venerdì 19 aprile 2013

Romanticismo Antiviral(e)


Nei circoli romantici d'inizio ottocento già circolava la macabra idea che ostentare una malattia fosse cool.
O per usare la terminologia dell'epoca, che fosse squisitamente romantico.
Se i malaticci contadini destavano ben poco interesse, grande attenzione veniva riservata ai rampolli della nobiltà, quando incontravano quel morbo all'epoca indebellabile che era la tubercolosi.

Il colorito pallido, le profonde occhiaie, la tosse persistente diventavano presto stigmate che quel dato artista, quel dato intellettuale aveva intrapreso un percorso nuovo, salvifico; attraverso un "lento morire" poteva ascendere a una maggiore consapevolezza, un vivere "autentico" che permetteva rivelazioni che nella banale vita d'ogni giorno non avrebbe mai potuto raggiungere.

Intendiamoci; mai e poi mai i romantici dell'epoca ricercavano la tubercolosi! Sebbene fosse alla moda truccarsi per ottenere un aspetto emaciato, traslucido persino; al punto che Napoleone stesso rimproverò alla moglie, agghindata per una festa, "d'assomigliare a un cadavere".

In campo artistico questo filone vede un nutrito numero di libri, che culminano in quel capolavoro (?) che è 
La montagna incantata, dove il protagonista tubercolotico intraprende un percorso spirituale che corrisponde passo dopo passo alle varie fasi della malattia.
Recentemente è rispuntato il tema in Antiviral, opera cinematografica un po' horror, un po' distopia, del figlioccio di Cronenberg, Brandon.

sabato 13 aprile 2013

Bioshock Infinite, impressioni a caldo


Quello che conta in un'opera, che sia un romanzo, un fumetto, un discorso o nel nostro caso un videogioco  sono incipit e finale. Sarebbe errato affermare che quanto "sta in mezzo" è ininfluente,
ma non si può negare che molte opere mediocri vengono ravvivate e passano alla storia per un finale geniale, che capovolge in un mindfuck che nessuno mai si sarebbe immaginato un prodotto nell'insieme gradevole, ma con alcune pecche.

In Bioshock Infinite se incipit- e ancor più finale- vanno a collocarsi nell'olimpo dei videogiochi, tuttavia il grosso che c'è in mezzo spesso si rivela altalenante accostando, a una direzione artistica che non ha eguali in nessun altro media, una giocabilità spesso semplificata e leggera, in cui manca mouse alla mano la sensazione di "giocare".

Questo non è voler sminuire il titolo, tanté che su Ludomedia non ho esitato a votare il gioco con un 9.5 che non avevo mai dato, eccezion fatta per quell'opera pantagruelica che era il primo Witcher, rpg ancora una volta dalle meccaniche che spesso ai giocatori impazienti sembrano "datate", ma che rivela un finale in cui la sensazione di crescita di personaggio (e del giocatore!) resta davvero insuperata. Tutto ha una fine, affermava Neo, ma aggiungerei: pochi sanno ben orchestrarla.

Sarebbe una fatica inutile tentare di recensire il titolo; mi limiterò fatta questa breve premessa a elencare alcuni elementi che mi hanno colpito e che costituiscono, a mio giudizio, l'anima del titolo.
  • Partiamo con quanto Ken Levine sa meglio fare, ovvero "le scenette". Le scenette non sono né cutscene né tanto meno porzioni fondamentali di trama&gameplay; tuttavia aggiungono quel "qualcosa" che davvero ti fornisce l'impressione di calarti in un altro mondo, un altro universo con le sue regole... E i suoi pericoli.

    Ecco una coppia americana seguace di Padre Comstock che discute sugli ultimi attentati della Vox populi; ecco due bambini che giocano a schizzarsi con l'acqua di un idrante rotto; ecco una fanciulla che ti offre un biglietto per un'estrazione a sorte, col tuo avatar che scioccamente subito accetta...

    Columbia diventa con Levine un "Teatro vivente" che a ogni sguardo, 
    ogni occhiata svela carattere (e cattiveria) dei suoi abitanti.
    Spesso, infatti, la funzione delle scenette è un asciutto Show don't tell di natura morale,
    dove vediamo i soprusi del potere consumarsi sulle carni degli innocenti.
    Nel capitolo dove il protagonista Dewitt scende nelle viscere industriali della città,
    Levine offre i migliori esempi di questo "teatro morale" con lancinanti scene dal sapore Dickensiano.

    Anche se in effetti le condizioni lavorative Americane erano
    un filino peggiori di quelle inglesi...

mercoledì 10 aprile 2013

Qualche pensierino banale sulla Thatcher


Quando si dice il Caso!
Studiavo ieri per un esame di letteratura inglese il periodo dai primi anni Cinquanta del novecento ai tardi anni novanta, quando giunge la notizia; lady Thatcher, dopo un lungo ritiro dovuto all'Alzheimer che la perseguitava, è infine schiattata. L'ovvio rigurgito di moralismo e laudi nei confronti della lady di ferro che hanno riversato giornali e media, è giunto talmente a disgustarmi che ho deciso di rompere la mia regola di non scrivere articoli al volo, e piuttosto sono passato a una rapida veloce offensiva.

Trovo l'azione della Thatcher mostruosa sotto molti punti di vista, sia nell'autentico macello sociale che investì piccola borghesia e proletariato, sia nell'idea falsamente diffusa che sia un autentico positivo modello di liberalismo in grado di risanare l'economia.

<< Ahh, se ci fosse lei ora, a risolvere la crisi! >>
<< Ma ha fatto del bene, ha risanato l'Inghilterra! >>
<< Un modello per ogni donna, un autentico modello! >>

Potrei ribattere punto per punto molte delle (false) affermazioni che lodano la Thatcher, ma preferisco elencare svariati punti dal libro di letteratura inglese che sto studiando, che nell'impostazione manualistica è nell'insieme piuttosto oggettivo, senza sfociare né tanto nella lode, né tanto nel vituperio.

Prima di partire con il rant trovo interessante ricordare che nell'insieme il progresso inteso come studio scientifico e avanzare di scoperte e invenzioni che non siano troviamo-nuovi-modi-per-sfruttare-i-consumatori subisca una prima battuta d'arresto proprio con la massiccia campagna di privatizzazione di Thatcher e Reagan (che nel secondo caso impietosamente soffoca la povera Nasa), quando si aprono le porte di Università e scuole a Loghi e Multinazionali, rottamando al contempo quant'era la gloria dell'industria manufatturiera e industriale inglese, che verrà come nel resto dell'Occidente progressivamente traslocata nello sfintere della Terra (aka terzo Mondo).

lunedì 1 aprile 2013

Cuore dell'Impero (Bryan Talbot)


Cuore dell'impero è quel genere di fumetto che può venire classificato con difficoltà.
Le più vecchie recensioni si calano con sicurezza nell'etichetta di fantascienza, nella wikipedia più recente viene classificata come ucronia vittoriana, nostalgico controverso inno all'impero britannico.

Io, dal mio canto, definirei Cuore dell'Impero come un'opera Storica, che richiede al lettore un'attenzione e una conoscenza della storia inglese notevoli, a partire dalle premesse, imperniate sulla reggenza di Cromwell, verso la metà del seicento.
Impaludate le vesti di lord Protettore, iniziò una dittatura precocemente spenta dalla sua morte, che permise l'instaurarsi della dinastia Stuart. L'abolizione della dittatura cromwelliana coincise con un esodo di massa di puritani e oppositori, che andranno a costituire il nucleo essenziale degli Stati Uniti. E' forse ardito, ma si può dire che senza quella linfa vitale e messianica dei padri missionari e dei puritani difficilmente il continente americano sarebbe stato colonizzato con tanta rapidità e pragmatica efficienza.

Nell'ucronia di Bryan Talbot succede il contrario: Cromwell riesce a trasmettere il potere ai figli, ed è solo diversi secoli più tardi che una rivoluzione monarchica riporta sul trono i suoi legittimi eredi.
Il danno intanto, è fatto; gli Stati Uniti sono ancora piccole colonie oltreoceano, mentre l'impero britannico si è allargato a occupare Europa e Asia, giungendo a competere come macropotenza solo con una Russia "comunarda" che rimane sullo sfondo e con diversi staterelli frammentati.

Londra, intanto è diventata una metropoli steampunk ipertrofica e gigante, dove una moda neo-vittoriana-elisabettiana-restauratrice si accompagna a braccetto con odii razziali, patriottistimo idiota e sorde proteste di masse di poveri.

Alan Moore- sì di nuovo lui- consiglia Cuore dell'impero definendolo un'opera ancora al passo con i tempi, che anzi li supera, sia nella storia che nell'uso dell'inquadrature, impressione che confermo: sembra di leggere un fumetto all'avanguardia, quasi sperimentale.

I dialoghi affilati come rasoi arredano una complicata struttura a chiocciola di rimandi e flash back, che vengono a costruire un'opera ipertrofica, che propone una storia che non concede al lettore stanchezze o esitazioni. I diversi piani temporali vengono volutamente confusi, incrociati in complicati arabeschi di citazioni e riferimenti alla cultura britannica, al New age, alle religioni orientali. C'è anche un bel po' di brutalità, di sesso (nei fumetti consigliati da Moore è una costante, lol) e qualche tocco splatter.

Di fronte alla merda superoistica che invade gli scaffali librari, ravvivata nei migliori dei casi da qualche esperimento di crossover- ma sempre all'interno dei canoni "facili" di Marvel & DC- l'opera di Bryan Talbot spicca per dinamismo e coraggio.

E' triste che un fumetto degli anni novanta "osi" più dei fumetti odierni, dove se non cacci in gola la pappa pronta al lettore sei automaticamente "fuori". Dove se non tratti strisce umoristiche e/o con il solito Uber Mensch che salva il sacro potere capitalista americano, non ricevi ne fondi, ne lettori.

Ma diamo un'occhiata ai personaggi.