lunedì 24 ottobre 2016

Ritorno al futuro: Lucca Comics nel 1980


Moebius secondo Rick Veitch
Una delle lamentele che sento di più a proposito del Lucca Comics non è la mancanza di spazio, o l'invadenza dei cosplay, quanto la progressiva scomparsa dei fumetti. La fiera, dagli esordi a fine anni '70, si è certo ingrandita a dismisura, ma diluendosi sempre più, perdendo quel suo carattere di fiera del fumetto per appassionati che aveva agli esordi.

In realtà è un problema relativo. I collezionisti di fumetti, gli aficionados dei comics hanno oggigiorno strumenti migliori di Lucca; fiere specializzate apposta, sia sul territorio nazionale che all'estero; Ebay; gruppi di scambio; Amazon; fumetterie locali; fumetterie da supermarket; e così via. Dall'altro, diversificare Lucca Comics passando ai Games, alla Japan Town, ai cosplay, ha permesso di attirare anche lettori comuni, cittadini incuriositi dall'ambiente. Considerando come i numeri di fumetti venduti siano oggigiorno bassissimi – mai quanto i romanzi, ma comunque molto bassi – non possiamo certo permetterci di fare gli elitari, di avere la puzza sotto il naso. Io stesso, al di fuori di Alan Moore, sono un lettore di fumetti occasionale: non sopporto i supereroi, sopporto a stento i fumetti comici, ho letto troppo Zio Paperone da piccolo per leggere con incredibile faccia tosta “Topolino”, come fanno molti universitari. Eppure, al Lucca Comics scopro sempre autori che non conoscevo e cerco sempre di provare dei fumetti nuovi, rischiando a volte una delusione, ma scoprendo spesso nuovi generi e nuovi disegni a cui altrimenti non mi sarei nemmeno avvicinato con una pertica. Tuttavia, come per me e come per tanti altri “saltuari” lettori, i fumetti sono solo una parte della Fiera; uno dei tanti ingranaggi di una catena di trasmissione che non deve dimenticare le altre sue rotelle, siano i concerti geek, le sfilate, le anteprime dei giochi da tavolo, le infiltrazioni videoludiche nel padiglione Games ecc ecc Le si può disprezzare, ma sono anch'esse parti fondamentali. In piena sincerità, se il Lucca Comics fosse soltanto una fiera di fumetti, o di romanzi di genere, non verrei, perché quanto cerco è l'atmosfera complessiva di più e più fattori, non la ricerca economica di un dato acquisto, sia un albo fumettoso o un romanzo fuori edizione.

venerdì 21 ottobre 2016

I miei due cent su Donald J. Trump


L'atteggiamento di Roosevelt nei confronti dell'Unione Sovietica era piuttosto arrendevole, questo lo sappiamo tutti. Stretto tra le due potenze, Churchill si sentiva come la Polonia in un conflitto globale. Come ogni politico abile, Roosevelt considerava l'Unione Sovietica uno stato con cui trattare, concludere accordi e poter ragionare: una potenza bruta, un po' stupida, sgradevole, ma dallo status diplomatico riconosciuto. Dall'opposizione politica all'opposizione ideologica si passa dapprima con Truman e non si tratta necessariamente di un passaggio obbligato. La guerra fredda non era inevitabile fino a quel punto; la tensione post conflitto avrebbe potuto allentarsi, pur con l'ipocrisia della realpolitik. Sono anni di ricostruzione post bellica e di finanziamenti ingenti all'Europa. A retrospezione, è incredibile quanto riuscisse a ottenere la Russia in popolarità con il minimo sforzo, e all'opposto quanto l'America faticasse a imporsi con le più esagerate elargizioni.
Il clima di continuo scontro con il gigante russo, la guerra ideologica per convincere il popolo americano che ci fosse un nemico ineliminabile, inumano e mostruoso al di là della cortina di ferro deve aver lasciato le sue belle cicatrici anche nelle generazioni più recenti. Il crollo del muro risale a neanche trent'anni fa, siamo ancora dentro generazioni su generazioni di menti addestrate a concepire l'est come un'orda mongola pronta a invaderli. Psicologicamente, in Europa, l'abitudine mentale a vedere nell'America la salvezza sempre e comunque rimane molto forte. L'immagine è positiva, magari incrinata dagli ultimi dieci anni di totale incompetenza, ma pur sempre positiva. Non mi sto riferendo a vegliardi, a reduci, a pensionati, ma semplicemente a persone che vivevano negli anni '70 e '80 la loro giovinezza.



lunedì 17 ottobre 2016

Alyssa Wong, Sirene e Figlie Fameliche


Ho un pio desiderio: leggere articoli sugli scrittori dove effettivamente si parli di cosa scrivano e non ci si limiti a postare una frase di circostanza, due paroline sulla sua vita privata e una marea di fotografie fotogeniche. Scrivo questo perchè tale è il caso di Alyssa Wong, autrice horror filippina di cui tutte le anteprime italiane si limitavano a menzionare le origini “esotiche”, sottolineate dall'altrettanto esotica apparenza (in realtà, a riprova dello stereotipo, io pensavo fosse koreana).
Siamo qui in presenza della stessa tattica adoperata per Sapkowski e gli scrittori dell'Est Europa; quanto costituisce una caratteristica personale dello scrittore, una sua virtù di persona, diventa invece attributo di un popolo intero. Sapkowski scrive in quel modo pertanto non perchè scrittore, ma perchè polacco; Alyssa Wong scrive quel tipo di horror non perchè sia originale, ma perchè filippina... e si potrebbe andare avanti a lungo, specie con gli orientali. Proprio ieri leggevo sulla bacheca facebookiana di un amico definire gli abitanti di Tokyo “tokyoites”, con una descrizione tale da rivaleggiare con gli alieni della fantascienza. Eppure le caratteristiche rimproverate a Tokyo non erano minimamente originali, si trattava di semplici attributi di ogni metropoli, come può essere New York, Parigi, Berlino. Usare però l'espressione “tokyoites” permette di isolare il soggetto, rinchiuderlo dentro un'aura esotica.

venerdì 14 ottobre 2016

La maschera di Musashi


Junger racconta nel suo diario come, quand'era giovane, il mondo del romanziere russo Tolstoj gli sembrasse reale quanto il nostro: negli anni vissuti nell'ozio dell'intellettuale in seguito alle ferite nella Grande Guerra, aveva acquisito quest'abitudine mentale; i personaggi, gli ambienti e i “tipi” descritti da Tolstoj gli balzavano di fronte agli occhi di continuo, confondendo reale e narrativa.

Questo bagaglio di riferimenti, di ricostruzione che oggi definiremmo “virtuale”, era possibile solo per l'ampiezza stessa dei mattoni romanzi russi: oggigiorno risulterebbe impensabile. E' interessante, a questo proposito, come sia divenuto un complimento definire un romanzo “leggero”, in allegra compagnia con aggettivi leopardiani come “vago”, “impalpabile”, “si legge velocemente”, “agile” ecc ecc La povertà, se non l'assenza, delle descrizioni nelle opere attuali impedisce di citarle, di vederle nel reale; l'operazione compiuta da Junger fallisce miseramente. Per altro, saltare le descrizioni per lasciar tutto all'immaginazione del lettore presuppone che il lettore abbia fantasia, cosa tutt'altro che scontata...

venerdì 7 ottobre 2016

Fosco Maraini, Ore giapponesi


Non so da dove derivi quest'idea che il popolo italiano sia esperto di cose giapponesi. Certo, per carità, siamo stati con la Francia all'avanguardia con gli anime e col riconoscere agli stessi dignità artistica; e sempre assieme alla Francia abbiamo tradotto ed esportato in Europa una larga produzione di fumetti e cartoni, dando loro piena dignità artistica e di adattamento.
E vi sono tratti culturali per certi versi sorprendentemente comuni: la mania di formare grandi conglomerati, il gusto per un etichetta esagerata, il suono stesso della parola, mai aggrovigliata.

Al di fuori di queste coincidenze e di un largo e ampio turismo, non possiamo minimamente paragonarci alla Francia o all'Inghilterra. Accetto nomi di grandi studiosi italiani del Giappone, se ne avete da consigliare, ma è un dato di fatto che ci mancano la traduzione della maggior parte delle opere classiche nipponiche: il romanzo di Genji, ad esempio, è stato interamente tradotto solo di recente e per altro non so se nell'edizione corretta o in una versione romanzata nel giapponese moderno. Così per i 3/4 dei classici letterari giapponesi che non risalgano al secondo dopoguerra. 
Come rilevava Sauro Pennacchioli, persino i manga non sono così ampiamente tradotti come si potrebbe pensare.
Il mondo anglosassone è stato il primo ad approcciarsi alle isole del Sol Levante e mantiene in tal senso il primato di traduzioni, anche a livello raw, incomplete, vecchie, ma pur sempre disponibili.
La Francia ha invece una comunanza artistica, un livello eclettico sorprendentemente simile.

Nel libro di oggi, Ore giapponesi, di Fosco Maraini, l'autore osserva sconsolato come i contatti tra il suo popolo e quello giapponese siano finora stati sporadici e sterili: che il saggio suoni attuale nel 2016, come nel 1956 in cui veniva scritto non è affatto una cosa positiva!

Come definire Ore giapponesi?
L'autore, di professione fotografo, ritorna in Giappone dopo un lungo periodo di assenza. Aveva lavorato sulle isole negli anni '30, venendo poi incarcerato e soffrendo le pene dell'inferno nei campi di prigionia del Giappone più totalitario. Nonostante tutto, Fosco però non è affatto così fosco sul suo destino e quello del Giappone: da ogni pagina trapela infatti l'amore dell'autore per la cultura giapponese.

Si tratta dunque di un diario di viaggio?
Solo in un senso, perché non ne possiede né la brevità, ne completamente il carattere autobiografico.
Si tratta dunque di una guida di viaggio?
Ancora una volta, solo in un certo senso, perché non vi sono espliciti consigli su cosa visitare, nonostante l'autore effettivamente descriva ed elenchi località storiche e templi d'interesse.
Si tratta di un romanzo?
La struttura è quella di un diario, le vicende sono vere, ma la narrazione scorre con alcune incredibili coincidenze. Quindi sì, scorre come un romanzo ben scritto.
Si tratta di un album fotografico?
Domanda bizzarra, ma assolutamente sì! Vi sono numerose immagini, anche a colori nonostante l'anno di fabbricazione del 1956, con alcune gradevoli illustrazioni interne. Certamente il lavoro di Maraini è il fotografo: senza le foto, il pur massiccio testo perderebbe gran parte del suo valore. Nonostante le oltre 500 pagine, ci troviamo davanti a un testo nato come accompagnamento delle fotografie. Le più lunghe didascalie siano mai state scritte, ma pur sempre delle didascalie.

Autunno, incendio di boschi. Momiji in fiore e vecchie lanterne di pietra a Takao, presso Kyoto. 

mercoledì 5 ottobre 2016

Voici. La fantascienza vittoriana di Robida diventa un videogame.


Anno duemila. Ogni promessa dello scientismo vittoriano, del positivismo inneggiante al progresso, dell'arte avanguardista, si è realizzata. I timori, le paure ridicole di una “guerra mondiale”, di un abbrutimento dell'uomo sotto la servitù della macchina si sono rivelate previsioni false, pessimismo di vecchi barbogi. Il duemila è qui, ed è vittoriano.
La città, francese come tutte le belle città, si è elevata in altezza, con guglie, campanili e piattaforme d'atterraggio. Mongolfiere, dirigibili, palloni gonfiabili, aeronavi, blimp, elicotteri monoelica, spirali leonardesche riempiono l'aria. L'essere umano si è fatto uccello, senza per altro dimenticare cilindro e giacca nell'evoluzione. Nessuno perde più tempo con treni e automobili, tutti volano.


lunedì 3 ottobre 2016

The Shadow Planet: A message from the dead!


Nonostante nel caso dei fumetti i difensori della carta abbiano ogni diritto a preferire il volume da sfogliare all'asettico .cbr da tablet, anche il digitale può riservare sorprese. Il crowdfunding dovrebbe sempre includere, nella lista di offerte della campagna, un'opzione economica per chi non vuole sobbarcarsi il costo delle spedizioni e vuole solo i file nudi e crudi. Pur avendo qualche dubbio su certe scelte di marketing e di piattaforma (Indiegogo), ho sempre ammirato la scelta della Radium di offrire 5 euro a chi volesse avere tutte le puntate del fumetto. E' un'opzione estremamente allettante per chi non voglia rischiare o si ritrova, ahimè caso mio, sempre in ristrettezze economiche. 
Inoltre, permette di avere a tempo record la prima uscita!


E' il caso del primo numero di Shadow Planet, dei Blasteroid Bros.
Si tratta di un progetto Radium lanciato (nello spazio?) a giugno, su cui avevo scritto un'entusiasta raccomandazione, augurandomi che riuscisse a concretizzare quel miscuglio assurdo che prometteva nella pagina su Indiegogo: un brodo di atompunk anni '50, condito con un bel po' di Alien, una spolverata del Pianeta Proibito, un pizzico di Lovecraft e last, but not least una frittura nella disillusione -punk di chi tutte queste cose le ha vissute.

Una navetta della Federazione, uscita dall'ibernazione per un rendez-vous con la flotta, capta una richiesta di soccorso dalla goletta scientifica E/Rico, secondo gli archivi del comando stellare ritenuta distrutta trent'anni prima. Ansiosi di sbrigare la seccatura, l'equipaggio scende sulla desolata palla di roccia nota come Gliese 667 a investigare. Si tratta della capitana Jenna, l'addetta alle comunicazioni Nikke e il secondo in comando Vargo. La capitana è una donna mascolina, dal caratteraccio sbrigativo, con un infelice affare con Vargo, Nikke una nervosa nevrotica e Vargo un imbranato cowboy dalla pistola fin troppo pronta. Seguono altri membri dell'equipaggio, chiaramente superflui in sede di sceneggiatura se non come carne da cannone.


La storia si sviluppa partendo, come da tradizione, con una sequenza onirica (Event Horizon, Aliens ecc ecc), cui segue un ritrovo generale dell'equipaggio, lo sbarco sul pianeta e l'investigazione. 
A livello di atmosfere, le prime tre pagine sono un incipit stratosferico, una sequenza d'immagini horror notevole, in particolare nel passaggio dalla vignetta col mostriciattolo al pozzo sacrificale che accompagna i titoli di testa. Successivamente la storia si sviluppa seguendo linee più tradizionali, approfondendo la conoscenza con l'equipaggio e iniziando a inserire indizi sul perchè rispondere a quella richiesta di soccorso non sia stata una così buona idea...
Dopo vignette dense di dialoghi, l'atterraggio e la prima esplorazione del relitto su Gliese 667 sono sequenze silenziose, di lunghi panorami. L'astronave abbandonata sfrutta i soliti giochini di luci e ombre, robot e scafandri; da quel momento in poi l'avventura accelera in uno slasher con un anticlimax alla fine piuttosto azzeccato (la “pala”).

E' troppo presto per giudicare la sceneggiatura, che al momento sembra funzionare alla grande; un po' scarsi i dialoghi, con delle battute e un turpiloquio che sembrano fuori posto. Complice anche i disegni, la caratterizzazione dei personaggi è marcata; inutile sottolineare come il mio preferito sia quell'amabile coglione trickster di Vargo.


Il design e il lavoro di worldbuilding sono invece diverse tacche sopra, siamo in un setting che non immaginavo così buono dall'introduzione su Indiegogo. Il modulo sferico per entrare nell'atmosfera con le zampe a papera; gli interni delle astronavi (tubi, tubi everywhere); il robot spilungone e contrapposto lo scafandro “obeso”; in generale un'atmosfera molto dark e molto poco “pulp”.

L'uso dei colori è da maestro, giocata sulla continua contrapposizione di colori “caldi”, terrosi a una vasta gamma di grigi e bluastri spenti. All'esterno, per la luminescenza dei pianeti e delle stelle troviamo un rosso acceso, l'arancione, il giallo; all'interno invece domina una palette di grigio, marroncino, verde bottiglia. Il rosso delle tute, scuro in rapporto all'esterno e acceso in rapporto all'interno, funge da tramite tra i due colori. Le tute, non si sa come, risultano credibili e ho apprezzato piccoli tocchi come i caschi di colore diverso a seconda della mansione.
Aspettiamo il secondo numero fiduciosi di un'escalation di mostri e gore e nichilismo cosmico (siamo nello spazio, dopotutto...)