venerdì 30 settembre 2016

Providence 08. The Key, di Alan Moore. Annotazioni, analisi e traduzioni.


Considero Providence 08 uno dei turning point della saga di Alan Moore.
Nei numeri precedenti di Providence, l'elemento orrorifico era predominante: che fosse politico, cosmico, sociale, gore, puramente soprannaturale, lo scopo era trasmettere la paura e l'angoscia del protagonista. Con Providence 08 invece, il discorso si apre ad altri sentimenti e altri orizzonti, pur restando pienamente nei canoni lovecraftiani.

Vediamo qui compiutamente all'opera quale ampiezza, quale dimensione abbia preso la ricerca di Moore: invece che limitarsi, come tanti epigoni pennivendoli, ai racconti dell'orrore, il buon Alan arriva finalmente a trattare le Dreamlands di Lovecraft. Comprende perciò che non tutto Lovecraft è horror e non tutto Lovecraft è Cthulhu; realizzazione a cui molti sedicenti “appassionati” ancora non arrivano. Sul suo sito, S. T. Joshi ha sottolineato più e più volte quanti e quali interessi nutrisse Lovecraft; come al di fuori della fiction avesse coltivato una personale filosofia e stile di scrittura che pur rigettando (nei contenuti) il Modernismo, in realtà (nella forma) lo adottava senza remore.
Uno studio dell'epistolario, come della filosofia lovecraftiana è ancora parziale e frammentato: e uno dei principali ostacoli resta senza dubbio l'ostinazione con cui sia fan che anti-fan si concentrano su una minima parte di quanto ha scritto, trascurando tutto il resto.
Dove sono gli studi sul concetto di scienza per Lovecraft?
Sulla sua evoluzione filosofica?
Sul newdealismo/interventismo statale degli ultimi anni?
Dove sono – è il nostro caso – gli studi sulla sua produzione dunsaniana, di stampo onirico?

Per i fan, ogni minimo aspetto della vita del povero H. P. dev'essere ingigantita, distorta, mitizzata fino a trasformarla in un aspetto dei suoi racconti. 
Quel dato evento traspare in quella data opera; quel trauma in quello specifico mostro... 
Quando questo genere di analisi non funziona, il fan si limita a cercare dettagli inquietanti, sulla base del semplice assioma: racconti inquietanti = scrittore inquietante. Dall'altro, gli anti-fan si limitano a riprendere queste scenette, queste citazioni della vita di Lovecraft, capovolgendole però in chiave negativa: l'inquietudine diventa così razzismo, fobia, nazismo, comunismo ecc ecc
I fan e gli anti-fan (etichetta dove raccolgo sia gli haters puri che alcune frange intellettuali) sono però stranamente simili: entrambi cercano un Lovecraftmitico”, probabilmente mai esistito, dotato di orribili o meravigliose caratteristiche a seconda dell'interlocutore.

Perchè finalmente si riconosca il valore di Lovecraft bisognerebbe abbandonare questa “idolatria” di Lovecraft per abbassarlo a quanto ha sempre voluto considerarsi: un essere umano tra i tanti, contraddittorio e propenso a cambiare come tutti. Si potrà allora accorgersi di quanti e quali aspetti si continua a trascurare, senza infognarsi nelle solite polemiche.

In Italia, lo studio di Lovecraft è nel vicolo cieco dell'evoluzione a causa della traduzione mancata di ogni studio accademico serio: ogni articolo su Lovecraft vi sa citare due soli autori: Stephen King e Houellebecq. Ironia delle ironie, sono due autori tra i peggiori nel campo, sostenitori a oltranza di un Lovecraft talmente stereotipato da risultare una marionetta, un involucro che ha l'unico scopo di contenere le idee dei due autori, senza il minimo legame con la realtà, che sia la bibliografia, o l'epistolario del Solitario di Providence. 
King, che ritrovo citato ovunque in articoli persino universitari, o presunti tali, non ha mai compreso nulla di Lovecraft, se non quei due concetti e quei due personaggi da plagiare a oltranza. Non metto in dubbio che King sia un bravo romanziere, ma non è uno studioso e si vede: non c'è alcuna riflessione seria su Lovecraft, il che bene si accorda con il suo anti-intellettualismo
Houellebecq “inventa” il suo Lovecraft per adattarlo alle sue idee politiche, tirando fuori qualche idea interessante (le osservazioni sullo stile di scrittura, ad esempio, le critiche a Freud) ma in ultima analisi anche lì Lovecraft non esiste, ne sopravvive solo un esagerato “mito”. 
Non abbiamo roba tosta, cazzuta, non abbiamo nemmeno le fondamenta: rendiamoci conto che tutt'ora S. T. Joshi è stato tradotto in più lingue, russo compreso. Russo, diamine! 

In America, è ormai impossibile menzionare Lovecraft senza ricevere una minaccia; o da chi ti accusa di razzismo, o da chi ti accusa di svalutarlo. Stretto tra le due morse, non c'è da sorprendersi se S. T. Joshi stia diventando sempre più un vecchio malmostoso chiuso sulla difensiva. Dev'essere frustrante vedere svanire il lavoro di una vita da scrittori ansiosi di sollevare un po' di pubblicità gratuita, che sia insultando, o all'opposto dichiarandosi il suo nuovo “erede”.

Con questo ottavo numero di Providence ci spostiamo nella direzione giusta, per altro finalmente ponendo su carta un Lovecraftuomo” che sia credibile senza risultare macchietta. Mostrare le Dreamlands forse spingerà qualche fan a interessarsi a qualcosa di diverso dal Ciclo di Cthulhu, anche se sono pessimista al riguardo...  

Come per gli ultimi 3 numeri delle annotazioni, le prime 13 pagine sono state tradotte da Matteo Poropat della Tana dello Sciamano. Fateci un salto, sta per lanciare un'interessante rubrica su Hellboy tra cinema e fumetto. Le annotazioni sono come sempre tratte da Facts in the Case of Alan Moore's Providence


The Key

lunedì 26 settembre 2016

Per uno stile di vita Biedermeier

So che con questo articolo sembrerò una persona ancora più vecchia nell'animo di quanto già non sembro normalmente, ma con diverse ore di studio alle spalle (o meglio, in testa) mi risulterà inevitabile. Sono come quel vecchio alla fermata del tram che proprio non resiste a raccontarvi quella sua storiella tanto importante. Gettategli qualche euro per starvene in pace.

Qualche settimana fa, discutendo sul mio (pseudo) luogo di lavoro, una collega elencava quanto a suo giudizio erano le cose-da-fare prima di raggiungere i quarant'anni. Viaggi, innanzitutto; e poi attività spericolate-ma-non-troppo, dall'immersione nella gabbia con gli squali al bungee jumping.
Mi dev'essere sfuggito allora uno sbadiglio e non solo perchè stavo cercando di studiare un testo tanto filo americano che sentivo la mia camicia colorarsi a stelle e strisce. No, sbadigliavo anche perchè ritenevo che fosse una lista di attivitàpericolose, eppure anche così... borghesi?
Il pericolo c'era, ma diluito a tal punto da risultare addomesticato, gestibile. Un brivido, nulla di più.
E non voglio certo dire che non ci voglia coraggio a nuotare tra gli squali, anzi il sottoscritto non sapendo nuotare affatto, probabilmente si spaventerebbe anche solo all'idea di immergersi in qualcosa di più della vasca da bagno casalinga. Quindi tanto di cappello, suppongo. Eppure, all'idea stessa di compilare una list of things to do prima di diventare “vecchi” mi sentivo schifato. Non erano vere attività, come non erano vere esperienze; si trattava piuttosto di cogliere un attimo particolare e consumarlo. Elencare le cose da fare trasmetteva un'idea di lista della spesa, di consumo generalizzato, in diretto contrasto con il lessico usato.
Da un lato, le solite cazzate buddiste/spiritualiste: cibo per l'anima, rigenerazione interiore, un'esperienza dell'animo ecc ecc
Dall'altro, un'attività programmata e preparata nel dettaglio, un oggetto-esperienza da consumare seduta stante. Solo in una società che quantifica tutto e tutti instancabilmente, sarebbe stato possibile arrivare a un simile combinazione di fattori:
  • Qualcosa d'impalpabile come “un'esperienza” vendibile attraverso un'attività.
  • Un'attività unica e irripetibile venduta con un suo programma predefinito, un suo listino e costo, una sua descrizione in dettaglio.
  • Un servizio a pagamento – perchè di questo discutiamo – presentato nemmeno come un'attività, ma come un'esperienza e per di più un'esperienza spirituale.
Già Slavoj Zizek lamentava giustamente come il consumismo moderno, non pago di avere un consumatore, pretende persino di avere un consumatore che non badi a ciò che compera, che lo consumi con disprezzo zen. Non basta che si comperi un oggetto e non si possa star bene senza averlo comprato; ma nella fase successiva all'acquisto occorre negare ogni attaccamento, considerarlo spazzatura, robetta poco importante. Insomma, perdiamo così persino la figura dell'accaparratore, materialista geloso e possessivo verso quanto acquista.

lunedì 12 settembre 2016

Dopo la marcia, la carica: Radetzky rivisto.


La classe intellettuale (la lobby intellettuale?) possiede sempre un set fisso di eroi e personaggi che vorrebbe che il “popolo” studiasse e idolatrasse, che variano a seconda del periodo storico e della classe dirigente.
 Attualmente, la storia sembra partire dal secondo dopoguerra e concentrare ogni suo eroe nei movimenti di emancipazione e lotta civile tra i '60 e i '70. La parola eroe viene rimpiazzata dall'attivista per i diritti umani e la gallery di eroi, pardon attivisti, si colora di personaggi passivi che s'immolano per i diritti di ristrette minoranze.
Durante la Restaurazione, la storia proiettava un raggio glorioso sull'ancient regime e sulle monarchie, contrapposte al terrore giacobino e alla tirannia di Napoleone. Gli eroi erano i martiri passivi trucidati dalla Rivoluzione e i generali e i re che avevano sconfitto Napoleone, principalmente inglesi come Wellington e Nelson.
Ovviamente, quanto gli intellettuali vogliono e il popolo desidera, è tutt'altra cosa. Nessuno ricorda per davvero gli eroi in salsa liberal del '60, come nessuno ricordava per davvero nel 1820 Napoleone come un “tiranno”. Al contrario, fin dai primissimi anni, il personaggio di Bonaparte conobbe un'immensa popolarità, una fama che resiste tutt'ora caparbia ai revisionisti, ai monarchici, ai liberali, ai pacifisti: Napoleone è, piaccia o meno, ancora un personaggio storico positivo.
Se si domanda a un ragazzino chi è Wellington, difficilmente saprà rispondere. 
Ma il Bonaparte? Egli mantiene un'aura grandiosa, impossibile da dissipare.
E' quella che chiamo la “vitalità” dei personaggi storici: alcuni sembrano destinati a scomparire, altri riemergono nei modi e nelle finalità più inaspettate. E ovviamente c'è uno scontro (odio?) tra chi i giornalisti e i demagoghi della classe dirigente vorrebbero “famosi” e chi invece ricorda e preferisce la gente. I sondaggi in Russia che rivalutano Stalin e Breznev tra larghe fasce della popolazione, o l'attaccamento verso eroi, pardon attivisti, come Snowden o Manning, ritenuti pirati, “pericolosi” idealisti, ladri di informazioni “segrete”.
E Radetzky? L'austriaco generale è un esempio di strategia di sopravvivenza al suo massimo livello, l'equivalente di un trilobita nel campo della storia. Un uomo dalla parte dell'Austria, un generale, corpacciuto e conservatore, che combatté in un anno, come il 1848, che vedo dimenticato persino dagli insegnanti delle Superiori. Eppure il trilobita Radetzky si fa ancora strada non sui libri, non sui giornali, ma sulla televisione: il primo dell'anno è La Marcia di Radetzky a erompere dallo schermo, in un inno che non ha nulla, assolutamente nulla di moderno.
E' Radetzky, cazzuto e semplice.
Certo, è Strauss, è Vienna... eppure non sarebbe così strano che di tempi così progressisti, tecnologici, fissati col nuovo si scegliesse qualcosa di più “chic”, più adatto.

venerdì 9 settembre 2016

Providence 07: The Picture, di Alan Moore. Annotazioni, analisi e traduzioni.


Il sistema di annotazioni in calce a ogni opera di Alan Moore potrebbe far pensare a un autore che ama i sottotesti. E certamente, la serie di Providence è un'opera complessa. Se anche un lettore casuale volesse apprezzarla, dovrebbe comunque, obbligatoriamente, leggersi almeno i racconti principali di Lovecraft. Trovo straordinario, come in un'epoca easy e volgare come questa, dove tutto dev'essere immediatamente disponibile e alla portata di tutti, ci arrivi sulla soglia di casa un'opera, che è per di più un fumetto, che richiede uno studio preliminare.
Roba che fa battere il mio cuoricino di universitario frustrato.
In secondo luogo, è falso che Moore usi davvero i sottotesti. Certo, vi sono più livelli di lettura, tante simbologie e giochi di rimandi, un incredibile lavoro di approfondimento linguistico. Tuttavia, il macguffin della storia consiste proprio nell'errata razionalizzazione di Black: i mostri che intravede, il soprannaturale con cui a che fare non sono “simboli” per altro, non sono metafore, o allegorie, come tenta disperatamente di spiegarsi nel Commonplace Book.
I mostri sono mostri, l'irreale è irreale. Non c'è alcun specchio distorcente, nessuna metafora, nessuna segreta spiegazione: la magia c'è, esiste. Pertanto Alan Moore usa Robert Black per trollare alla grande tutti gli intellettuali che usano il fantasy e l'horror per parlare d'altro, senza fare attenzione a trasmettere in primo luogo il sublime e la paura che generi simili richiedono.
Ne abbiamo un esempio grandioso in Providence 07, sulla falsariga del racconto Il modello di Pickman; nelle prime pagine, ospite del pittore, Black gli attribuisce una serie infinita di sottotesti:
… la rabbia dei ceti oppressi
… un diverso stato di coscienza
… ha un sottotesto politico

Non di tutto, ma di tutto per negare che i ghoul nel quadro siano i ghoul nella fotografia e che Pitman, lungi dall'essere un artista da strapazzo, è solo un pittore realista.

Con la settima puntata di questa serie, valgono i riferimenti dei numeri precedenti: il sito da cui ho tradotto le annotazioni è Facts in the Case of Alan Moore's Providence; le citazioni sono invece tratte dall'edizione della Newton&Compton Editori; fino a pagina 13 l'infaticabile lavoro di traduzione è stato svolto da Matteo Poropat della Tana dello Sciamano. Non sarei riuscito a completare con tanta velocità le annotazioni senza il suo aiuto, specie in questo periodo di fittissimi esami, per cui gli sono terribilmente riconoscente.


The Picture

lunedì 5 settembre 2016

La Narnia maschile di C. S. Lewis e la Narnia femminile di Pauline Baynes


E' consolante come da bambino si apprezzi una storia per quello che al fondo è, cioè una storia, bella o brutta. Solo successivamente, con un bagaglio culturale alle spalle, ci si rende conto di quanto un autore avesse insistito su quella metafora, su quell'allegoria, su quel messaggio ecc ecc
Tuttavia, a una lettura “ingenua” nulla di tutto ciò emerge, ci si limita a leggere e gustare l'avventura. Non è un'ammissione d'ignoranza, ma al contrario una rassicurazione su come, per l'ennesima volta, non si debba considerare il bambino come un idiota che assimila qualsiasi ideologia gli si proponga, ma anzi, un soggetto che sa badare a ciò che conta per davvero, protagonisti e trama. Nel caso in questione, un bambino che legge Il leone, la strega e l'armadio, non riconoscerà mai l'allegoria cristiana dietro, per altro molto spicciola – il dolcetto turco per il frutto proibito del Giardino dell'Eden, il leone Aslan come Gesù, la sua morte e resurrezione come una Via crucis fantasy ecc ecc – si limiterà invece a leggere una storia che troverà divertente. Se anche uscisse fresco fresco da quel tempio dell'inutilità che è l'oratorio, non riconoscerà mai l'allegoria. Valuterà il romanzo in base all'intrattenimento e alla piacevole immedesimazione che gli permette; senza dubbio da quel punto di vista C. S. Lewis è un bravo narratore, piacevolissimo.

Man mano che le Cronache di Narnia proseguono e le invettive di Lewis aumentano, quest'incapacità del bambino di percepire il sotto fondoideologico” si rivela sempre più fortunata.
Consideriamo ad esempio il penultimo libro, La Sedia d'Argento. Scomparsa l'epica alla Tolkien del primo libro, come il gusto per la scoperta e l'avventura metafisica del Viaggio del veliero, La Sedia d'Argento già preavverte la pesantezza morale de L'Ultima Battaglia. Dietro gli animali parlanti e le battutine che un rimbambito pronuncerebbe, ma non un bambino, Lewis sta diventando un rauco urlatore, un pensionato reazionario. Un giudizio eccessivo? Torniamo alla Sedia d'Argento, e (purtroppo) vediamolo confermato fin dalle prime righe.
Eustachio, il ragazzo “nuovo” nel Viaggio del veliero, è ora studente di una prestigiosa scuola d'élite, dove ha stretto amicizia con uno scricciolo di ragazza chiamata Jill Pole.
Già dal primo capitolo, “Dietro la palestra”, vediamo confermato come alla lettura del testo corrispondano due diverse interpretazioni, a seconda che il lettore sia un bambino, o un novello analfabeta, o sia invece un adulto più smaliziato.
Nel primo caso, da quanto ricordavo alle medie, Eustachio frequenta una scuola sgradevole e grigia, dov'è pieno di bulli e dove il corpo insegnanti è passivo, completamente disinteressato a punire i cattivi. Questa è la visione base, di chi legge prestando attenzione alla storia.
Rileggendo invece La Sedia d'Argento avanti cogli anni, le intromissioni e le gomitate del narratore onnisciente (cioè, Lewis stesso) risultano oltremodo fastidiose. Non ci si limita a spezzare l'immersione, a rovinare la lettura: sembra di assistere a una bel discorso continuamente interrotto da un urlatore che megafono alla mano deve spiegarti come stanno le cose.
Ora, dal momento che la storia che sto per raccontarvi non ha niente a che vedere con la scuola, vi darò solo qualche piccola informazione sull'Istituto di Jill: il che, detto fra noi, non è un argomento piacevole.