venerdì 30 ottobre 2015

Un inglese alla corte di Lucca Comics... nel 1996!


Quest'anno, sia per motivi contingenti alla laurea che per quella triste sindrome chiamata “essere al verde” (ma senza risultare né ambientalista, né leghista....) non sono andato all'annuale edizione del Lucca Comics and Games.

Il pensiero in questi giorni in cui iniziano ad affluire le prime foto e notizie sulla fiera attualmente in svolgimento, si rivolgono agli anni passati. E a quanto la fiera è cambiata.
Ignoro se in peggio o in meglio, non mi piacciono troppo i nerd nostalgici che vorrebbero “testare” gli appassionati per vedere se sono ariani nerd al cento per cento, o che volentieri vieterebbero i cosplay perchè “si divertono” e “distraggono” e a volte sono persino “ragazze”.
Orribili, orribili crimini per chi vorrebbe in sostanza una fiera dell'usato popolato di pensionati che in assoluto, mortale silenzio cercano l'ultimo numero di qualche misconosciuta serie.

Tuttavia, frecciatine a parte, è indubbio che il Lucca Comics continua a cambiare e trasformarsi a rapidità incredibile. Io sono – relativamente – un ultimo arrivato: ho sentito della fiera tra il 2010 e il 2011, corteggiando una manga fan che vi ci recava annualmente, e vi sono andato per la prima volta nel 2012. Scorrendo le foto di quel primo pellegrinaggio e confrontandole con le foto dell'ultima edizione del 2014 si rimane annichiliti di quanto nel giro di pochi anni la scena si sia affollata. 
Ricordo che il 2012 fu comunque un anno “pieno”, dove bisognava spintonarsi e farsi forza per entrare nei padiglioni e tuttavia in strada era possibile persino il sabato di trovare un angolo per una foto o una pausa. Esistevano ancora vie di fuga dall'affollamento nel borgo medievale. 
Il 2013 risultò molto di più un trauma sotto numerosi aspetti. L'infrastruttura traballava, il personale era insufficiente e l'intero intreccio di mura e viuzze medievali drammaticamente insufficiente per fungere da frangiflutti alla marea di gente.
Il 2014 fu la rivoluzione mancata, tra visitatori delusi e una situazione sotto molti aspetti infernale: bacheche e transenne senza speranza, più che persone, bestiame che muggiva verso le entrate dei diversi padiglioni, massicce infiltrazioni di bancarelle e shop estranei alla fiera, dai volontari dei corsi di primo soccorso (?) ai militari (??), per stendere un velo pietoso sulle youtuber stars (???).
A dire il vero, forte della mia massiccia corporatura e del mio collega altrettanto imponente, ce la siamo cavata benissimo, ma era chiaro che si era a un passo al “fattaccio”, complici i visitatori che si arrampicavano sulle mura medievali e misure di sicurezza da suicidio terminale.

Con quest'ultima edizione e il polso fermo di voler introdurre un massimo di biglietti fisso acquistabile unicamente online, la situazione dovrebbe migliorare.
In effetti, se siete alla Fiera in questo momento o vi siete appena tornati, perché non commentate su come vi è sembrato?
E' cambiato qualcosa?
O è sempre la solita, magnifica bolgia?

Today Italy, Tomorrow the World! 
Proprio constatando quest'escalation nel giro di pochissimi anni, mi sono chiesto quale doveva essere l'aspetto della Fiera ai suoi esordi. Dopotutto, alcuni vecchi reportage del 2005 o del 2006 mostrano piazze tranquille, con scampoli di cosplay e fumettisti, con un'affluenza stranamente “umana”.
E se volessimo tornare ancora, ancora più indietro?
Gli anni novanta per alcuni potrebbero sembrare l'altro ieri, ma io ci sono nato – classe 1992 – e pertanto mi fa una certa impressione pensare al Lucca Comics and Games... nel 1996!

Eppure è proprio questo l'anno in cui Nigel Stillman, all'epoca uno dei principali designer della Games Workshop, si recava per conto dell'azienda e della rivista White Dwarf nell'italica fiera.

Il divertente reportage è presente nel White Dwarf del febbraio del 1997 e oltre a risultare divertente è ricco d'incoraggianti lodi verso gli hobbisti italiani, ritenuti raffinati, evoluti e insomma “rinascimentali”.

martedì 27 ottobre 2015

I miei due cent su Disney, Star Wars e il risveglio del merchandising


Qualche giorno fa, mi accorgevo distratto che i tovagliolini della colazione avevano una bizzarra macchia al centro. Mezz'ora dopo, riportato a nuova vita da quell'incredibile bevanda altrimenti nota come caffè, osservavo distratto che era uno dei servitori di un recente film d'animazione, Minions.
Non a caso, al di sotto di quello sgorbio color giallo verso cui avrei dovuto provare qualche simpatia, c'era una scritta a caratteri cubitali:

One in a Minions.

Ah. Ah. Ah.
Quante risate. In a Minions/Millions, capite? Come siamo originali, come siamo divertenti.

Era riflettevo qualche ora più tardi, in una pausa dallo studio e col secondo caffè in mano, solo la minuscola parte di una gigantesca macchina pubblicitaria che in occasione del film si era messa in moto. 
Preparando il terreno. 
Infiltrando la mente di grandi e piccini (adulti ormai rimbambiti e bambini ormai adulti). 
Lanciando sui social campagne, meme, cross over, scritte, immagini, merchandising... 
Estendendosi persino ai tovaglioli con cui mi ero pulito il mio barbuto muso quella mattina.

Ovviamente, perchè sorprendersi. Minions non è comunque un film della Disney - è prodotto da una casa di più piccole dimensioni, e non ho nulla da obiettare che si facciano pubblicità - semplicemente, stavano usando gli stessi, identici metodi che usano i fratelloni più grandi, dai film "ufficiali" della Disney alla patina hipster della Pixar. Bombardamento pubblicitario a tappeto.
Il che ci porta al vero argomento di questo rant e cioè la malefica Multinazionale di Topolino... 

La Disney è la Disney – una Multinazionale che non sarebbe una Multinazionale se il suo scopo fosse altro che il profitto. Un utile realizzato in una grottesca area grigia di prodotti in apparenza destinati ai bambini, ma in realtà ampiamente riservati agli adulti. Per alcuni un'area meravigliosa, generosa, piena di nobili ideali; per altri, me compreso, molto più banalmente la Disney fa quanto fa la Apple. Vende sentimenti sotto forma di oggetti. O nel nostro caso di film. Ci si illude di comprare un sentimento, si compra il film. Nulla di nuovo.

Al terzo caffè della mattina, osservavo però inquieto che a fronte della campagna pubblicitaria e degli oggetti a essa correlati, il film era ben poca cosa. In altre parole, certo, il fine della pubblicità era vendere il film, ma era probabile che persino un'IP di nicchia come i Minions generasse maggiori introiti con pupazzi e magliette che con i biglietti sold out.
Gli spettatori e l'affluenza al cinema sarebbero stati un chiaro indice del successo o meno del film, ma era altamente improbabile che il grosso dei profitti venisse da lì. Anche così, la campagna pubblicitaria restava impressionante, e cos'è peggio invasiva al punto da impedire persino una semplice indifferenza.

Dopotutto, sapete qual'è il film dove Tim Burton ha incassato di più? 
Alice nel Paese delle Meraviglie. Esatto, proprio quel film. Quell'orrore benpensante, terribilmente lucido per essere un film di Alice, rigonfio come un bubbone molesto di effetti speciali, infedele al libro (non che a me importi, dell'esattezza della trasposizione, ma per sommare difetto a difetto...), con una protagonista insopportabile e un Johnny Depp pronto alla decapitazione per incapacità attoriale.
Eppure, tra i tanti piccoli gioielli di Tim Burton disprezzati&ignorati, la pellicola di Alice rimane la più redditizia. Perchè, vi domanderete. Perchè a finanziare l'intera operazione c'era la Disney.
E qualunque cosa tocchi la Disney nell'ultimo decennio, diventa oro puro.

lunedì 26 ottobre 2015

My Little Moray Eel, di Lucia Patrizi - Recensione


Uno sperduto paesino presso la costa. 
Una vecchia donna dalla gola martoriata che vive solitaria.
Il richiamo del mare, una murena per compagno e una storia di sangue e sale da raccontare.

Fin dalla sua prima immersione, Sara ha compreso di essere diversa dal resto dell'umanità e persino diversa da quel già diverso insieme di persone che amano il mare, dal sommozzatore esperto al marinaio brizzolato. 
Durante le sue prime esperienze coll'acqua, ha scoperto di poter entrare in contatto col mondo sottomarino e di poter comunicare, a un livello telepatico, con il mondo di pesci e creature che ci vivono. In altri tempi, persone come Sara sarebbero diventate il centro dell'adorazione di primitivi popoli devoti a Nettuno; nel ventunesimo secolo alterna il piacere delle immersioni con la fatica di controllare un potere al fondo incontrollabile. 
Tra i tanti esseri che popolano il mare, Sara ha stretto uno speciale rapporto con Lui, una murena verso cui prova un'amicizia e una comunanza che supera il rozzo legame padrone-animale del mondo terricolo.

Nel frattempo, siamo nel 2012, l'immersione del batiscafo di James Cameron al fondo delle Marianne ha prodotto una scoperta molto più entusiasmante di qualche sasso e un ragno abissale.
Prima di venire scartavetrata via, la telecamera subacquea ha ripreso la figura spettrale, ma chiaramente visibile di un uomo. Una figura umanoide, che vive in quelle profondità. Sono coloro che gli spettatori presto definiranno “Quelli degli Abissi”.

Quando “Uno degli Abissi” viene catturato al largo delle Filippine da “Uno dei Terricoli” l'atto è erroneamente interpretato dal popolo subacqueo come un casus belli. Presto, sia sul fronte umano che sottomarino la guerra dilaga: gigantesche murene stritolano i sottomarini, le navi cargo affondano l'una dopo l'altra, mentre Quelli degli Abissi invadono in gocciolanti schiere le zone abitate presso la costa. L'esercito reagisce con armi biologiche e droidi con atomiche, cancellando dalla natura intere biosfere.

Mentre la battaglia infuria, la telepatia di Sara e la sua peculiare amicizia con una murena sospettosamente simile ai grandi serpenti marini non passa inosservata alle autorità militari...

venerdì 23 ottobre 2015

Eleanor Cole delle Galassie Orientali, di Alessandro Forlani (Edizioni Imperium)


Nel barocco futuro del duemilacinquecento, l'umanità popola le più remote stelle della galassia.
A far da collante tra le civiltà planetarie e il vasto oceano della galassia troviamo una società di Corporazioni evoluta dalle attuali multinazionali. Compagnie commerciali grandi quanto intere nazioni e con flotte di centinaia di navi a proprio comando solcano lo spazio profondo per portare la civiltà capitalista finanche ai più retrogradi abitanti umani del più lontano asteroide della Via Lattea.
Queste Multinazionali Galattiche stringono accordi, siglano trattati, guerreggiano l'un l'altra per il possesso di una firma, di un marchio, di un logo pregiato.
Organizzate secondo una contorta parodia dell'ancient regime di Luigi XIV simboleggiano l'evoluzione terminale di quell'identiche multicorporazioni che oggigiorno appaiono già immortali: dall'Apple alla Microsoft, alla Nestlè, alla Shell, alla Farben ecc ecc
I prodotti commerciali, le pubblicità e i carillon infernali che dal secondo dopoguerra in poi ammorbano i cittadini-consumatori del globo sono per queste società del duemilacinquecento inestimabili opere d'arte. La spazzatura pop che tutt'ora s'inizia a considerare “arte” (si veda “l'amore” per il trash anni Ottanta) viene da questo neo-barocca società considerata l'apice della cultura umana.
Nobili di Logo colonizzano così pianeta dopo pianeta, ricavando ogni possibile profitto dalla vendita dei proprio “marchi” con l'ipocrita scusante di civilizzare le società isolate dei terricoli.
Le flotte corporative bombardano i pianeti colonizzati con prefabbricati e capsule di supermercati e negozi, boutique e banche, concessionarie e sale giochi, con tanto di robot o commessi in vitro pronti alla vendita nel momento dello sbarco.
Per citare il cattivo del romanzo, Sarastro, le Compagnie commerciali affrancano i coloni dei pianeti “rintronandoli di stronzate”.

martedì 13 ottobre 2015

Il tramonto del Sol Levante: il Giappone negli anni Novanta (National Geographic)


Lo scorso autunno avevo tratto da un vecchio numero del National Geographic un breve articolo sul Giappone durante le Olimpiadi del 1964, cercando di trasmettere almeno un pizzico della grandiosità del boom economico nipponico.
Un anno dopo, ritorniamo sull'argomento con un brusco salto temporale: per un bizzarro colpo di fortuna, la mia rigatteria preferita ha ricevuto un nuovo carico di National Geographic, stavolta squisitamente anni novanta.

“Il sole del Giappone sorge sul Pacifico” costituisce un lungo reportage sull'espansione culturale e commerciale giapponese attraverso l'intero Sud Est asiatico, la Cina, la Corea, fin fine all'Australia e alla costa occidentale degli Stati Uniti.
Il giornalista, Arthur Zich, è un fedele facsimile di quel William Graves che nel 1964 esplorava Tokyo: fortemente critico, preoccupato, altresì parecchio razzista.
Come nel 64' il giornalista guardava al Giappone in bilico tra l'ammirazione e la sensazione eccentrica di vedere uno distorto specchio della società americana, così nel 91' un incredulo americano intervista boccheggiante un'espansione che non sembra conoscere né morale, né limiti.
Dalla ricostruzione negli anni cinquanta, allo slancio industriale nel sessanta, dall'Olimpiadi di Tokyo, alla costruzione del treno-proiettile Shinkansen, dall'eccezionale crescita in un periodo di crisi quale gli anni Settanta, al boom mostruoso dell'elettronica e dei chip nei reaganiani anni ottanta... 
Il Giappone approdava nel 1991 colmo di benessere, e mai così squilibrato tra il suo effettivo possesso territoriale di poche isolette e il suo mostruoso potere finanziario.

Dalla rassegna, non è difficile capire perchè per un osservatore di allora il Giappone sembrasse tra le maggiori potenze leader. C'erano tutte le ragioni, esposte nei decenni precedenti, per continuare a credere che il Giappone costituisse il Futuro, con la F maiuscola.
Un futuro intrecciato a incomprensibili tradizioni che nessun gaijin avrebbe mai compreso, un futuro di suicidi e drogati di straordinari, di Corporazioni e monopolii, di inquinamento e cementificazione; ma pur sempre il futuro.
Non a caso, Blade Runner ripropone proprio questa mescolanza di vecchio e nuovo, nel suo vero protagonista, la città: vecchie usanze, aggeggi vintage e tecnologie da urlo si fondono per descrivere più che il futuro, un retrofuturo per come allora lo immaginavano.

Logicamente, per noi storici e uomini del duemila, il tracollo economico del Giappone dalla seconda metà degli anni novanta risulta qualcosa di ovvio, di inevitabile: si capisce senza difficoltà, come il Giappone campasse in realtà di rendita dagli anni sessanta e ottanta.
L'esercito di impiegati che aveva permesso la ricostruzione aveva prodotto una generazione meno masochista, meno indotta al sacrificio. Una generazione che pretendeva finalmente del tempo libero, e turni meno massacranti.
Il sistema patriarcale cedeva a un disperato edonismo, che sfilacciava relazioni e amicizie, mentre le donne giapponesi cercavano di sfuggire alla trappola di un matrimonio precoce e i giovani preferivano una gratificazione immediata alle prospettive di una lunga&estenuante carriera.
Lo yen, pompato oltre i suoi normali standard, si sarebbe sommato a una crisi nel sistema immobiliare e tutti questi sintomi sarebbero scoppiati in un bubbone di povertà.

Le condizioni di un meritato crollo, per un effetto congiunto sia di motivazioni finanziarie che sociali abbondavano: tuttavia, se tralasciamo l'efficace descrizione dell'edonismo giapponese nato negli anni ottanta, il reporter non avverte alcun tremore del terremoto economico che minacciava la società giapponese.