento dopo argomento il “mito” sostenuto nella prima parte, proseguendo poi a fornire degli approfondimenti e alcune possibili soluzioni. La struttura, semplicissima e agile, si presta sia essere sfogliata che alla rapida consultazione, con l'autore stesso che fa riferimento a 14 Thing o 5 Thing come rimando e collegamento al testo. La successione dopo la 10 Thing diventa martellante e nonostante l'autore debba essere una persona affabile, il sarcasmo è davvero graffiante.

mercoledì 27 luglio 2016

Orizzonti di forza. Fenomenologia della guida videoludica, di Matteo Bittanti (Ludologica).


Ho letto per la prima volta Orizzonti di forza. Fenomenologia della guida videoludica in treno, tra fermate nel nulla e gallerie fantasma. C'era una certa ironia nel leggere un saggio sull'automobile – veicolo individualista, privato per eccellenza – a bordo di un servizio statale e collettivista quale la ferrovia, sia pure nella sua pessima incarnazione italiana.
Tuttavia, mentre riponevo il saggio nella tasca del mio montgomery, aveva un suo senso, perchè si trattava di un saggio volutamente frammentario, dettato dagli appunti di uno smartphone dai non-luoghi della simulazione altrimenti nota come “America”. Come preannunciava Bittanti nell'introduzione, si trattava di uno scritto che non aveva pretese di assoluta completezza, pur mantenendo l'impianto e la serietà di un saggio accademico.
A una scrittura aritmica non poteva a mio parere che corrispondere una lettura rapsodica.

Al suo nocciolo, Orizzonti di forza è un saggio che analizza due videogiochi di racing, Forza Horizon e Forza Horizon 2. All'analisi dei due oggetti videoludici corrispondono le due parti del testo, America ed Europa, corrispondenti loro volta ai tracciati dei due giochi, il primo in Colorado, il secondo nell'Europa mediterranea (Provenza, Toscana, ecc ecc). Il saggio si propone di analizzare i due giochi come artefatti culturali, una produzione dell'uomo che come ogni suo oggetto “fabbricato” veicoli un'ideologia e una visione del mondo ben precisa. Alla sega mentale del recensore che conta i pixel sullo schermo per dare il suo voto al gioco, si preferisce invece una contestualizzazione del gameplay nel mondo reale, con le sue ripercussioni nel marketing, nelle vendite e ovviamente nella mentalità del giocatore indottrinato.
E' una critica a vasto raggio, se si preferisce un processo induttivo: dal particolare (Forza Horizon) si procede al generale, passando dai conflitti per il petrolio, alla perdita del reale nel senso di Baudrillard, al nuovo sessismo dei videogiochi contemporanei. Il videogioco interloquisce non solo coi temi sociali, ma col cinema (si veda ad esempio la riflessione su Shining di Kubrick), coi social, con la pubblicità, con la sociologia e la filosofia marxista alla Slavoj Zizek.
L'automobile, idolo e feticcio americano, ne esce distrutta, svuotata di senso, annientata. Si comprende a metà saggio come non sia contro Forza Horizon che si scaglia il testo, ma contro il mito dell'automobile e dei valori liberal/americani che presuppone, eradicati fino all'ultima radice.
La mole sia di citazioni filosofiche, che di note a piè pagina (mai così pregne di bibliografia) vengono intrecciate all'esperienza personale di Bittanti in America. Il tono pertanto è a volte diaristico, senza tuttavia snaturare il procedere argomentativo.
Mentre lo leggevo durante un viaggio a Bassano, nel dicembre prossimo a Capodanno, mi sono avvenute diverse esperienze spiacevoli con l'automobile che automaticamente ponevo in relazione col saggio. Pertanto, con questa recensione ho voluto mescolare esperienza e appunti di lettura, constatando derive videoludiche nel mondo reale e viceversa.

venerdì 22 luglio 2016

Providence 05: In the Walls, di Alan Moore. Annotazioni, analisi e traduzioni.


Chi l'avrebbe mai detto? Sono talmente abituato ai ritardi e ai rimandi, quando si tratta dell'editoria italiana, che siano fumetti o romanzi, che non mi aspettavo sinceramente che davvero la Panini Comics facesse uscire Providence 2 in luglio. Eppure, eccolo qui.
A Trieste (fumetteria Neopolis) c'era un'intera pila a lato della cassa, il che mi lascia ben sperare che Providence stia vendendo bene anche in Italia. In effetti, ero talmente convinto che ne avrei trovate due copie nascoste dietro Topolino, che avevo iniziato a guardare dappertutto... tranne che nel posto più ovvio, come mi ha indicato il barbuto negoziante.
L'episodio 2, come lo chiama la Panini Horror, include le storie di Providence dalla 05 alla 08.
Rispettivamente:

Providence 05 – In the Walls
Providence 06 – Out of Time
Providence 07 – The Picture
Providence 08 – The Key

Providence 05 usa come principale riferimento il racconto La casa delle streghe, opera che ha avuto la (dubbia) fortuna di un adattamento televisivo di Stuart Gordon. Non è l'opera di Lovecraft che preferisco, perchè trovo che il concetto di strega che usa sia ancora troppo legato all'horror classico.
Moore, come sempre, dimostra quali magie si possano compiere con il fumetto, imbastendo una struttura narrativa perfettamente circolare, a incastro, dove i diversi “pezzi” del racconto combaciano perfettamente. Avete presente quegli enigmi di legno, quei rompicapo che stanno assieme senza colla o forzature, solo per una strana combinazione geometrica?
In the Walls sembra essere il loro corrispettivo a fumetto. Il viaggio in auto – il pernottamento nella casa – il doppio risveglio – ogni parte combacia l'una con l'altra alla fine della lettura, ma non nella combinazione che ci potremmo aspettare.
Quest'attenzione alla storia è tuttavia solo un aspetto del fumetto, perchè gli va aggiunto lo straordinario lavoro di dislocazione della Casa delle streghe, con gli oggetti del mobilio che mutano impercettibilmente per segnalare la natura “magica” del luogo e con gli stessi contorni delle vignette che servono a “classificare” quale sia l'atmosfera – onirica, sovrannaturale, “normale” - assolvendo a una sorta di categoria (nel senso della semiotica).

Per le annotazioni di Providence 05 valgono le fonti dei numeri precedenti (si veda la colonnina a destra): la traduzione proviene dai Facts in the Case of Alan Moore's Providence e le citazioni dall'edizione economica Newton&Compton. Nell'eventualità che riscontriate degli errori e/o delle contraddizioni, commentate qui, che è probabile sia un errore di traduzione dovuto alla stanchezza.

Questo primo articolo di annotazioni su Providence 2 apre anche una collaborazione tra blogger: fino a pagina 13 infatti il lavoro di traduzione è stato svolto con impressionante velocità da Matteo Poropat, della Tana dello Sciamano. Mi aveva domandato se volevo una mano nella traduzione e diamine, se accetto volentieri una mano, anche due, anche un tentacolo se serve! ^_^
Oltre fornire una quanto mai necessaria dose di professionalità a questo sistema di annotazioni, Poropat ha inserito qualche sua osservazione personale su alcune delle scelte e degli inner-joke di Moore. Concorderete che è stato svolto un ottimo lavoro.


In the Walls


lunedì 18 luglio 2016

Il Grande Strappo, di Giuseppe Menconi.


Landon Banes è un semplice minatore di taunuxanio sulla colonia di Armissan, un derelitto insediamento ai margini dello spazio conosciuto. La vita sul pianeta è dura, tra escursioni in esoscheletri corazzati, passeggiate tra la lava e operazioni di estrazione in un ecosistema “minerario” adattatosi a condizioni estreme. 
Landon però, è contento: sa di fare il lavoro di Dio.
Il tauxanio servirà infatti alla costruzione del Portale, un dispositivo per il viaggio extradimensionale costruito presso santa Terra, il pianeta natale dell'Umanità.
Siamo infatti nel XXV secolo e lo “strappo” profetizzato nel XXI secolo si sta tragicamente avverando: l'universo sta implodendo, risucchiando pianeti, stelle, ogni genere di energia umani compresi.
Acqua alla gola, l'umanità si è fratturata in due diverse fazioni: la Federazione di papa Callisto, cui Landon è fedele (in entrambi i sensi) e l'Unione di Mizar. La prima è uno stato teocon dove si è realizzata dopo secoli di guerre di religione la vocazione imperialista del cattolicesimo; la seconda all'opposto un gruppo sovversivo di atei collettivisti che combattono per la distruzione del Portale.
Landon, durante il suo lavoro su Armissan, intuisce come sia solo propaganda, ma desidera disperatamente crederci. E' infatti padre e se la moglie è depressa e scoraggiata dalla vita nella colonia, il sorriso delle sue due figlie lo consola e lo riempie di gioia a ogni sera di ritorno dal lavoro. Vive per la famiglia e farebbe di tutto per salvarla. E' per questo che si attiene rigidamente ai protocolli di sicurezza, biasimando ogni incidente dei suoi colleghi alla disattenzione, come ribadendo a ogni piè sospinto che Callisto li salverà tutti. In altre parole, Landon è l'operaio grato del padrone, il minatore convinto che lavorare sodo&onesto siano l'unica strada per la salvezza.
La monotonia di ogni giorno si strappa però quando l'Unione a sorpresa attacca la colonia. Landon insiste per attenersi agli standard di sicurezza, ma per la prima volta fallisce. L'Unione non è debole come insistevano i canali di comunicazione, dispone addirittura di tecnologia aliena: le difese non valgono a nulla e per Landon inizia una disperata corsa per difendere la famiglia.
Vero inizio di una via crucis dove Landon scoprirà suo malgrado che tutto quello che gli è stato raccontato, impartito e catechizzato è una patetica bugia.

lunedì 4 luglio 2016

Il mito di una nazione colpevole


Il canale della BBC, in occasione del centenario, aveva offerto un gran numero di approfondimenti sulla prima guerra mondiale, non ultime sulle cause concomitanti al conflitto.
Nonostante l'apparente onestà di mostrare sia l'opinione tradizionale che “revisionista”, l'accusa in fondo restava la stessa: era stata la Germania l'unica responsabile, l'unica miccia a innescare il conflitto, seguita a ruota dall'Austria-Ungheria.
Gli imperi centrali avevano istigato una politica aggressiva e guerrafondaia, di contro al pacifismo inglese e americano. Un'opinione “morbida” e ragionata, com'era logico aspettarsi dalla BBC, ma pur sempre un'opinione che addossava il peso del conflitto agli Stati maggiori tedeschi.
La storiografia inglese ha sempre amato ritrarsi come una nazione aggredita dal tedesco invasore, costretta suo malgrado a una lotta impari contro un nemico bestiale e incivile. Se questa bella favola la si può raccontare a proposito della Seconda guerra mondiale, la Prima è un'altra faccenda e i puri fatti storici remano contro la sola idea che Inghilterra, Francia e Russia volessero evitare il conflitto.
Vi sono certo responsabilità e atrocità da parte degli imperi centrali anche nella Prima guerra mondiale, come nella politica a tratti eccentrica del Kaiser. Volere però ascrivere il conflitto alla sola volontà di distruzione dell'Imperatore appare ridicolo e non si discosta un granché dalla propaganda tra il '10 e il '20 nel mondo anglosassone.
La prepotenza in campo coloniale dei britannici, le atrocità dei pogrom, della polizia segreta e del falso dei Protocolli di Sion nella Russia zarista, il revanscismo malato della Francia... un colpo di spugna e tutto sparisce da un orizzonte ideologico che pretende una Germania aggressiva versus un'Inghilterra inerme.
Si potrebbe in effetti argomentare come la Germania proposta dai manifesti e dalla propaganda inglese sia successivamente servita come modello positivo per il Reich di Hitler.
La storia è ricca di profezie che si auto avverano, quando un nemico “inventato” (the hun, in questo caso) diventa improvvisamente fin troppo reale.
Dopotutto, non erano i manifesti inglesi esplicite citazioni dei manifesti antisemiti di fine '800? 
Il tedesco/ebreo scimmione, la vittima ariana/bianca, il tedesco/ebreo maiale ecc ecc 
Con la Germania di Hitler è questo genere d'immaginario in origine anglosassone che ritorna all'ovile e viene sfruttato per la creazione del Reich millenario.
Con l'eccezione che a differenza del '17 e del '18, l'Inghilterra cominciava a mancare il jingoismo e la voglia di muover guerra che possedeva nel secolo precedente...
Un'altra costante storica, accanto alla profezia: la reazione sbagliata nel momento giusto e la reazione giusta nel momento sbagliato. Nel '14, quando nessuno conosceva la vastità del conflitto che si stava per scatenare, nessun stato pensò di reagire con un'attività diplomatica seria. Nel '30, quand'era chiaro che la diplomazia non sarebbe servita e che fosse necessaria un'azione di forza, Chamberlain scelse la via diplomatica prima negletta.
Un'ammirevole dimostrazione di come sbagliare tempo di bollitura e infusione, e questo da un popolo che di te e tempistica dovrebbe in teoria saperne...


lunedì 27 giugno 2016

Providence 04: White Apes, di Alan Moore. Annotazioni, analisi e traduzioni.


Quarta e ultima storia di Providence, White Apes prende a modello l'orrore di Dunwich, andando a sollecitare con la delicatezza di un coltello arroventato il tema della purezza razziale e della degenerazione biologica da sempre fondamentali in Lovecraft.
Nel numero precedente, basato sull'Ombra di Innsmouth, Moore giocava con argomenti pesanti come campi di prigionia e Olocaust(i)o, mentre nei primi due, grazie al racconto Aria fredda e Orrore a Red Hook, trattava il razzismo e l'immigrazione. La posta pertanto è al continuo rialzo, gli argomenti trattati salgono sempre più d'importanza, andando a sollecitare riflessioni su argomenti “innominabili”.
In tal senso, il secondo volume della Panini Comics, in teoria disponibile da luglio, dovrebbe offrire un po' di respiro, perché raccogliendo i numeri di Providence dall'05 allo 08 si occupa di argomenti più onirici, nel campo di Kadath e compagnia bella.
Ciò non toglie, che avendo dato un'occhiata alla versione inglese, il lettore offeso dalle tematiche “impegnative” continuerà a restare offeso: sia nel gioco disinvolto che Moore fa di Lovecraft stesso e delle sue opere, sia nel suo uso delle scene di sesso, disegnate in modo da dar “fastidio” al lettore.
Se la tra-duzione e l'intro-duzione si manterranno ai livelli di questo primo numero, la Panini avrà svolto un gran bel lavoro. A questo proposito, rimango ancora dubbioso sulla scelta di una traduzione intermittente, che alterna una resa dei dialoghi in dialetto assai sofisticata a una rinuncia di alcuni termini di geografia e storia. Trovo ad esempio irritante che non siano stati tradotti i titoli dei capitoli – White Apes? Yellow Sign? Sul serio? - come d'altronde i vari libri di occultismo di cui pure esiste la versione italica. L'idea di sfruttare l'esotismo del titolo per far colpo non mi sembra simpatico verso il lettore. Tuttavia, nell'insieme posso comprendere che un lavoro come quello di Providence è nel contempo l'incubo e il sogno di ogni traduttore esperto.

Come sempre, il riferimento fondamentale da cui traggo ogni traduzione è Facts in the Case of Alan Moore's Providence, collettivo anglosassone di esperti il cui acume non cessa di stupirmi.
Ho aggiunto tuttavia qualcosa di mio, sopratutto da Providence 02 in poi: è divertente constatare, man mano che scrivo l'articolo, come anche gli annotatori si stanchino, lasciando passare intuizioni per me ovvie.
Le citazioni dai testi di Lovecraft sono invece tratte dalla solita edizione economica Newton&Compton, dalla copertina biancheggiante. Rivedendo i titoli di alcuni racconti rimango sempre stupito dalla sciatteria di certe scelte stilistiche dell'epoca. Certo, il Solitario di Providence è un autore difficile da trattare, ma tra le traduzioni del secondo dopoguerra e il recente trattamento “modernizzante” di Altieri mi pare che non ci sia ancora stato un lavoro da vero filologo dietro.
E nessuno più di uno storico o un filologo saprebbe rendere una scrittura bizantina (!) come quella di Lovecraft.

Non appena uscirà il secondo volume (Providence 05-08) continuerò con le annotazioni.
Come sempre, non esitate a segnalare errori, incongruenze o curiosità.  



White Apes 

martedì 21 giugno 2016

I miei due cent su questo E3 2016, tra Kojima e Mass Effect Andromeda


Si continua a ripetere che l'E3 ha perso il suo smalto, che è ormai superfluo, che altre fiere e altre occasioni sono le vere occasioni per le anteprime videoludiche più succose. 
Sarà pur vero, ma il semplice numero di visitatori e di hype che ammanta ogni anno la fiera contraddice questo fatto: l'E3 continua a contare. Non quanto il passato, certo, ma se per due settimane il coverage dei siti e dei giornali copre l'evento... well, forse un motivo ci sarà.
Forse è il caso di dirlo: l'E3 è morto, lunga vita all'E3.
Nel caso dell'E3 2016 ho scelto di analizzare solo alcuni dei giochi presentati, preferendo approfondire i singoli casi piuttosto che regalarvi l'ennesima carrellata-plagio dai siti generalisti.
Nonostante alcune cospicue assenze – ci speravo davvero in Cyberpunk 2020, ma niente da fare – non manca certo materiale di cui discutere. 
Incominciamo da un classico di questo blog, la prima guerra mondiale...

L'esaltazione della modernità: Battlefield 1



martedì 7 giugno 2016

Atompunk in salsa lovecraftiana: Shadow Planet


Leggendo alcune riviste di fumetti alternativi degli anni sessanta/settanta – penso a Metal Hurlant o l'Heavy Metal Magazine, a seconda della lingua – rimango sempre colpito di come funzionassero sulla base di un'assenza, anziché di un eccesso.
Il senso di mistero proveniva dal formato breve, dalla psichedelia di quegli anni, dalla scelta di chiudere le storie ex abrupto, costretti dalla mancanza di ulteriori fondi. La conseguenza necessaria erano storie per forza oniriche, enigmatiche, chiuse in piccoli mondi autosufficienti.
La ricerca della sensazione, del dettaglio minuto, dell'orgia di colore contrapposta alla “prigione” dei dialoghi e delle sceneggiature a tavolino: si trattava di non-storie a tutti gli effetti, dove lo stile demoliva ogni necessità di seguire un “filo logico”.
Siamo ovviamente nel periodo di Moebius, le cui storie di quegli anni, da lui stesso definite “una eiaculazione” (1) risultano il paradigma per eccellenza di un disegno che supera il dialogo, Garage ermetico docet.

Ora, l'Indiegogo per il fumetto Shadow Planet non è certo Moebius. Eppure, rimane qualcosa di quel genere di fumetto nello stile, nel disegno, nell'argomento, fin quanto nella stessa presentazione della campagna.
La matita di Gianluca “Johnny” Pagliarani restituisce tavole che naufragano nel dettaglio, intricati mosaici di sassolini, tubature e finissimi ingranaggi. All'impressione “polverosa”, alle lande lunari come agli interni “alieni” il pensiero torna ai deserti e ai paesaggi minuziosi di certa sci fi del '60. Il colore di Alan Junior d'Amico, con una palette che ruota sul grigio e il rosso trasla il fumetto di dieci anni indietro, ponendolo dentro le tute super aderenti degli astronauti di celluloide degli anni '50.
Sebbene non sia possibile pronunciarsi sulla sceneggiatura, le parole chiave disperse qui e lì trasmettono i brividi: si va dal pulp, all'atompunk, al Lovecraft più casareccio.
Doverose strizzate d'occhio all'Alien del 1979, basti osservare la posizione dell'astronave nella presentazione, con l'inquadratura e lo “spiaggiamento” simile al ritrovamento nel film.


Fucili a raggi, la presenza di un robot nelle vignette trapelate, l'enfasi su razzi e bulloni assicurano la fisicità del -punk nell'atompunk, con un'elettronica che non vada al di là dell'analogico:


Non a caso, la prima cosa a cui ho pensato dopo aver visto la folle Moonette, è all'automobile nelle prime pagine di Garage Ermetico:


La presentazione per la campagna su Indiegogo a sua volta si mostra come vicina ai lettori e lontana dalle formalità, anche per gli standard della Radium: non c'è un disegnatore, un colorista e uno sceneggiatore, ma i Blasteroid Bros, come non c'è la storia di tre astronauti alle prese con un orrore alieno, quanto Razzi-Bulloni-Mostri-Pistole a Raggi. I responsabili del (futuro) fumetto compaiono con armi dalla fallica gigantezza in mano e il tono sulla pagina Facebook è decisamente indovinato.

Infine, a questo cocktail -retro viene inoculato l'elemento moderno: anziché un equipaggio incolore di maschi bianchi degli anni '50, troviamo la comandate Jenna Scott, come la luogotenente Nikke Larsson e un unico maschio, l'efebo John Vargo, che al di fuori della sigaretta all'angolo della bocca ha un'acconciatura più curata delle sue stesse compagne di viaggio interstellare.
Ancora una volta evidente l'influenza dell'Alien(s), centrifugata però nello stile del pulp passato.

La campagna Indiegogo si avvicina all'ultima settimana, ma rispetto alle precedenti raccolte fondi mi sembra stia procedendo spedita, siamo a un punto eccellente.
Come da tradizione della Radium, le possibili opzioni prevedono cartonati, copertine alternative – consiglierei quella di Jacen Burrows – un diorama a edizione limitata e una pistola laser sospettosamente simile a una mauser modificata. La natura della storia vieta per una volta ogni comparsa/ opzione “trasformami in fumetto” che sembra a volte trasformare certi numeri in folle di comparsate. Il primo numero di Prussiani vs Alieni, ad esempio, sembra avere quasi più backers in forma di personaggi che personaggi stessi (!).
Sempre apprezzabile come vi sia un'opzione per gli indecisi o chi voglia spendere di meno: con soli cinque euro ci si porta a casa tutti e quattro i numeri in edizione digitale e con nove anche gli schizzi di lavorazione in esclusiva. Se siete tra chi aspetta “a lavoro finito” o “quando sarà pubblicato” perchè invece non contribuite con la cinquina direttamente disponibile, adesso?
Mi sembra il modo migliore per tastare il terreno senza perderci troppo denaro nel caso (improbabile) che Shadow Planet si riveli una delusione. Anche a uscita in negozio, i fumetti della Radium non stanno comunque avendo recensioni tali da poter giudicare se valgano o meno la pena, provare direttamente al momento della campagna è l'idea migliore.

(1) Si veda In Search of Moebius (BBC).

Fonti:
Pagina del progetto su Indiegogo.
Sito della Radium, pagina dedicata a Shadow Planet.
Pagina Facebook della Radium.