lunedì 28 dicembre 2015

Un Anello per leggerli, un Anello per guardarli, un Anello per giocarli.


Alcune volte, quando si legge un libro che si ha già letto o di cui si è già visto il film, è difficile sottrarsi dal fare paragoni. A comparare l'immagine mentale dei personaggi con l'immagine filmica, teatrale, o fumettistica. A chiedersi inoltre se i due personaggi, il protagonista del film e il protagonista del libro, siano diventati un tutt'uno, o siano ancora ben marcati.

E' ovvio che più il film sa riassumere l'essenza del libro, più i contorni si sfumano e confondono. 
Di rado un brutto film cancella la bella esperienza del libro da cui è tratto. Qualche attore può restare “incastrato” nella sostanza cartacea, narrativa del libro, un volto, un'espressione, una scena... Ma è raro si rimuova interamente il ricordo della precedente lettura.

Mi pongo questi quesiti, perchè nel caso del Signore degli Anelli la questione è incredibilmente complessa. Non c'è dubbio al riguardo, a dispetto de Lo Hobbit, la trilogia di Jackson riassume con incredibile fedeltà la vicenda di tutti e tre i libri, specie se li si guarda con il coadiuvante dell'edizione estesa. Jackson (assieme all'indispensabile, per sua stessa confessione, aiuto della moglie sceneggiatrice) ha saputo cogliere le parole e i discorsi più rappresentativi di tutti e tre i capitoli, rivitalizzando nel contempo alcune scene sbiadite nel libro e tagliando alcuni dettagli sgradevoli, come i deliri sulla purezza del sangue numeroano.
Mentre rileggo Il Signore degli Anelli, non posso perciò esimermi da un continuo confronto mentale tra le scene dei film e dei libri, e in alcuni casi addirittura dei videogiochi.
Alcuni volti restano, altri vedono il ritorno del re di come li immaginavo una volta.
In primis, a suo tempo avevo terminato la lettura del Signore degli Anelli in tempo per la visione al cinema del Ritorno del Re. Dunque la terza parte rimane per me incorrotta dalla celluloide e i personaggi, da Faramir, a Denethor, alle lande di Mordor, rimangono molto diversi dalla versione filmica.
Diversi non vuol dire migliori: per me Faramir era uno smilzo uomo vestito alla Robin Hood e Mordor una terra industriale, una wasteland di crateri e pozzi che non sfigurerebbe nelle Fiandre della Prima Guerra Mondiale.
Frammenti della Compagnia dell'Anello e delle Due Torri rimangono “estranee” al film e pertanto nella mia mente vedono un grottesco cambio d'abiti: il Frodo pre film sostituisce nella pausa sulle Tumulilande il Frodo post-film ed è un po' come vedere delle controfigure darsi il cambio su una scena. Sono sicuro vi sarà capitato questo genere di confusione. E' anche il motivo per cui tutta la prima parte nella Contea fino a Brea riveste per me tanto interesse. E sempre per restare nei Decumani, aver tagliato il ruolo di Saruman e dei furfanti nel devastare la Contea è stato un grave errore: nel libro chiude perfettamente il tradimento finale a Frodo, con il richiamo omerico all'Odissea. Ulisse s'illude d'aver terminato le sue imprese, ma sorpresa delle sorprese la sua casa è invasa dai (porci) Proci e non resta che un sanguinoso massacro. Ugualmente, la terra natale dei quattro hobbit è una landa distrutta e violata da (porci) Furfanti e non resta che una sanguinosa battaglia.
Alcuni volti s'intestardiscono e rimangono: Samvise Gamgee per me sarà sempre Sean Astin, così come Viggo Mortensen Aragorn, Sean Bean Boromir e Ian McKellen Gandalf. Già il personaggio di Gimli è un diverso discorso, perchè viene ridotto a macchietta nelle Due Torri, meccanismo comico che manca totalmente nel libro in cui la sua amicizia con Legolas mantiene invece un peso di tutto rispetto.
Sempre a questo proposito, è un vero peccato che si sia persa la storia d'amore tra Faramir ed Eowin, nonostante nel libro alla fine la sminuisse, perchè di fatto la relegava nel suo ruolo “naturale” (per Tolkien) chiarendo la fine dell'anomalia della guerriera femmina (di nuovo, per Tolkien).
Infine, Gollum resta Gollum. Inclassificabile, sia su carta che su schermo.

lunedì 21 dicembre 2015

A spasso per la Contea: birra, funghi e Tom Bombadil


Non ho idea se, come il sottoscritto, amate tenere un certo numero di libri a portata di mano sul tavolo o sul comodino per poterli consultare o sfogliare in quei momenti della giornata in cui siete preda della noia, dell'indecisione o di entrambe le cose. Sfogliare un libro e leggerne stralci a caso è uno dei più soddisfacenti diritti del lettore.
Ultimamente sono tornato a rileggere Il Signore degli Anelli e dopo essermi accorto di aver letto di fila diversi capitoli delle Due Torri ho deciso che era tempo di una sana rilettura.
Al momento il mio entusiasmo si è perso da qualche parte nel capitolo di Frodo e Sam sulle paludi, ma per amore della brevità concentreremo l'attenzione di questo articolo sulla Compagnia dell'Anello, dal compleanno di Bilbo all'arrivo a Gran Burrone.
Cito i passi dall'edizione in mio possesso, la Bompiani del duemila a cura di Quirino Principe e con l'introduzione di Elemire Zolla. Ignoro se sia mutato qualcosa nei termini delle edizioni più recenti. So ad esempio che ne Lo Hobbit cambiano spesso il nome dei Vagabondi, che diventano alle volte Troll, Uomini Neri e così via... Ma non so molto della filologia tolkeniana in Italia e dunque se c'è un esperto tra i lettori, raccontatemi pure come sono mutati nel tempo le traduzioni di nomi e personaggi.

Spesso, rileggendo fantasy che nell'infanzia trovavo avvincenti, rimango deluso.
Nel caso di Tolkien non ne ho mai veramente abbandonato la lettura e devo ammettere che come lo trovavo eccellente a undici anni, lo trovo altrettanto a ventitré: il flusso di pensieri, dialoghi e ambientazioni scorre senza mostrare minimamente la sua età, anzi arricchendosi a ogni rilettura di ulteriori strati di storia, miti e canzoni. La solidità del worldbuilding del professore di Oxford resta davvero solida, a dir poco maniacale persino nella sua opera meno lirica (se comparata al Silmarillion...).
Il gergo di elfi, nani e hobbit suona naturale e l'unica sbavatura è tra gli umani di sangue reale, come Aragorn, i cui scambi di parole oscillano pericolosamente tra l'epica e il ridicolo, specie quando elencano per mezza pagina, senza un istante per tirare il fiato titoli nobiliari, alberi genealogici e nomi guerrieri. Inoltre l'insistere sulla purezza di sangue dei Dunedain, per quanto comprensibile nell'ambito della mitologia medievale cui si fa riferimento, è decisamente malsana.
Discorso (musica?) diversa per le canzoni, che odiatissime quando le leggevo da bambino le trovo oggi uno degli inserti più interessanti, che avevo colpevolmente trascurato. Almeno nella Compagnia dell'Anello si può notare come gli argomenti prevalenti, persino tra i borghesi hobbit, siano malinconia e rimpianto: si parte con le prime strofe in cui si descrive un'elegiaca felicità, legata a una donna, un paesaggio, la vita quotidiana, per poi stravolgerla nell'avventura o nella tragedia di un male che proviene da fuori. Nelle ultime strofe, ci si riallaccia così alla felicità iniziale, ora rimpianta: l'Era degli Uomini non nasce per un rinnovato vigore della razza umana, ma per il decadere inarrestabile di ogni razza che lentamente scompare nelle brume del tempo.
Un'Era di trapasso, una vittoria di Pirro. Almeno così l'ho intesa dalla rilettura del primo libro: non sono gli uomini a farsi grandi, ma elfi e nani a farsi “piccoli”.
Lo stile di scrittura di Tolkien resta comunque diverse spanne (uso le unità di misura britanniche, considerando l'argomento...) sopra la media sia dei suoi contemporanei che dei nostri: basti confrontare l'orrido stile di Lewis alla finezza di Tolkien, per accorgersi del confronto.
Moorcock stesso, nel sopravvalutato manifesto Epic Pooh, ammette che Tolkien è quantomeno superiore al tono legnoso di Lewis, criticandolo comunque per il suo tono sdolcinato e al fondo paternalista, un provinciale inglese.
Consiglierei la lettura del manifesto, perché se ne parla spesso senza averne davvero cognizione: non c'è infatti quella distruzione del professore di Oxford che tanto diverte i Tolkien haters, ma al contrario un'analisi a tutto tondo molto più vasta ed estesa di quanto si possa supporre.

Il Cavaliere Nero, di John Howe. 

martedì 15 dicembre 2015

Laureato!


Nelle ultime settimane avevo deciso di sospendere momentaneamente gli articoli in lavorazione sul blog, dopo aver finalmente ricevuto la data della mia laurea triennale. Lunedì, dopo alcune terribili ore d'ansia mi sono finalmente laureato e considerando che ho nel frattempo completato un corso di primo soccorso, l'appellativo di “Dottore” per quanto ridicolo suona comunque bene.

Cos'ho imparato dalla mia tesi triennale di storia?

Un indizio sull'argomento (e il periodo storico) della Tesi ;) 

venerdì 13 novembre 2015

Satanismo e Dungeons&Dragons negli anni Ottanta


Mi piace pensare che, come nel mondo “reale” (espressione che odio) esistono le rigatterie, in modo speculare nel mondo “digitale” (espressione che odio) esistano negozietti e blog che svolgono un'identica funzione: raccogliere ciarpame e paccottiglia, infiocchettarla e metterla in bella mostra.
E come dalle mie parti c'è un variegato insieme di turisti sperduti, cultori di anticaglie e barboni, così su Internet c'è un vasto seguito di gente a cui piace leggere e sfogliare vecchie pubblicità, vecchi reportage, vecchie cose di vecchi tempi.

2 Warps from Neptune è un buon esempio di questo genere di rigatterie virtuali. 
Il blogger concentra le sue collezioni sul trovare ritagli di giornale, vecchie pubblicità e anticaglie plasticose dagli anni settanta in poi, esplorando nel particolare i primordi dei giochi di ruolo e dei giochi da tavolo “moderni”. Vera archeologia nerd.

Qualche settimana fa ha postato uno dei suoi “ritagli” migliori, a mio parere: ovvero un articolo sul fenomeno del gioco di ruolo Dungeons&Dragons e del suo nefasto, satanico e pernicioso influsso sulla prode gioventù. L'isterismo verso D&d negli anni ottanta è documentato da numerosi studi e articoli, basta che svolgiate un paio di ricerche su Google e molti, sia appassionati che professionisti hanno analizzato il fenomeno. Negli anni ottanta le prediche degli evangelici, alcuni servizi(etti) televisivi e la generale demenza della borghesia reaganiana avevano convinto ampie fette della popolazione che esisteva un sottobosco di sette sataniche che predavano i bambini e li convertivano ad adorare il capro dai mille cuccioli attraverso subdoli intrattenimenti come la musica metal, i giochi da tavolo, i (primi) giochi di miniature, i cabinati, D&d, le università laiche, l'uscire la sera, l'uscire il pomeriggio, l'uscire il mattino, D&d, D&d, D&d... Ho già nominato D&d?
Se non altro quest'autentica mania collettiva ha generato alcuni studi di psicologia molto interessanti e ha raffinato parzialmente alcune tecniche di interrogatorio e investigazione, nello specifico il plagio e il ricordo di eventi passati (e la modifica degli stessi dietro pressioni esterne: per cui una banale sessione di gioco di ruolo diventa qualcosa di molto più sinistro se ti ritrovi a doverla ricordare davanti a un paravento di giudici, poliziotti e inquisitori vari...)
La crisi della gioventù cui si accenna nell'articolo e che trova un comodo capro (demonico?) espiatorio in D&d in realtà era riconducibile a molte cause, da problemi famigliari, all'assoluto vuoto sia di valori che storia che ideali degli Stati Uniti degli anni ottanta, all'opprimente fanatismo religioso di molte famiglie, alla banale presenza di armi da fuoco disperse per la casa come croccantini del gatto (aspetto che nell'analisi non è minimamente considerato, va da sé...)

An introduction to Tolkien - or an invitation to sacrilege? LOL!

martedì 3 novembre 2015

Segnalazioni via crowdfunding: Zeroi, Durgin Forge, Panzerfauste.


Sono passati diversi mesi dagli ultimi consigli su progetti di crowdfunding e volevo davvero tornare a proporre qualche titolo interessante nei due campi che già altre volte abbiamo trattato: fumetti&modellismo.

Dopo la distribuzione a Lucca Comics, Prussiani vs Alieni inizierà finalmente a spedire il suo sospirato fumetto e sul piano dei giochi di miniature si avvicina la data di consegna dell'incredibile gioco da tavolo di Conan. Progetti finanziati un anno, un anno e mezzo fa (sono già passati così tanti mesi? Incredibile...) che finalmente fanno capolino. Un'ideologia di vendita – finanzia il progetto che vuoi, solitamente piccolo e indipendente e aspetta un sacco, davvero un sacco di tempo prima di vederlo alla luce – completamente antitetico ai prodotti in serie dell'Amazon, consegnati due giorni dopo, un giorno dopo, ventiquattrore dal pagamento... Ad ognuno il suo, per carità. Dopo aver scoperto i maltrattamenti di Amazon sui suoi dipendenti addetti al suo servizio pronta consegna, non riesco a usare il sito, mi ripugna... ma alla maggior parte della gente non sembra fregargliene granché.

Zeroi - Indiegogo


Il primo progetto è il fumetto Zeroi, dell'etichetta Radium.
Se la parola non vi risuona alcuna campanella d'allarme è perchè Radium è la nuova denominazione dell'etichetta Atomico, che è stata cambiata per motivi di copyright. La campagna su Indiegogo per finanziare la serie di fantascienza “Rim City” è stata forse tra le più avvincenti e incredibili a cui abbia assistito quest'anno. E' una boccata d'aria che una raccolta fondi italiana riesca finalmente a conquistare il suo obiettivo, per altro molto alto anche per gli standard di finanziamento dei fumetti internazionali. A “Rim City” è seguito l'altrettanto coraggioso “Quebrada – Seconda Caduta” e considerando che non c'è due senza tre, ecco arrivare Zeroi.

venerdì 30 ottobre 2015

Un inglese alla corte di Lucca Comics... nel 1996!


Quest'anno, sia per motivi contingenti alla laurea che per quella triste sindrome chiamata “essere al verde” (ma senza risultare né ambientalista, né leghista....) non sono andato all'annuale edizione del Lucca Comics and Games.

Il pensiero in questi giorni in cui iniziano ad affluire le prime foto e notizie sulla fiera attualmente in svolgimento, si rivolgono agli anni passati. E a quanto la fiera è cambiata.
Ignoro se in peggio o in meglio, non mi piacciono troppo i nerd nostalgici che vorrebbero “testare” gli appassionati per vedere se sono ariani nerd al cento per cento, o che volentieri vieterebbero i cosplay perchè “si divertono” e “distraggono” e a volte sono persino “ragazze”.
Orribili, orribili crimini per chi vorrebbe in sostanza una fiera dell'usato popolato di pensionati che in assoluto, mortale silenzio cercano l'ultimo numero di qualche misconosciuta serie.

Tuttavia, frecciatine a parte, è indubbio che il Lucca Comics continua a cambiare e trasformarsi a rapidità incredibile. Io sono – relativamente – un ultimo arrivato: ho sentito della fiera tra il 2010 e il 2011, corteggiando una manga fan che vi ci recava annualmente, e vi sono andato per la prima volta nel 2012. Scorrendo le foto di quel primo pellegrinaggio e confrontandole con le foto dell'ultima edizione del 2014 si rimane annichiliti di quanto nel giro di pochi anni la scena si sia affollata. 
Ricordo che il 2012 fu comunque un anno “pieno”, dove bisognava spintonarsi e farsi forza per entrare nei padiglioni e tuttavia in strada era possibile persino il sabato di trovare un angolo per una foto o una pausa. Esistevano ancora vie di fuga dall'affollamento nel borgo medievale. 
Il 2013 risultò molto di più un trauma sotto numerosi aspetti. L'infrastruttura traballava, il personale era insufficiente e l'intero intreccio di mura e viuzze medievali drammaticamente insufficiente per fungere da frangiflutti alla marea di gente.
Il 2014 fu la rivoluzione mancata, tra visitatori delusi e una situazione sotto molti aspetti infernale: bacheche e transenne senza speranza, più che persone, bestiame che muggiva verso le entrate dei diversi padiglioni, massicce infiltrazioni di bancarelle e shop estranei alla fiera, dai volontari dei corsi di primo soccorso (?) ai militari (??), per stendere un velo pietoso sulle youtuber stars (???).
A dire il vero, forte della mia massiccia corporatura e del mio collega altrettanto imponente, ce la siamo cavata benissimo, ma era chiaro che si era a un passo al “fattaccio”, complici i visitatori che si arrampicavano sulle mura medievali e misure di sicurezza da suicidio terminale.

Con quest'ultima edizione e il polso fermo di voler introdurre un massimo di biglietti fisso acquistabile unicamente online, la situazione dovrebbe migliorare.
In effetti, se siete alla Fiera in questo momento o vi siete appena tornati, perché non commentate su come vi è sembrato?
E' cambiato qualcosa?
O è sempre la solita, magnifica bolgia?

Today Italy, Tomorrow the World! 
Proprio constatando quest'escalation nel giro di pochissimi anni, mi sono chiesto quale doveva essere l'aspetto della Fiera ai suoi esordi. Dopotutto, alcuni vecchi reportage del 2005 o del 2006 mostrano piazze tranquille, con scampoli di cosplay e fumettisti, con un'affluenza stranamente “umana”.
E se volessimo tornare ancora, ancora più indietro?
Gli anni novanta per alcuni potrebbero sembrare l'altro ieri, ma io ci sono nato – classe 1992 – e pertanto mi fa una certa impressione pensare al Lucca Comics and Games... nel 1996!

Eppure è proprio questo l'anno in cui Nigel Stillman, all'epoca uno dei principali designer della Games Workshop, si recava per conto dell'azienda e della rivista White Dwarf nell'italica fiera.

Il divertente reportage è presente nel White Dwarf del febbraio del 1997 e oltre a risultare divertente è ricco d'incoraggianti lodi verso gli hobbisti italiani, ritenuti raffinati, evoluti e insomma “rinascimentali”.

martedì 27 ottobre 2015

I miei due cent su Disney, Star Wars e il risveglio del merchandising


Qualche giorno fa, mi accorgevo distratto che i tovagliolini della colazione avevano una bizzarra macchia al centro. Mezz'ora dopo, riportato a nuova vita da quell'incredibile bevanda altrimenti nota come caffè, osservavo distratto che era uno dei servitori di un recente film d'animazione, Minions.
Non a caso, al di sotto di quello sgorbio color giallo verso cui avrei dovuto provare qualche simpatia, c'era una scritta a caratteri cubitali:

One in a Minions.

Ah. Ah. Ah.
Quante risate. In a Minions/Millions, capite? Come siamo originali, come siamo divertenti.

Era riflettevo qualche ora più tardi, in una pausa dallo studio e col secondo caffè in mano, solo la minuscola parte di una gigantesca macchina pubblicitaria che in occasione del film si era messa in moto. 
Preparando il terreno. 
Infiltrando la mente di grandi e piccini (adulti ormai rimbambiti e bambini ormai adulti). 
Lanciando sui social campagne, meme, cross over, scritte, immagini, merchandising... 
Estendendosi persino ai tovaglioli con cui mi ero pulito il mio barbuto muso quella mattina.

Ovviamente, perchè sorprendersi. Minions non è comunque un film della Disney - è prodotto da una casa di più piccole dimensioni, e non ho nulla da obiettare che si facciano pubblicità - semplicemente, stavano usando gli stessi, identici metodi che usano i fratelloni più grandi, dai film "ufficiali" della Disney alla patina hipster della Pixar. Bombardamento pubblicitario a tappeto.
Il che ci porta al vero argomento di questo rant e cioè la malefica Multinazionale di Topolino... 

La Disney è la Disney – una Multinazionale che non sarebbe una Multinazionale se il suo scopo fosse altro che il profitto. Un utile realizzato in una grottesca area grigia di prodotti in apparenza destinati ai bambini, ma in realtà ampiamente riservati agli adulti. Per alcuni un'area meravigliosa, generosa, piena di nobili ideali; per altri, me compreso, molto più banalmente la Disney fa quanto fa la Apple. Vende sentimenti sotto forma di oggetti. O nel nostro caso di film. Ci si illude di comprare un sentimento, si compra il film. Nulla di nuovo.

Al terzo caffè della mattina, osservavo però inquieto che a fronte della campagna pubblicitaria e degli oggetti a essa correlati, il film era ben poca cosa. In altre parole, certo, il fine della pubblicità era vendere il film, ma era probabile che persino un'IP di nicchia come i Minions generasse maggiori introiti con pupazzi e magliette che con i biglietti sold out.
Gli spettatori e l'affluenza al cinema sarebbero stati un chiaro indice del successo o meno del film, ma era altamente improbabile che il grosso dei profitti venisse da lì. Anche così, la campagna pubblicitaria restava impressionante, e cos'è peggio invasiva al punto da impedire persino una semplice indifferenza.

Dopotutto, sapete qual'è il film dove Tim Burton ha incassato di più? 
Alice nel Paese delle Meraviglie. Esatto, proprio quel film. Quell'orrore benpensante, terribilmente lucido per essere un film di Alice, rigonfio come un bubbone molesto di effetti speciali, infedele al libro (non che a me importi, dell'esattezza della trasposizione, ma per sommare difetto a difetto...), con una protagonista insopportabile e un Johnny Depp pronto alla decapitazione per incapacità attoriale.
Eppure, tra i tanti piccoli gioielli di Tim Burton disprezzati&ignorati, la pellicola di Alice rimane la più redditizia. Perchè, vi domanderete. Perchè a finanziare l'intera operazione c'era la Disney.
E qualunque cosa tocchi la Disney nell'ultimo decennio, diventa oro puro.

lunedì 26 ottobre 2015

My Little Moray Eel, di Lucia Patrizi - Recensione


Uno sperduto paesino presso la costa. 
Una vecchia donna dalla gola martoriata che vive solitaria.
Il richiamo del mare, una murena per compagno e una storia di sangue e sale da raccontare.

Fin dalla sua prima immersione, Sara ha compreso di essere diversa dal resto dell'umanità e persino diversa da quel già diverso insieme di persone che amano il mare, dal sommozzatore esperto al marinaio brizzolato. 
Durante le sue prime esperienze coll'acqua, ha scoperto di poter entrare in contatto col mondo sottomarino e di poter comunicare, a un livello telepatico, con il mondo di pesci e creature che ci vivono. In altri tempi, persone come Sara sarebbero diventate il centro dell'adorazione di primitivi popoli devoti a Nettuno; nel ventunesimo secolo alterna il piacere delle immersioni con la fatica di controllare un potere al fondo incontrollabile. 
Tra i tanti esseri che popolano il mare, Sara ha stretto uno speciale rapporto con Lui, una murena verso cui prova un'amicizia e una comunanza che supera il rozzo legame padrone-animale del mondo terricolo.

Nel frattempo, siamo nel 2012, l'immersione del batiscafo di James Cameron al fondo delle Marianne ha prodotto una scoperta molto più entusiasmante di qualche sasso e un ragno abissale.
Prima di venire scartavetrata via, la telecamera subacquea ha ripreso la figura spettrale, ma chiaramente visibile di un uomo. Una figura umanoide, che vive in quelle profondità. Sono coloro che gli spettatori presto definiranno “Quelli degli Abissi”.

Quando “Uno degli Abissi” viene catturato al largo delle Filippine da “Uno dei Terricoli” l'atto è erroneamente interpretato dal popolo subacqueo come un casus belli. Presto, sia sul fronte umano che sottomarino la guerra dilaga: gigantesche murene stritolano i sottomarini, le navi cargo affondano l'una dopo l'altra, mentre Quelli degli Abissi invadono in gocciolanti schiere le zone abitate presso la costa. L'esercito reagisce con armi biologiche e droidi con atomiche, cancellando dalla natura intere biosfere.

Mentre la battaglia infuria, la telepatia di Sara e la sua peculiare amicizia con una murena sospettosamente simile ai grandi serpenti marini non passa inosservata alle autorità militari...

venerdì 23 ottobre 2015

Eleanor Cole delle Galassie Orientali, di Alessandro Forlani (Edizioni Imperium)


Nel barocco futuro del duemilacinquecento, l'umanità popola le più remote stelle della galassia.
A far da collante tra le civiltà planetarie e il vasto oceano della galassia troviamo una società di Corporazioni evoluta dalle attuali multinazionali. Compagnie commerciali grandi quanto intere nazioni e con flotte di centinaia di navi a proprio comando solcano lo spazio profondo per portare la civiltà capitalista finanche ai più retrogradi abitanti umani del più lontano asteroide della Via Lattea.
Queste Multinazionali Galattiche stringono accordi, siglano trattati, guerreggiano l'un l'altra per il possesso di una firma, di un marchio, di un logo pregiato.
Organizzate secondo una contorta parodia dell'ancient regime di Luigi XIV simboleggiano l'evoluzione terminale di quell'identiche multicorporazioni che oggigiorno appaiono già immortali: dall'Apple alla Microsoft, alla Nestlè, alla Shell, alla Farben ecc ecc
I prodotti commerciali, le pubblicità e i carillon infernali che dal secondo dopoguerra in poi ammorbano i cittadini-consumatori del globo sono per queste società del duemilacinquecento inestimabili opere d'arte. La spazzatura pop che tutt'ora s'inizia a considerare “arte” (si veda “l'amore” per il trash anni Ottanta) viene da questo neo-barocca società considerata l'apice della cultura umana.
Nobili di Logo colonizzano così pianeta dopo pianeta, ricavando ogni possibile profitto dalla vendita dei proprio “marchi” con l'ipocrita scusante di civilizzare le società isolate dei terricoli.
Le flotte corporative bombardano i pianeti colonizzati con prefabbricati e capsule di supermercati e negozi, boutique e banche, concessionarie e sale giochi, con tanto di robot o commessi in vitro pronti alla vendita nel momento dello sbarco.
Per citare il cattivo del romanzo, Sarastro, le Compagnie commerciali affrancano i coloni dei pianeti “rintronandoli di stronzate”.

martedì 13 ottobre 2015

Il tramonto del Sol Levante: il Giappone negli anni Novanta (National Geographic)


Lo scorso autunno avevo tratto da un vecchio numero del National Geographic un breve articolo sul Giappone durante le Olimpiadi del 1964, cercando di trasmettere almeno un pizzico della grandiosità del boom economico nipponico.
Un anno dopo, ritorniamo sull'argomento con un brusco salto temporale: per un bizzarro colpo di fortuna, la mia rigatteria preferita ha ricevuto un nuovo carico di National Geographic, stavolta squisitamente anni novanta.

“Il sole del Giappone sorge sul Pacifico” costituisce un lungo reportage sull'espansione culturale e commerciale giapponese attraverso l'intero Sud Est asiatico, la Cina, la Corea, fin fine all'Australia e alla costa occidentale degli Stati Uniti.
Il giornalista, Arthur Zich, è un fedele facsimile di quel William Graves che nel 1964 esplorava Tokyo: fortemente critico, preoccupato, altresì parecchio razzista.
Come nel 64' il giornalista guardava al Giappone in bilico tra l'ammirazione e la sensazione eccentrica di vedere uno distorto specchio della società americana, così nel 91' un incredulo americano intervista boccheggiante un'espansione che non sembra conoscere né morale, né limiti.
Dalla ricostruzione negli anni cinquanta, allo slancio industriale nel sessanta, dall'Olimpiadi di Tokyo, alla costruzione del treno-proiettile Shinkansen, dall'eccezionale crescita in un periodo di crisi quale gli anni Settanta, al boom mostruoso dell'elettronica e dei chip nei reaganiani anni ottanta... 
Il Giappone approdava nel 1991 colmo di benessere, e mai così squilibrato tra il suo effettivo possesso territoriale di poche isolette e il suo mostruoso potere finanziario.

Dalla rassegna, non è difficile capire perchè per un osservatore di allora il Giappone sembrasse tra le maggiori potenze leader. C'erano tutte le ragioni, esposte nei decenni precedenti, per continuare a credere che il Giappone costituisse il Futuro, con la F maiuscola.
Un futuro intrecciato a incomprensibili tradizioni che nessun gaijin avrebbe mai compreso, un futuro di suicidi e drogati di straordinari, di Corporazioni e monopolii, di inquinamento e cementificazione; ma pur sempre il futuro.
Non a caso, Blade Runner ripropone proprio questa mescolanza di vecchio e nuovo, nel suo vero protagonista, la città: vecchie usanze, aggeggi vintage e tecnologie da urlo si fondono per descrivere più che il futuro, un retrofuturo per come allora lo immaginavano.

Logicamente, per noi storici e uomini del duemila, il tracollo economico del Giappone dalla seconda metà degli anni novanta risulta qualcosa di ovvio, di inevitabile: si capisce senza difficoltà, come il Giappone campasse in realtà di rendita dagli anni sessanta e ottanta.
L'esercito di impiegati che aveva permesso la ricostruzione aveva prodotto una generazione meno masochista, meno indotta al sacrificio. Una generazione che pretendeva finalmente del tempo libero, e turni meno massacranti.
Il sistema patriarcale cedeva a un disperato edonismo, che sfilacciava relazioni e amicizie, mentre le donne giapponesi cercavano di sfuggire alla trappola di un matrimonio precoce e i giovani preferivano una gratificazione immediata alle prospettive di una lunga&estenuante carriera.
Lo yen, pompato oltre i suoi normali standard, si sarebbe sommato a una crisi nel sistema immobiliare e tutti questi sintomi sarebbero scoppiati in un bubbone di povertà.

Le condizioni di un meritato crollo, per un effetto congiunto sia di motivazioni finanziarie che sociali abbondavano: tuttavia, se tralasciamo l'efficace descrizione dell'edonismo giapponese nato negli anni ottanta, il reporter non avverte alcun tremore del terremoto economico che minacciava la società giapponese.


venerdì 25 settembre 2015

Il Lovecraft byroniano di Craig Engler


Ci sono kickstarter che seguo dai primi abbozzi di sketch in uno sparuto gruppo facebook fino all'ultimo update dell'ultimo aggiornamento sulla spedizione degli ultimi item completati.
E dall'altro, ci sono raccolte fondi via kickstarter a cui partecipo di sfuggita, e che per pochi spiccioli non si fanno sentire per mesi fino a scivolare lentamente nell'oblio.

Una pericolosa abitudine mentale, considerando che avete donato fondi a un progetto che, in cambio dovrebbe retribuirvi con quanto promesso: se non altro la soddisfazione di sapere che il libro/fumetto/coso è stato realizzato con pieno successo dal generoso popolo dell'Internet.

E' stato quindi con non poca sorpresa che l'altro ieri mi sono accorto che Lovecraft, di Craig Engler, aveva finalmente completato il suo primo numero, gentilmente inviato in formato pdf sulla soglia di casa. 
Mi ero completamente dimenticato d'aver partecipato!
A mia difesa, non c'erano stati frequenti updates...

Il progetto prevedeva di finanziare il primo numero di una serie di fumetti intitolata semplicemente “Lovecraft”. Lo sceneggiatore e finanziatore è Craig Engler, autore di Z Nation (1), mentre ai disegni troviamo Daniel Govar, ai colori Mat Lopes e alle (splendide!) copertine Lewis LaRosa.

Il tratto di Govar supera a malapena la sufficienza, ma i colori hanno di tanto in tanto un tratto di acquerello che dà loro un qualcosina di originale. Non guastano le tinte cupissime, che trasmettono un che' di viscido. Gli obiettivi di volta in volta sbloccati dalla raccolta fondi hanno permesso di raccogliere nel volume schizzi di preparazione, la sceneggiatura con relative correzioni e sopratutto un'impressionante sequela di copertine alternative, l'una più bella dell'altra.
Tra queste è superfluo premiare la pin up “lovecraftiana” di Richard Luong, meglio conosciuto per Cthulhu Wars, sulla cui arte aveva già discorso La Tana dello Sciamano.

lunedì 21 settembre 2015

Leggere? Roba da mocciosi.


Uno degli ultimi articoli della Leggivendola dava di che pensare.
La blogger argomentava nel primo punto che leggere è un legittimo hobby, di cui non ci si dovrebbe vergognare; è giusto potersene vantare, così come poterlo citare come attività da svolgere nel tempo libero. L'argomento era trattato in modo passeggero e la vignetta incriminata convinceva più della tesi contraria sostenuta dall'autrice.
L'argomento mi lasciava piuttosto indifferente, ma un commento di Athenae Noctua prendeva una posizione decisamente più estrema. 
Come vi sono accaniti tifosi di calcio, così vi sono accaniti lettori, e non dovrebbero vergognarsi di più i primi che i secondi, essendo leggere un'attività molto più elevata e nobile?
Perché un lettore italiano, in mezzo a tanti analfabeti funzionali (curiosa definizione del tutto anti-scientifica, questa), dovrebbe vergognarsi di voler entrare in club di lettura e dedicare quel poco tempo che lavoro&vita sociale ci lasciano per leggere dei bei romanzi?
Dall'opinione di passaggio della Leggivendola, si veleggiava in territori già più radicali e insicuri, pericolosamente vicini alle rapide distruttive della vignetta incriminata.
Se ovviamente la lettura è una bellissima attività, è altrettanto vero che difficilmente la si può categorizzare come hobby.
L'hobby riguarda un'attività che si caratterizza per essere specifica di un dato ambito e materia, rigorosamente circoscritto nello spazio e nei modi.
C'è chi per hobby colleziona: ma non si limiterà mai a collezionare “solamente”. Collezionerà qualcosa di specifico, possibilmente di raro.
Colleziono... francobolli del secondo dopoguerra.
Colleziono... bustine di zucchero dei bar.
Colleziono... fossili rari.
C'è anche chi per hobby pratica uno sport: ma non si limiterà mai semplicemente a “fare” uno sport. Farà corsa agonistica, tennis competitivo, calcio con gli amici, ping pong con l'amico cinese ecc ecc
Cerchiamo allora un hobby che sia il più generico possibile.
Il signor Rossi per hobby guarda la televisione. Quando non sa cosa fare accende il capezzolo di vetro e guarda che di bello c'è in tv. Tuttavia, di nuovo: il signor Rossi sarebbe una scimmia lobotomizzata, se guardasse un po' tutto, senza sviluppare uno specifico gusto.
C'è quindi chi per hobby guarda la televisione, ma il più delle volte avrà l'hobby di guardare una data trasmissione, serie tv, cartone ecc ecc
Non si può pertanto difendere la lettura come un hobby con una sua dignità, perché non è né un hobby, né un passatempo. E' un'attività che svolgiamo ogni giorno, assolutamente generale e ancora molto richiesta nel lavoro, nella vita sociale e nell'attività umana dalle piccole città alle megalopoli.
Il neonato impara a camminare, a parlare. E nei primi anni delle elementari impara a scrivere e leggere. Lo ripeto, nel caso vi fosse sfuggito il concetto: impariamo a leggere quando siamo bambini con il grembiule sporco di cibo e l'altezza di un hobbit rincoglionito.
Leggere non è qualcosa di speciale, è un requisito fondamentale della civiltà moderna.

(Norman Rockwell)

martedì 15 settembre 2015

Grandezza e caduta dell'impero asburgico (1815-1918), di Alan Sked - Leggende storiografiche e spauracchi liberali



L'uomo comune che domanda consigli su cosa leggere a proposito di quel periodo storico, che sia il medioevo, il rinascimento o l'ottocento, mette sempre in crisi il saggista più disponibile.
Non esiste un manuale che riassumi in modo esauriente mille anni di storia, esattamente come non esiste un testo sintetico a sufficienza d'abbracciare il XIX secolo, o comprendere con sufficiente rigore i meccanismi del ventesimo.
Abbisognerebbe un'intera collana, e persino così si trascurerebbero inevitabilmente informazioni importanti. In linea generale, più un libro di storia è ristretto a un argomento preciso, limitato nel tempo e nel luogo, più alte sono le probabilità che sia davvero esauriente e scientifico nel trattare la materia.
Ma il più delle volte, chi chiede consigli su un buon libro sul Medioevo risulta in realtà interessato agli ultimi tre secoli, e a quell'immagine kitsch che hanno trasmesso i romanzi ottocenteschi. Esattamente come chi chiede consigli sull'età vittoriana vorrebbe leggere un saggio sull'Inghilterra nel 1880, e vi guarderebbe con disprezzo se gli consigliaste un bel testo sull'evoluzione politica della Francia post napoleone, o sull'avventura risorgimentale.

Nel caso dell'Austria-Ungheria, neppure queste aspettative vengono soddisfatte: lungi dal volersi informare su materiale saggistico, il lettore si accontenta di leggere La marcia di Radetzky e dichiararsi “esperto” di tutto le cose “austro-ungariche” senza magari neppure conoscere la battaglia di Sadowa del 1866, e perpetuando un'infinita lista di dannosi stereotipi.
Se doveste domandarmi un buon testo sull'Austria-Ungheria, io v'indirizzerei a questo Grandezza e caduta dell'Impero Asburgico 1815 – 1918 (pubblicato nel 1989), che è invece un primo step verso degli studi seri.
In seguito alla guerra fredda, numerosi storici dell'est, emigrati in America dopo la seconda guerra e ferventi anticomunisti, recuperarono lo studio della scomparsa Austria-Ungheria in chiave nostalgica.
Se gli Asburgo non fossero caduti, allora Hitler non avrebbe trionfato.
Se gli Asburgo non fossero caduti, allora Stalin non avrebbe oppresso le terre dell'Europa orientale.
Il contesto in cui scrive Alan Sked è proprio questo: ma tra gli apologeti all'epoca abbondanti, preferisce prendere un taglio più critico, e in tal senso ironizza spesso su chi difende Metternich contro Churcill, proponendo paragoni politici che ora nel ventunesimo secolo risuonano completamente grotteschi. Il compromesso di Alan Sked – sicuramente migliore di quello austro-ungarico! – ci permette pertanto una posizione mediata tra gli (ora) separatisti filo asburgici e i liberali che reputano e reputavano i territori asburgici la prigione di popoli sofferenti.

Nel XIX secolo, l'Impero Austriaco era il secondo stato più vasto dopo la Russia.
Nel 1848, comprendeva:

- I territori austriaci: gli arciducati dell'Alta e Bassa Austria; i Ducati di Stiria, Carniola e Carinzia; le Contee del Tirolo e di Voralberg; Gorizia e Gradisca; il margraviato d'Istria; Trieste e lo sbocco sul mare.

- I territori della Corona ungherese: Ungheria, Croazia e Slavonia; Fiume; il granducato di Transilvania; i confini croato-slavone e serbo-ungheresi.

- I territori della Corona Boema: la Boemia; il Margraviato di Moravia; il ducato dell'Alta e Bassa Slesia.

- Il regno Lombardo-Veneto.

- Il Regno di Galizia e il granducato di Cracovia.

- Il granducato di Bucovina.

- Il regno di Dalmazia.

- Il ducato di Salisburgo.

Un bel casino, neh?
Se questo vasto collage di stati e staterelli vi sembra un grande impero, non va dimenticato di sovrapporre alla cartina politica, la cartina geografica
Il collage apparirà allora ancor più variegato e bizzarro.
In linea generale, l'Austria-Ungheria era per due terzi costituita da montagne e colline, ben poco utili sia per la coltivazione che per l'industria.
Nel suo piccolo, la Boemia – una delle poche regioni fortemente industrializzate – era separata dall'Austria-Ungheria, ma collegata alla Germania tramite un efficiente sistema fluviale.
Il collegamento via mare era limitato al mare Adriatico, e per di più a un unico porto fondamentale, Trieste.
Galizia e Bucovina erano tagliate fuori dal territorio principale austroungarico da imponenti catene montuose.
Il Voralberg era collegato con la produzione tessile della Svizzera e della Svevia, ma non aveva collegamenti con i territori propriamente austroungarici.
La navigazione fluviale sul Danubio era universalmente ritenuta difficile e pericolosa, mentre Trieste stessa non aveva efficaci collegamenti ferroviari con il resto del paese – almeno fino agli anni sessanta dell'Ottocento.

La composizione nazionale era un allegro minestrone con a capo l'elemento tedesco, che verrà lentamente diluito nel XIX secolo dall'elemento slavo.
Nel 1848, Alan Sked stima su 37,5 milioni di abitanti:
  • tedeschi (8 milioni)
  • magiari (5,5 milioni)
  • italiani (5 milioni)
  • cèchi (4 milioni)
  • ruteni (3 milioni)
  • romeni (2,5 milioni)
  • polacchi (2 milioni)
  • slovacchi (quasi 2 milioni)
  • serbi (1,5 milioni)
  • croati (quasi 1,5 milioni)
  • sloveni (oltre 1 milione)
  • ebrei (750000, concentrati a Vienna)
  • mezzo milione di zingari, armeni, bulgari e greci
Come se non bastasse, Francesco Giuseppe rivendicava formalmente ex territori asburgici persi secoli prima: la Lorena, l'Alta e Bassa Lusazia, Kyburg e Hasburg e perfino il medievale Regno di Gerusalemme (!). 

Il modo migliore per comprendere la geopolitica dell'Austria-Ungheria non è di considerarla uno “stato”, quanto piuttosto un insieme di terreni di proprietà del sovrano.
Una persona qualunque colleziona nella sua stanza diversi mobili e oggetti, che conserva nonostante l'apparente diversità, perché comprati e ceduti in viaggi e disavventure. Ugualmente, gli Asburgo non possedevano uno stato, quanto piuttosto una variegata collezione di terreni, o di popoli-souvenir, risalenti a diverse epoche e diverse conquiste.
Come un aristocratico spiaggiato però difficilmente vuole rinunciare a vendere i suoi gioielli, ugualmente gli Asburgo non accettavano nell'Ottocento di sgretolare i territori di famiglia. Così di volta in volta, persino quando la situazione avrebbe permesso una soluzione pacifica a patto di perdite territoriali, gli Asburgo preferivano combattere... per conservare l'onore, ma inevitabilmente perdere.

Una composizione così variegata e complessa è il motivo per cui è tanto interessante studiare l'Austria-Ungheria: come pesci tropicali nell'acquario, studiare la storia dell'Austria-Ungheria è ammirare cosa succede quando metti troppi (pesci) popoli nello stesso territorio (boccia d'acqua). 
E' guardare dall'occhio del tempo un assurdo microcosmo di popoli ed etnie che convivono a forza, più o meno pacificamente. E sarebbe stata un eccellente lezione per l'Unione Europea studiarne i meccanismi ed evitarne gli errori: ma sembra proprio che una monarchia costituzione con un Imperatore arteriosclerotico funzioni meglio che le moderne assemblee, quando si tratta di far ragionare più popoli.
Forse – ma sto divagando – con tutti i loro difetti questi vecchi monarchi avevano più a cuore l'onore che il denaro: e qui sta tutta la differenza.

Francesco Giuseppe, foto ricolorata

L'argomento è talmente vasto che non basterebbe certo un articolo per spiegarlo approfonditamente.
Ho scelto pertanto tre diversi eventi, d'approfondire adeguatamente:

Le vittorie militari di Radetzky nel 1848, che evitarono un altrimenti probabile tracollo degli Asburgo e immortalarono l'ottantenne (!) generale.

- Il concordato/compromesso (Ausgleich) del 1867, che diede vita all'Austria-Ungheria propriamente detta. I suoi effetti, i suoi pro e contro, la sua (scarsissima) popolarità.

- L'Austria-Ungheria nel 1914, che nonostante le falsità tramandate nei libri di testo era vitale, forte e in piena ascesa economica (e probabilmente federalistica, una volta morto Francesco Giuseppe).

L'idea che nel 1848 gli austriaci fossero preponderanti per numero e organizzazione, e dunque che la causa italiana fosse persa “in partenza” è un'impressione falsata da chi legge a ritroso la storia.
Per chi nel 1848 ci viveva, giunse come una completa e sgradita sorpresa, che gli austriaci riuscissero a conservare il Lombardo-Veneto.
L'esito sembrò a lungo a favore sia di Milano che Venezia, insorte con tale rapidità da stupire persino i suoi stessi insorti. 
Radetzky, che aveva giurato non avrebbe mai abbandonato Milano, fuggiva con la coda tra le gambe dopo soli cinque giorni di combattimenti. A Venezia i marinai italiani erano di ovvie simpatie italiane, mentre tra gli operai dell'Arsenale c'era un pericoloso malcontento, che sarebbe presto sfociato in una sollevazione. L'ammiraglio Martini, giustamente preoccupato, aveva inondato di missive Radetzky, che diede tuttavia risposte evasive, e rifiutò di privarsi di soldati. La conseguenza fu la perdita di Venezia, proclamata Repubblica.
Difetti di lunga data esacerbavano una situazione per l'Austria già cattiva di suo.
L'esercito, mal equipaggiato e inferiore numericamente all'esercito piemontese, viveva forti contrasti nazionali. Secondo una leggenda storiografica, nel “malvagio” impero, le truppe erano dislocate a seconda delle nazionalità in modo che non combattessero mai nel “loro” territorio.
Gli ungheresi combattevano in Italia, gli italiani in Ungheria, e così via...
L'idea, per quanto affascinante, conferirebbe in realtà agli Asburgo una genialità infernale, che per (s)fortuna non possedevano. I fatti contraddicono pienamente quest'idea: l'esercito di Radetzky aveva numerose truppe italiane, che si ritrovavano nello sgradito ruolo di dover combattere i loro stessi compatrioti.
Dei 61 battaglioni di fanteria di Radetzky:
  • 9 erano ungheresi
  • 6 cechi
  • 10 slavi meridionali
  • 12 austriaci
  • 24 italiani
Ironia delle ironie, il 40 per cento delle fanterie di Radetzky era italiano, e l'attempato generale era il primo a constatare tristemente la loro inaffidabilità:
Dove impiegarli? In prima linea? Potrebbero passare al nemico, rivolgere le armi contro di noi, e creare un vuoto molto pericoloso nel fronte di battaglia. Come riserve, minaccerebbero le mie retrovie; tenerli nelle fortezze sarebbe anche più rischioso, perché potrebbero consegnarle al nemico. L'unica cosa è frazionarli in modo da rendere possibili solo defezioni parziali e graduali; nelle circostanze peggiori potrei disarmali e sciogliere i reparti.

A conti fatti, sia nel 1848 che nel 1914 le diverse nazionalità dell'Impero continuarono a restare pervicacemente fedeli all'esercito, combattendo fino alla fine. E' vero che nel 1848 i reparti italiani avevano un alto tasso di diserzioni, ma in battaglia combatterono con valore pari agli altri battaglioni, dimostrando che la disciplina e (forse?) l'austriacità erano ancora valori vivi.
Nel 1918, negli ultimi mesi di guerra, l'esercito asburgico era composto per i due terzi da quelle stesse nazionalità slave che l'avrebbero poi smembrato; la percentuale di austriaci doc era ormai minima.
Va anche riconosciuto a Radetzky d'aver risolto ogni diatriba tra ungheresi e croati (slavi meridionali): mentre l'Ungheria minacciava la rivoluzione, i soldati ungheresi erano altrettanto inaffidabili degli italiani. Il sostegno croato, dal suo canto, era invece ambiguo, e mirava a strappare forti concessioni autonomiste dalla monarchia.

Con un esercito malandato, Radetzky doveva anche fronteggiare le rimostranze di Vienna: dopo aver perso Milano e Venezia il generale era caduto in disgrazia presso la corte; i più pretendevano una soluzione pacifica, che mirasse a cedere la Lombardia conservando il Veneto.
Gli accordi tra Londra, insorti Lombardi, Piemonte e Austria risultarono tuttavia impossibili. Non si riusciva a separare i lombardi dai piemontesi, mentre dal suo canto l'Inghilterra, guidata da Palmerston, non mediava affatto tra le parti in causa, ma favoriva apertamente gli italiani.
Giocò qui un ruolo decisivo la sicurezza dei lombardi, ormai convinti d'aver vinto la guerra.
Presa Milano, si dava per scontato il successo della rivoluzione.
Dal punto di vista geografico, tuttavia, Radetzky era fuggito sì, ma in una posizione strategica, detta del Quadrilatero. Era una robusta posizione strategica con i quattro angoli a vertice con le piazze fortificate di Verona, Mantova, Legnago e Peschiera.
Nel frattempo, Radetzky non era ancora stato informato dei tentativi diplomatici.
Il rubizzo generale non prese molto bene la notizia:
Tratterò, disse al ministro della Guerra, conte Latour, soltanto con la spada in pugno.

All'idea di una soluzione diplomatica, Radetzky minacciava di abbandonare il comando di generale:
Come fedele suddito, io non posso far altro che obbedire. Ma in tal caso sarei costretto a deporre il comando.

Quando gli si propose di negoziare lui stesso la tregua, scrisse:
Siamo caduti in basso, ma perdiò non ancora così in basso.

Intanto, la situazione verteva lentamente a favore del generale.
Carlo Alberto non immaginava di dover invadere la Lombardia; prima della dichiarazione di guerra l'esercito si preparava a reprimere una rivolta a Genova. 
Di conseguenza l'esercito non aveva mappe, tende, cavalli, e provviste sufficienti.
Carlo Alberto peggiorò la situazione tassando nelle regioni conquistate i contadini, che gli diedero il nomignolo di “re dei signori”. In sostanza Carlo Alberto mirava a ingraziarsi la borghesia e l'aristocrazia lombarda, pesantemente tassata dal governo asburgico.
Nel luglio del 1848, Carlo Alberto inoltre era ingenuamente convinto che le cinque giornate di Milano avessero già sfiancato alla morte l'esercito di Radetzky. Pertanto, non cercò minimamente di attaccare il feldmaresciallo, già di suo saldamente arroccato nel Quadrilatero.
Oltre che lento nel cervello, Carlo Alberto temeva che le tendenze repubblicane diffuse tra i patrioti si diffondessero dal Veneto alla Lombardia e al Piemonte. Vietò quindi ai volontari lombardi di tagliare agli austriaci le vie di rifornimento attraverso il Tirolo, e non chiese minimamente aiuto ai francesi.
Solo con molta riluttanza permise alla Legione polacca, del poeta Adam Mickiewicz, di partecipare alle battaglie e di reclutare entusiasti volontari dai prigionieri di guerra austriaci.

In luglio, di fronte al tremebondo Carlo, Radetzky prendeva l'iniziativa: il 24-25 spazzava via l'esercito piemontese nella battaglia di Custoza:
Una vittoria decisiva è stata il risultato di questa calda giornata.

Il 6 agosto, inneggiato dai contadini lombardi, rientrava a Milano.
Nel marzo 1849, Carlo Alberto ci riprovava, e Radetzky lo massacrava nuovamente nel giro di una settimana. Nel frattempo gli ungheresi venivano sconfitti e persino la coraggiosa Repubblica di Venezia s'arrendeva nell'agosto del 1849.

Spero che a questo punto della narrazione abbiate compreso quanto la vicenda italiana fosse in realtà in bilico. Vienna, la dinastia, la burocrazia erano tutte favorevoli a una soluzione pacifica. Gli italiani davano per scontato un'annessione rapida e indolore, mentre gli inglesi preferivano ovviamente una potenza liberale agli Asburgo.
In ultima analisi, se la Rivoluzione fu scongiurata, fu per l'incredibile testardaggine di Radetzky, e del suo genio militare.

Custoza, carica del Genova Cavalleria
Dopo il 1849, Radetzky modellò anche il governo del Lombardo-Veneto
Il feldmaresciallo non dava per perdute la fedeltà di quelle regioni, e sperava di riconquistare il popolo alla causa asburgica attraverso la lotta di classe.
Radetzky aveva correttamente osservato come la rivoluzione scaturisse dalla nobiltà e dalla borghesia industriale lombarda, e non dai contadini. Di conseguenza, argomentava di poter riconquistare il popolo tassando i nobili e risparmiando i contadini.
Scriveva infatti, rivolgendosi a Schwarzenberg:
Umiliare i ricchi refrattari, proteggere i cittadini fedeli, ma sopratutto esaltare la classi contadine più povere come in Galizia dovrebbe essere d'ora in avanti il principio ispiratore del governo nel Lombardo- Veneto.

Alan Sked osserva che il suo capo di Stato Maggiore, il generale Hess, era ancora più esplicito:
Il popolo ci ama; i nobili ci odiano; perciò dobbiamo annientarli.

Una forma di paternalismo, un po' reazionaria. Ma personalmente, un'idea che avrei anch'io appoggiato. Negli anni 50' e 60', la nobiltà lombarda fu così spietatamente tassata, nel tentativo (fallito) di eliminarne ogni base economica e sociale.
Usando come scusa l'insurrezione milanese del febbraio 1853, il governi confiscò le terre nobiliari.
I nobili lombardi accedevano alla corte solo se imparavano il tedesco, ma ovviamente per orgoglio nazionale la nobiltà lombarda conosceva solo l'italiano.
Radetzky esagerò a tal punto che Palmerston lo accusò di “comunismo”!
Alan Sked annota:
Palmerston disse che la sua politica era odiosamente oppressiva, enunciava “una dottrina propria soltanto dei discepoli del comunismo”, ed era “sovvertitrice delle fondamenta stesse dell'ordine sociale”

Radetzky comunista... In fondo è un complimento.

Purtroppo, la politica del feldmaresciallo non funzionava: danneggiando la nobiltà, danneggiava anche l'economia della regione e per sua diretta conseguenza anche gli strati inferiori. Inoltre, nonostante tutti gli sforzi, i contadini restarono sospettosi di ogni governo: temevano che dietro alla politica di Radetzky stesse in agguato la coscrizione obbligatoria per l'esercito - autentico spauracchio per le famiglie contadine.

Trieste sotto l'Austria-Ungheria
Non dovrebbe sorprendere che il Compromesso che seguì alla sconfitta a Sadowa nel 1866 era universalmente deprecato da ogni singola nazionalità dell'Impero Asburgico.
Francesco Giuseppe lo concluse in fretta e furia, senz'alcuna attenzione ai dettagli, ma pressato dall'ansia di raggiungere un accordo.
Dal punto di vista legislativo, l'accordo era tra Francesco Giuseppe e i dirigenti ungheresi, e non aveva seguito alcuna via popolare, democratica, o aperta.
L'imperatore lo impose alla metà austriaca del paese, i politici ungheresi alla metà magiara.
Le nazionalità minori lo consideravano una truffa legalizzata.
Ciò non di meno, il Compromesso andrebbe valutato per come concretamente funzionava; e a questo proposito non si può dire abbia funzionato male.
Il vituperato, odiato, vigliacco, difettoso, ridicolo Compromesso durò tranquillamente cinquant'anni, e com'ha scritto lo storico Macartney:
Della bontà di una torta... ci si accerta solo quando la si mangia, e a questa stregua il Compromesso, se non proprio appetitoso, almeno conteneva abbastanza vitamine per nutrire cinquanta milioni di persone per cinquant'anni.

Certo, la sopravvivenza del Compromesso era unicamente legata alla testardaggine dell'Imperatore e degli ungheresi. A ogni proposta ungherese, Francesco Giuseppe minacciava di modificare il Compromesso: fu così che i dirigenti magiari presero a considerarlo un'assicurazione del futuro del popolo ungherese. Il Compromesso aveva loro assicurato privilegi che nel “normale” Impero pre-Sadowa difficilmente avrebbero mai ottenuto.
Nella pratica, gli ungheresi rifiutavano di tornare indietro, mentre l'Imperatore rifiutava di andare avanti.
La soluzione pratica restava un Compromesso.

Generazioni di storici nazionalisti ungheresi hanno perpetrato l'immagine di un'Ungheria forte, che costretta nel Compromesso viene indebolita dal “vampiro” austriaco.
Alan Sked cita gli studi di John Komlos, The Habsburg Monarchy as a custom Union, Economic development in Austria-Hungary in the nineteenth century, che mostrano statistiche alla mano come fosse l'Ungheria a sfruttare l'Austria, crescendo economicamente solo grazie all'autarchia del Compromesso:
l'Ungheria non fu sfruttata economicamente dall'Austria; invece essa trasse considerevoli benefici dai suoi speciali legami con l'economia austriaca. L'Austria costituiva un mercato sicuro per i suoi prodotti agricoli e, cosa anche più importante, era una fonte indispensabile di capitali e di lavoro qualificato. Dal “matrimonio fra tessuti e frumento” l'Ungheria guadagnò molto più dell'Austria. A questi vantaggi fu dovuta in gran parte la mobilitazione dell'agricoltura e dell'industria ungheresi... In linea di massima è presumibile che una economia più piccola, specie se situata geograficamente in modo così sfavorevole come quella ungherese, derivi da legami di questo genere maggiori vantaggi di un'economia più ampia e più avanzata. (L'Austria, anche alla fine del nostro periodo, produceva beni e servizi per un valore doppio dell'economia ungherese, e il 44 per cento in più su base pro capite).

Esistono a fine ottocento tre stati balcanici indipendenti, da paragonare all'Ungheria: Romania, Bulgaria e Serbia. 
Ebbene, nessuno di questi tre stati sviluppa una rete ferroviaria, un'istruzione, una burocrazia, un sistema di assicurazioni e prestiti con tanta velocità quanto l'Ungheria.
A meno di non delirare sulle virtù del superiore “uomo ungherese” ne dobbiamo dedurre che l'Ungheria fosse cresciuta grazie al Compromesso e grazie all'aiuto dell'Austria.

Lo storico David F. Good, nell'opera L'ascesa economica dell'impero asburgico dal 1750 al 1914, dimostra ulteriormente i vantaggi del Comrpomesso.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, persino le regioni periferiche dell'Ungheria avevano buone reti ferroviarie.
  • 96 chilometri ogni 100000 abitanti in Transilvania, nel 1910
  • 82 chilometri ogni 100000 abitanti nella Croazia Slavonia, nel 1910
Romania, Bulgaria e Serbia aveva invece:
  • 49 chilometri ogni 100000 abitanti in Romania
  • 42 chilometri ogni 100000 abitanti in Bulgaria
  • 31 chilometri ogni 100000 abitanti in Serbia.
Meno della metà!

La variazione regionale del reddito pro-capite nell'Austria-Ungheria era minore che in Italia e Svezia; un chiaro indice che sotto la spinta dell'industria le diseguaglianze si andavano lentissimamente diradando.
David F. Good ha inoltre un'intuizione geniale, paragonando l'Austria-Ungheria agli Stati Uniti.
Superata la sorpresa, si ritrovano parecchie analogie che possono aiutarci a comprendere l'utilità del Compromesso.
Sia gli Asburgo che gli Stati Uniti avevano spaccature regionali molto forti:
  • tra Nord/Sud negli Stati Uniti
  • tra Est/Ovest nell'Austria-Ungheria
Questa divisione corrisponde in entrambi i casi a un diverso sistema sociale:
  • Schiavitù e campi di cotone nel Sud degli Stati Uniti
  • servaggio feudale nell'Est della Monarchia
A questa spaccatura sociale corrispondevano inoltre diversi sistemi politici: con l'eccezione che in America le divisioni portarono alla guerra civile, mentre in Europa vennero risolte con il Compromesso, e la spaccatura economica lentamente riassorbita nell'ultimo quarto dell'Ottocento.
In un certo senso, gli Asburgo risolsero il problema del servaggio molto più di quanto gli Americani abbiano risolto il problema della schiavitù!

Se questo paragone non vi piace, resta un fatto fondamentale: tra il 1870 e il 1913 l'economia austriaca cresceva con un tasso medio dell'1,32 per cento.
In eta edoardiana, solo, e ripeto solo, la Germania ha tassi di crescita simili.
Qualunque altro perfetto-etnicamente-omogeneo-liberale stato europeo rimane indietro.
L'Austria-Ungheria, per usare una terminologia “moderna” era in pieno boom economico.
Boom tardivo, diseguale, e presto seguito dal boom “reale” di un certo terrorista a Sarajevo... Ma pur sempre crescita economica.
E a voler infierire, l'Ungheria cresceva ancora più rapidamente, a tassi dell'1,7 per cento!
David F. Good scrive:
Presi insieme, la prestazione molto cospicua dell'Austria e il più rapido tasso di crescita dell'Ungheria implicano che la relativa arretratezza dell'impero era meno grave nel 1913 che nel 1870.

Per approfondire a dovere le tante questioni del Compromesso ci vorrebbero altri dieci articoli come questo, tra politica, esercito e altre nazionalità.
Spero se non altro d'avervi dimostrato che l'Austria-Ungheria era tutt'altro che al collasso nel 1914, e che dal punto di vista della crescita economica il Compromesso sembrava funzionare.

Nel discutere sulle simpatie dei diversi gruppi nazionali interni all'Austria-Ungheria bisogna sempre tener conto che stiamo parlando di gruppi borghesi, e di gruppi di borghesi sinceramente interessati alla politica asburgica.
L'atmosfera, il sentimento generale, l'umore tra le fabbriche e le campagne era raramente politicamente orientato. Fino allo scoppio della guerra, il popolo nella metà austriaca dell'Impero era disinteressato a questioni politiche. Gli artisti e scrittori viennesi sguazzavano nella decadenza e nel narcisismo introspettivo; alla notizia dell'assassinio di Francesco Ferdinando, gli intellettuali rimasero se non contenti, indifferenti: l'erede era universalmente odiato dalla popolazione.
Ho visto le foto di una mostra asburgica che commemorava l'anniversario del 1914, esibendo in quell'occasione le foto delle visite di Francesco Giuseppe alle periferie dell'impero. Non c'era una singola foto dove i contadini non acclamassero con piena sincerità l'Imperatore; e si accetta che il “Vecchio” era considerato con grande affetto dalle classi più povere.
Comunque, per quel che serve, le simpatie della borghesia variavano a seconda che favorissero l'alleanza con la Germania Guglielmina in funzione anti-slava, o al contrario preferissero una più stretta alleanza con la potenza zarista, o ancora rincorressero il sogno ormai impossibile dell'Alleanza dei tre Imperatori – lo Zar, l'Asburgo, e il Kaiser.
Come sempre, la situazione appariva straordinariamente incasinata:

I tedeschi erano unicamente interessati alla riunione con la Germania del Kaiser; se liberali, erano anti-russi ma non desideravano una guerra aperta contro lo zar.

- Gli ungheresi erano meno entusiasti dell'alleanza con la Germania, ma la preferivano a un'alleanza russa. Guardavano ai piccoli stati dei Balcani come possibili alleati contro l'orso dell'Est. La politica estera avrebbe dovuto concentrarsi sull'Europa orientale. 

- I cechi avrebbero voluto una collaborazione con la Russia in funzione anti-tedesca.

- Serbi e romeni non erano così contrari a una collaborazione con la Germania, ma come i cechi avrebbero preferito di gran lunga una collaborazione con la Russia.

- I polacchi, come sempre, avevano ambizioni smisurate del tutto sproporzionate ai loro mezzi: erano infatti sia anti-tedeschi, che anti-russi.

Come osserva Istvan Dioszegi, uno dei massimi storici ungheresi dell'Austria-Ungheria, a prevalere era tuttavia un'ottusa indifferenza:
Tuttavia nel nazionalismo delle popolazioni austriache prevaleva spesso, verso gli interessi imperiali e anche la politica estera, una indifferenza che aveva conseguenze pesantemente negative.

C'era un pericoloso vuoto, che sia l'esercito che l'Ungheria riempiva con proposte spesso avventate e guerrafondaie. Potete comunque osservare che in proprio nessuno dei gruppi nazionali citati c'è la minima traccia d'indipendenza: le simpatie di politica estera non comportarono mai una dissoluzione dell'Impero, che nella mente persino dei cechi e dei serbi, e dei polacchi restava una realtà ineliminabile.
Ironicamente, gli unici a pretendere una spaccatura nell'Impero erano gli ultra-nazionalisti tedeschi di von Schonerer, che desideravano la riunione dei tedeschi d'Austria con l'impero germanico degli Hohenzollern.

La politica europea nel 1914: una partita di calcio con dei ritardati in campo
Nonostante la politica estera dell'Impero tra il 1900 e il 1913 sia uno dei pochi argomenti su cui gran parte degli storici sono d'accordo, rimane un periodo complesso.
L'Ungheria gioca senza dubbio un ruolo fondamentale con Andrassy, che rappresenta l'archetipo del diplomatico abile, ma spericolato: aveva realizzato il Compromesso (1867), negoziato l'Alleanza dei Tre Imperatori (1873), modificato il Trattato di Santo Stefano nel Congresso di Berlino (1878). Aveva strappato da Bismark la Duplice Alleanza del 1879, a condizioni favorevolissime per l'Austria: se attaccata, la Germania era obbligata a soccorrerla militarmente, ma se era la Germania a venire attaccata dalla Francia, l'Austria non era vincolata a nessuna alleanza.
E tuttavia, Andrassy si muoveva più nell'ambito della politica magiara, che del più vasto interesse imperiale. In ogni sua azione, era la Russia il nemico. L'uomo era letteralmente ossessionato dalla Russia, che al contrario sarebbe potuta essere un alleata naturale, come provavano anni e anni di diplomazia sotto Metternich.
Alan Sked annota significativamente i seguenti aneddoti:
Il console prussiano a Pest riferiva che per Andrassy la Russia era “una preoccupazione continua, notte e giorno”; e un deputato ungherese lamentò che la Questione d'Oriente era per lui una “assurda infatuazione”.

Quest'ossessione di Andrassy divenne presto un'ossessione per i generali austriaci, per la corte e infine per Francesco Giuseppe stesso.
I Balcani erano l'unica area dove l'Austria potesse esercitare una politica di grande potenza; nel contempo l'imperatore era ben conscio che non poteva assolutamente annettere altri territori slavi senza modificare in modo irrimediabile l'alleanza con l'Ungheria.
A complicare la situazione, l'Impero perdeva progressivamente il controllo sulla Serbia, che divenne presto un'altra spina nel fianco per le gerarchie militari. In seguito alle guerre balcaniche (1912-13) nell'esercito si parlava apertamente di dover “liquidare” la Serbia, prima che diventasse un magnete per le popolazioni slave del sud.

In questo contesto, l'occupazione della Bosnia e Erzegovina grazie a un accordo a Berlino di Andrassy non fu poi quel trionfo che sembrava ai contemporanei.
Attribuire la Bosnia e Erzegovina all'Austria, o all'Ungheria: un dilemma insolubile, perchè avrebbe in ambo i casi capovolto all'aria un sistema di convivenza già instabile di suo.
La tarocca soluzione risultò affidare la Bosnia al Ministro delle finanze in comune tra le due metà (1878): un'idea tutt'altro che felice, considerando che vietava ai bosniaci di avere una qualsiasi cittadinanza austriaca o magiara, lasciandoli in una sorta di “limbo” coloniale.

Il trattamento della Bosnia e Erzegovina, con cui voglio concludere quest'estenuante pamphlet, non mostra il lato migliore dell'Austria-Ungheria. Non c'è vera differenza dai possedimenti coloniali, mettiamo, degli inglesi in Africa. Le modalità con cui i bosniaci venivano trattati non differivano molto dai neri dell'Africa equatoriale.
L'occupazione iniziò malamente, con il rifiuto dell'Ungheria di estendere la sua rete ferroviaria alla Bosnia, volendo infatti tutelare il porto magiaro di Fiume e la politica tariffaria delle ferrovie ungheresi.
In seguito i kmet, i contadini soggetti ai grandi proprietari terrieri maomettani non furono emancipati, mentre l'attesa riforma agraria venne rinviata a data a destinarsi.
Le tasse furono quintuplicate – una caratteristica propria di ogni colonia sui “selvaggi” - e la burocrazia passò da 120 impiegati a un esercito di 9533 burocrati (1908).
Come l'imperialismo oltremare di Francia e Inghilterra, gli Asburgo usavano una politica del divide et impera: opponevano i croati ai serbi, e ben sapendo che i serbi erano il 42 per cento della popolazione, si appoggiavano ai grandi proprietari terrieri ottomani.
Senza per altro considerare una sanguinosa guerriglia, con tanto di presidi militari in “terra straniera”...

Questa è l'opinione di Alan Sked; che presentando fatti e numeri, non posso certo contraddire.
Dal mio canto, osservo che pur con tutti questi difetti, l'occupazione asburgica portò 36 anni di pace ininterrotta, che la Bosnia non godette certo nel resto del 900'. Senza considerare che una primitiva rete di ferrovie fu comunque formata, così come una giustizia liberale, certo migliore del precedente lassismo ottomano. Si crearono infine i primi embrioni di un'industria e il tenore di vita aumentò.
Poco, certo, ma aumentò.
Un'autentica rarità: Francesco Giuseppe allegro e (quasi) sorridente
A proposito della prima guerra mondiale, e del ruolo dell'Austria-Ungheria, ho già scritto in precedenti articoli, a proposito in particolare della serie tv della BBC dedicata a Sarajevo.
L'Austria scelse di guerreggiare, e senza alcuna pressione tedesca scelse d'invadere la Serbia.
Gli avvenimenti che seguirono dimostrano quanto una guerratotale” possa rovesciare un trono, e per volontà liberale (inglese) e per l'iniziativa di piccoli gruppi nazionalisti disgregare un grande Impero multinazionale.
Dopotutto, già Francesco Giuseppe intuiva questa sorte nel 1866, quando scriveva che bisognava
resistere il più a lungo possibile, fare il proprio dovere fino all'ultimo e infine perire con onore.”

Molto bello, un “tantino romantico” (Sked).
Ma constatando i milioni morti nell'esercito austriaco, anche molto pericoloso.

Fonti: 
Grandezza e caduta dell'impero asburgico (1815-1918), di Alan Sked.
Il testo è fuori produzione, ma lo trovate con facilità in biblioteca. Il mio l'ho preso dalla Biblioteca di Storia e storia dell'Arte di Trieste.