Mi risulta sempre difficile scrivere di
cinema, perchè in questo campo più che in altri avverto una forte
mancanza professionale. Internet rigurgita di esperti e recensioni,
ma trovare chi, tra questi, ne sappia davvero è un'impresa molto,
molto difficile. Ogni canale Youtube contiene un aspirante cinefilo,
ogni studente di cinema deve possedere la sua pagina, il suo
blogghino di piccole opinioni.
Perfino nell'ambito delle bacheche e
dei profili privati tutti, dal vicino di casa al postino, sembrano
aver una laurea cum lode nelle più raffinate tecniche
cinematografiche. Va da sé, che tolti i paroloni e smascherate certe
mode, i veri esperti scompaiono all'improvviso.
Un recensore che sappia davvero
recensire dovrebbe avere un set di valori e parametri tecnici cui
attenersi, che mescolino abilità oggettive (saper riconoscere le
inquadrature, i colori, la regia, gli effetti speciali, saper
compiere le necessarie storiografie e cronologie...) e giudizi morali
(laddove questa moralità non deve tramutarsi in moralismo, né
sopraffare il giudizio tecnico).
E' preferibile leggere una recensione
onesta, dove l'autore ammette il suo background culturale e le sue
convinzioni, che l'ennesima trita&ritrita analisi pseudoggettiva,
dove i pregiudizi del soggetto vengono mascherate da puntigli di
carattere tecnico.
A proposito ad esempio dell'ultimo trailer dei Fantastici Quattro, preferirei che i nerd che si lamentano del cambio
di pelle dell'uomo torcia ammettano pacificamente che si tratta di un
loro, personale pregiudizio. Lamentarsi della negritudine della Torcia Umana come insopportabile (?) tradimento del canone originale non è
essere nerd, è “essere razzista”.
D'altronde gli stessi
recensori che piangono sui Fantastici Quattro hanno accolto con
piacere la notizia che Motoko Kusanagi, la protagonista giapponese
dell'anime giapponese (e in alcuni punti anti-americano) Ghost in The Shell, verrà interpretata da Scarlett Johansson. Perchè scegliere
un'attrice bianca per interpretare un ruolo orientale in un film
ambientato nella Tokyo cyberpunk anni novanta è qualcosa che
francamente mi sfugge. Tanto più che il resto della squadra della Maggiore è a
sua volta giapponese e sempre a sua volta agisce nelle tradizioni e
nei costumi giapponesi. Questa violazione del canone ovviamente è
stata accolta con favore, perchè permette di occidentalizzare una
trama che altrimenti - poveri ciccioni americani - sarebbe troppo
difficile da comprendere.
Un recensore dovrebbe dunque giudicare
un film in totale astrazione, sulla base di una serie di parametri
fissi che si è posto. In questo modo prescinderebbe sia dalle mode
del momento, che giudicano un film a seconda dell'attenzione che vi
riserva il pubblico, sia da un certo conservatorismo cinefilo, che
automaticamente promuove un film sull'unica base dell'anzianità del
regista. Big Eyes di Tim Burton, pellicola da consigliare solo agli
insonni, diventa così un capolavoro... non sulla base di
argomentazioni oggettive, ma solo perché l'ha girato Tim Burton!
E' dunque preferibile in questi casi
leggere le recensioni di chi magari ammette senza problemi la sua
ideologia e proprio per questo scrive con chiarezza e senza peli
sulla lingua; le recensioni cattoliche di Frozen, o di Avatar sono
pungenti, ma se non altro oneste. Sulla base di alcuni valori, si
decide di rigettare il film. Tralasciamo che per me Frozen, con il
merchandising e con la sua pubblicità esasperata rappresenta il
peggio del turbocapitalismo disneyano... (1)
Questi “attrezzi”, questi strumenti
per recensire non li possiedo. Non guardo film a sufficienza per
poter esprimere giudizi. Quello che posso fare, come in
quest'articolo, è segnalare prodotti interessanti, che reputo
criminalmente misconosciuti. E pur con questa premessa non voglio
scusare mie eventuali gaffe o errori di ricerca, di cui mi scuso fin
da subito con gli specialisti dell'argomento, o con chi di cinema ha
studiato (buon per lui!).

In questo caso la segnalazione è Black
Power Mixtape 1967 – 1975. E' un documentario. Quest'etichetta
ovviamente peggiora le cose, perché evoca immediatamente tutte le
sensazioni che siamo soliti associare ai documentari: savane, zebre e
tigri, noiosi commentari di vecchi bacucchi sugli ecosistemi
dell'africa subequatoriale... Il documentario come viene inoltre
proposto di solito è associato all'istruzione e prevede un fine
didattico che prevarica sul piacere dell'immagine. La tipica cosa che
si fa quando si guarda un documentario è fare i compiti per l'ora di
lezione successiva o in alternativa starsene a letto con la febbre.
Non è questo il caso e vi posso citare almeno altri cinque
documentari degli ultimi dieci anni che riscattano il genere sia sul
profilo stilistico che contenutistico. In questo caso dunque non
abbiamo l'ennesimo lacrimevole documentario sull'Africa nera, ma in
un certo senso il collegamento sussiste, perché dal vecchio
continente ci spostiamo nel nuovo e sono gli afroamericani degli anni
sessanta i protagonisti, mentre il colore nero oscilla dall'esterno
dei protagonisti, al nero (dentro) del marciume capitalista che
proprio in quegli anni del Vietnam e di Nixon, comincia a rialzare la
testa.