venerdì 19 aprile 2013

Romanticismo Antiviral(e)


Nei circoli romantici d'inizio ottocento già circolava la macabra idea che ostentare una malattia fosse cool.
O per usare la terminologia dell'epoca, che fosse squisitamente romantico.
Se i malaticci contadini destavano ben poco interesse, grande attenzione veniva riservata ai rampolli della nobiltà, quando incontravano quel morbo all'epoca indebellabile che era la tubercolosi.

Il colorito pallido, le profonde occhiaie, la tosse persistente diventavano presto stigmate che quel dato artista, quel dato intellettuale aveva intrapreso un percorso nuovo, salvifico; attraverso un "lento morire" poteva ascendere a una maggiore consapevolezza, un vivere "autentico" che permetteva rivelazioni che nella banale vita d'ogni giorno non avrebbe mai potuto raggiungere.

Intendiamoci; mai e poi mai i romantici dell'epoca ricercavano la tubercolosi! Sebbene fosse alla moda truccarsi per ottenere un aspetto emaciato, traslucido persino; al punto che Napoleone stesso rimproverò alla moglie, agghindata per una festa, "d'assomigliare a un cadavere".

In campo artistico questo filone vede un nutrito numero di libri, che culminano in quel capolavoro (?) che è 
La montagna incantata, dove il protagonista tubercolotico intraprende un percorso spirituale che corrisponde passo dopo passo alle varie fasi della malattia.
Recentemente è rispuntato il tema in Antiviral, opera cinematografica un po' horror, un po' distopia, del figlioccio di Cronenberg, Brandon.

Il languido protagonista come i romantici d'inizio ottocento si presenta bianchiccio già nelle prime scene, per poi peggiorare gradualmente man mano che la malattia lo divora. Ed ecco dunque un'estetica che avrebbe deliziato nobili anemici, dove all'algido biancore della vittima protagonista rimbalzano contrasti di sangue rosso /nero, mentre tutt'intorno a lui il mondo collassa pezzo dopo pezzo. 

E' un mondo malato, quello di Brandon, e non solo in senso letterale. L'attenzione spasmodica che circondano le celebrità ha raggiunto livelli parossistici d'allucinazione collettiva che fanno impallidire le folle di fanboy che avevo già insultato nell'articolo sulla televisione.

locandina
Attori, rockstar e atleti sono divi nel senso più divino del termine; sono corpi-logo che vengono
perpetuamente pubblicizzati in ogni singolo aspetto, comprese le malattie. 
Ai fan che tutt'ora frugano nei cassonetti delle loro star, o che stalkerano i loro profili con determinazione maniacale, Antiviral propone un passo ulteriore, dove sono malattie e deformità fisiche dei beniamini preferiti a venire imitate. Determinate agenzie/ cliniche acquistano pacchetti di attori e divi, assicurandosi il privilegio di vendere le malattie di cui soffrono, affinché vengano, previo specifico acquisto, elargite ai fan. 

La tua diva preferita soffre di un passeggero herpes al labbro? 
Perchè non imitarla, e acquistare da una clinica lo stesso, identico herpes che l'affligge. 
E che dire di passare il fine settimana assaporando la febbriciola tropicale che ha appeno contratto la tua rockstar del cuore? Detto, fatto. Con ferrea logica postmoderna, basta pagare.

Distopico? Non tantissimo. All'epoca del boom twilight non mancarono adolescenti che chiesero (e ottennero) di farsi impiantare canini affilati per imitare il beniamino Edward; 400 calci giustamente citava nella recensione quel gruppo di ritardati dell'emoscambio; e sebbene l'onda lunga delle popolarità delle star sia ormai passata (abbracciando gli anni 80/90) persiste nella società quest'ossessivo desiderio di "fondersi", nell'epoca dei social network di "condividere" con tutto e tutti. 
Un'ansia spirituale
Non lo so, fatto sta che questo bisogno esiste e lo si avverte.

Nonostante l'indubbia originalità dell'opera, Brandon rimane ancora un regista alle prime armi, per cui non mancano copiosi difetti. A partire dalla regia, che ossessivamente incentrata sul protagonista si mantiene pur tuttavia "esterna" senza mai approfondire il vissuto del personaggio. Facendo un paragone (molto forzato) con un romanzo, Antiviral presenta una struttura in terza persona fissa sul protagonista, che fotografa quanto succede, lasciando tuttavia al lettore ogni opinione. Se da un lato questa regia così fredda funziona, dall'altro non si ha la sensazione del "narrare", non sembra di assistere al dipanarsi di un'intreccio, di una storia. Scene scollegate, spezzettate riprese di una telecamera. Appunto.

E tuttavia preferisco un film con idee coraggiose che un'opera circoscritta e dalla perfetta regia, ma poverissima di sostanza. E certo, su Brandon sospira la pesante eredità del padre. 
Tuttavia, al di là delle scene splatter che sono tuttavia ben lontane (imho) dall'estetica pastosa
di Cronenberg, Brandon mantiene un buon livello di originalità; forse grezzo, forse ingenuo ma pur sempre presente. Sulla regia, sui dialoghi, in quanto aspetti "artigianali", si può sempre migliorare: sulle idee, come insegnano le rovine di quest'Hollywood persa in remake e sequel, non si può far molto.  

Protagonista algido incazzato

3 commenti:

Unknown ha detto...

Ok ora che hai l'hai visto posso chiederti un parere sul finale.. :senso della scena e, se ci sono, secondo te, dei risvolti, un motivo, qualcosa che bisognava intuire, ma che io evidentemente non ho intuito... by the way, ottima analisi del film, ottimo articolo ;)

Coscienza ha detto...

Grazie! Ti dirò, sull'ultima scena francamente ho stentato anch'io a comprenderla. Suppongo il senso sia una comunione finale con la musa, come davanti a un altare; o in alternativa arrivare a "possedere" l'attrice che tanto idolatrava (desiderava?)^^

Unknown ha detto...

Ma perché per i dottori pareva essere una grande scoperta/innovazione?...del tipo che quella macchina doveva essere commercializzata? Ognuno avrebbe potuto avere la sua copia personale della star riprodotta dal macchinario?...boh =)