Non
ho idea se, come il sottoscritto, amate tenere un certo numero di
libri a portata di mano sul tavolo o sul comodino per poterli
consultare o sfogliare in quei momenti della giornata in cui siete
preda della noia, dell'indecisione o di entrambe le cose. Sfogliare
un libro e leggerne stralci a caso è uno dei più soddisfacenti
diritti del lettore.
Ultimamente
sono tornato a rileggere Il Signore degli Anelli e dopo essermi
accorto di aver letto di fila diversi capitoli delle Due Torri ho
deciso che era tempo di una sana rilettura.
Al
momento il mio entusiasmo si è perso da qualche parte nel capitolo
di Frodo e Sam sulle paludi, ma per amore della brevità
concentreremo l'attenzione di questo articolo sulla Compagnia
dell'Anello, dal compleanno di Bilbo all'arrivo a Gran Burrone.
Cito
i passi dall'edizione in mio possesso, la Bompiani del duemila a cura
di Quirino Principe e con l'introduzione di Elemire Zolla. Ignoro se
sia mutato qualcosa nei termini delle edizioni più recenti. So ad
esempio che ne Lo Hobbit cambiano spesso il nome dei Vagabondi, che
diventano alle volte Troll, Uomini Neri e così via... Ma non so
molto della filologia tolkeniana in Italia e dunque se c'è un
esperto tra i lettori, raccontatemi pure come sono mutati nel tempo
le traduzioni di nomi e personaggi.
Spesso,
rileggendo fantasy che nell'infanzia trovavo avvincenti, rimango
deluso.
Nel
caso di Tolkien non ne ho mai veramente abbandonato la lettura e
devo ammettere che come lo trovavo eccellente a undici anni, lo trovo
altrettanto a ventitré: il flusso di pensieri, dialoghi e
ambientazioni scorre senza mostrare minimamente la sua età, anzi
arricchendosi a ogni rilettura di ulteriori strati di storia, miti e
canzoni. La solidità del worldbuilding del professore di Oxford
resta davvero solida, a dir poco maniacale persino nella sua opera
meno lirica (se comparata al Silmarillion...).
Il
gergo di elfi, nani e hobbit suona naturale e l'unica sbavatura è
tra gli umani di sangue reale, come Aragorn, i cui scambi di parole
oscillano pericolosamente tra l'epica e il ridicolo, specie quando
elencano per mezza pagina, senza un istante per tirare il fiato
titoli nobiliari, alberi genealogici e nomi guerrieri. Inoltre
l'insistere sulla purezza di sangue dei Dunedain, per quanto
comprensibile nell'ambito della mitologia medievale cui si fa
riferimento, è decisamente malsana.
Discorso
(musica?) diversa per le canzoni, che odiatissime quando le leggevo
da bambino le trovo oggi uno degli inserti più interessanti, che
avevo colpevolmente trascurato. Almeno nella Compagnia dell'Anello si
può notare come gli argomenti prevalenti, persino tra i borghesi
hobbit, siano malinconia e rimpianto: si parte con le prime strofe in
cui si descrive un'elegiaca felicità, legata a una donna, un
paesaggio, la vita quotidiana, per poi stravolgerla nell'avventura o
nella tragedia di un male che proviene da fuori. Nelle ultime strofe,
ci si riallaccia così alla felicità iniziale, ora rimpianta: l'Era
degli Uomini non nasce per un rinnovato vigore della razza umana, ma
per il decadere inarrestabile di ogni razza che lentamente scompare
nelle brume del tempo.
Un'Era
di trapasso, una vittoria di Pirro. Almeno così l'ho intesa dalla
rilettura del primo libro: non sono gli uomini a farsi grandi, ma
elfi e nani a farsi “piccoli”.
Lo
stile di scrittura di Tolkien resta comunque diverse spanne (uso le
unità di misura britanniche, considerando l'argomento...) sopra la
media sia dei suoi contemporanei che dei nostri: basti confrontare
l'orrido stile di Lewis alla finezza di Tolkien, per accorgersi del
confronto.
Moorcock
stesso, nel sopravvalutato manifesto Epic Pooh, ammette che
Tolkien è quantomeno superiore al tono legnoso di Lewis,
criticandolo comunque per il suo tono sdolcinato e al fondo
paternalista, un provinciale inglese.
Consiglierei
la lettura del manifesto, perché se ne parla spesso senza averne
davvero cognizione: non c'è infatti quella distruzione del
professore di Oxford che tanto diverte i Tolkien
haters,
ma al contrario un'analisi a tutto tondo molto più vasta ed estesa
di quanto si possa supporre.
Il Cavaliere Nero, di John Howe. |
La prima cosa che colpisce il lettore nei primi capitoli è l'estremo senso dello spazio e del tempo.
In
seguito al centoundicesimo compleanno di Bilbo, seguono interi
decenni: il vecchio hobbit diventa una leggenda della Contea, Frodo
un ometto adulto intento alla tranquilla vita terriera. Quando
ritorna Gandalf e l'anello è gettato nel fuoco per svelarne
l'iscrizione, la digressione del vecchio stregone regredisce per
secoli e secoli nel tempo, fornendo un ulteriore strato temporale a
una vicenda che si sente già molto vecchia. E al fuggire di Gandalf
e in seguito di Frodo deve ancora passare l'intera estate, mesi e
mesi! Una vicenda che Jackson nel film condensava in poche ore,
costretto nell'abito cinematografico.
Ovviamente
questo genere di strategia richiede una certa pazienza dal lettore,
che non è certo catapultato nella trama, ma trascinato mano nella
mano per una sorta di lungo tutorial
nel mondo e nella mentalità della Contea.
La
dimensione spaziale la “vedete”, nel momento stesso in cui
comprate il libro: non è infatti allegato a nessun altro romanzo
classico una gigantesca cartina del mondo in cui si muoveranno i
vostri personaggi; già la grafica vi avverte in cosa vi state
cacciando.
In
seguito, l'elemento spaziale si sviluppa sia nella distanza che
percorreranno i personaggi (nella lunghezza) che in altezza (le
aquile, le montagne, Isengard) che in profondità (i buchi hobbit,
Moria) che infine nel dettaglio (ogni singolo elemento ha una sua
storia che inevitabilmente vi viene accennata e quand'anche un nome,
è un nome parlante).
Questa
dimensione temporale tanto allargata, se viene sommata alla
dimensione spaziale genera anche una forte solitudine: non ricordavo
affatto quanto desolate e deserte fossero le lande in cui camminano
gli hobbit, dalle terre selvagge dopo Brea, alla Vecchia Foresta, a
campi coltivati silenziosissimi.
Non so quanto sia una mia
impressione, ma Tolkien non descrive mai i viandanti per strada:
quand'anche nella Contea o nella terra di Buck, Frodo e i suoi amici
camminano completamente soli. Non scambiano mai nessuna parola con i
passanti, chessò, un hobbit che coltiva il suo campo, un mercante di
passaggio... Questo senso di solitudine serve per aumentare la
tensione legata ai Cavalieri Neri, che per quanto molto meno
spaventosi e potenti che nel film, rimangono un'ombra ai lati degli
occhi, cui gli hobbit sembrano sfuggire a stento.
I
primi capitoli della Compagnia dell'Anello, assieme agli ultimi del
Ritorno del Re sono i più distanti dalla trasposizione
cinematografica di Peter Jackson. Si capisce chiaramente come vi
siano ancora incrostati frammenti dell'umore e dei temi de Lo Hobbit.
Non nel senso che vengono citati Bilbo e il suo precedente viaggio, o
perchè al Consiglio si chiacchiera di come vanno le cose “alla
Montagna e a Lagolungo”. Piuttosto per certe situazioni che
sembrano idee partorite sul momento, girandole di situazioni
fiabesche che poi scompaiono decisamente.
Si
veda questo passaggio, che mi ha sempre lasciato perplesso:
Non fecero turni di guardia: persino Frodo non temeva alcun pericolo, poiché erano ancora nel cuore della Contea. Qualche piccolo essere incuriosito si avvicinò ad osservarli quando si fu spento il fuoco. Una volpe, che attraversava il bosco per affari suoi personali, si arrestò qualche minuto ad annusare.
« Hobbit! », pensò. « Incredibile! Avevo sentito dire che avvenivano strane cose in questo paese, ma trovare addirittura degli Hobbit che dormono all'aria aperta sotto un albero. E sono in tre! C'è sotto qualcosa di molto strano ». Aveva perfettamente ragione, ma non riuscì mai a scoprire cosa.
La
scenetta, per quanto simpatica, non funziona sotto tanti aspetti.
Nonostante sia scritto “pensò” viene naturale immaginare una
volpe che parla, cioè un animale fantastico del tutto estraneo al
mondo fantasy di Tolkien. La scena inoltre non aggiunge nulla alla
trama e amaro
in
fundus,
c'è il giudizio del narratore onnisciente.
Tom Bombadil secondo Greg e Tim Hildebrandt |
Forse
l'esempio paradigmatico di questi rimasugli fiabeschi è Tom
Bombadil, il cui carattere “fatato” rende perplessi perfino i
personaggi del Circolo di Elrond. Gli elfi si bazzicano la testa a
immaginare questo fantomatico Tom Bombadil (le cui canzoni sono per
altro orribili!).
Perfino
Elrond fatica a ricordarlo:
« Viaggiai un tempo attraverso quelle contrade, e conobbi cose strane e selvagge. Ma mi ero dimenticato di Bombadil, se egli è effettivamente lo stesso che anni fa camminava per boschi e colli, ed era già allora più vecchio dei vecchi. Ma il suo nome era diverso: lo chiamavano Iarwain Ben-adar, il più anziano e senza padre. Molti e vari sono però i nomi che gli sono stati dati dopo dagli altri popoli. Egli era Forn per i Nani, Orald per gli Uomini del Nord ed altro ancora. Una strana creatura, che avrei forse dovuto convocare al nostro Consiglio ».
« Non sarebbe venuto », disse Gandalf.
« Potremmo inviargli però dei messaggi, ed ottenere il suo aiuto, non credi? », chiese Erestor. « Pare che il suo potere si eserciti anche sull'Anello ».
« No, non è così », disse Gandalf. « Dì piuttosto che l'Anello non ha su di lui alcun potere. Egli è il padrone di sé stesso; non può tuttavia alterare l'Anello o annientarne il potere sugli altri. Bombadil adesso si è ritirato in un piccolo territorio compreso tra i confini stabiliti da lui stesso e che egli, in attesa forse che cambino i tempi, si rifiuta di oltrepassare ».
I
nomi che sciorina Elrond ci permettono una digressione: Tolkien usa
davvero troppi soprannomi per i suoi personaggi. Quand'ero bambino
trovavo che inventare così tanti nomignoli per un singolo
personaggio fosse un segno di saggezza: oggigiorno sono contento
quando lo stesso nome è ripetuto anche più volte nella stessa riga.
Dopo qualche pagina non te ne accorgi più e la lettura diventa molto
più rapida che inventare, come fa Tolkien, dieci nomi per ogni
singolo personaggio.
Certo,
ancora una volta ciò dimostra quant'è pignola la “realtà
virtuale” creata da Tolkien: a ogni regione, a ogni popolo, a ogni
dialetto un diverso nome.
Un
vero peccato che di tutto questo gli scrittori fantasy abbiano tratto
solo l'insegnamento a plagiare e storpiare nomi pseudoceltici...
La
fuga di Frodo a Gran Burrone è mascherata nel libro dalla vendita di
Casa Baggins all'odiata Lobelia Baggins per un fittizio trasferimento
a Crifosso, nella terra di Buck. Il trasferimento offre diverse scene
che normalmente la gente dimentica: innanzitutto, la festa d'addio
vede Frodo che si ubriaca, scolandosi tutta la riserva di vino del
vecchio Bilbo, pur di non lasciarla a nessuno.
I quattro più giovani Hobbit erano, comunque, di ottimo umore, e presto la festa diventò allegra e animata malgrado l'assenza di Gandalf. La stanza da pranzo era spoglia, oltre al tavolo e le sedie, ma il cibo eccellente ed il vino molto buono: il vino di Frodo non era stato compreso tra i beni venduti ai Sackville-Baggins.
« I Sackville-Baggins possono fare quel che vogliono di tutta l'altra roba, appena ci metteranno le grinfie, ma in tutti i casi per questo ho trovato un'ottima sistemazione! », disse Frodo, bevendo d'un fiato l'ultimo sorso di Vecchi Vigneti.
Dopo aver cantato e parlato delle molte cose che avevano fatto assieme, brindarono al compleanno di Bilbo, alla sua salute e a quella di Frodo, come si era sempre fatto. Uscirono quindi a prendere una boccata d'aria, a dare un'occhiata alle stelle, e poi andarono a coricarsi.
La festa di Frodo era finita, e Gandalf non era arrivato.
L'hobbit
è una creatura squisitamente inglese, un desiderio realizzato:
mangia e beve come non mai, ma non ha mai problemi di cuore, infarti
o colesterolo. Fuma l'infumable e lo coltiva, ma ciò paradossalmente
sembra consolarlo e allungargli ulteriormente una vita già
enormemente lunga. Infine, particolare da non dimenticare, nella
Contea ognuno è al posto che gli spetta ed è contentissimo di
svolgere il lavoro che svolge: più che di tranquillità, parliamo di
sonno politico. Samvise Gamgee non sarebbe altrettanto contento se
non fosse un servitore di Padron Frodo. Non si capisce peraltro dove
provengano così tanto cibo e vino, se non da una massa di contadini
sfruttati. In realtà possiamo immaginare un ceto di coltivatori con
i propri appezzamenti, che coltivano per conto dei “medi”
proprietari come Frodo: non sembrano esistere latifondi e grandi
proprietari nella Contea, che non ha pertanto masse di braccianti od
operai. La immagino storicamente collocata tra settecento e
ottocento, in quel mondo rurale alla Jane Austen.
Eppure,
nonostante ciò vivrei volentieri nella Contea. Leggere questi primi
capitoli fa sentire come indossare una vecchia giacca rattoppata, che
conosci bene.
Casa
Baggins, la locanda del Drago Verde, Hobbiville... Ogni elemento è
al suo posto, da Gandalf al discorso di Bilbo. E come nelle tasche di
vecchi vestiti a volte trovi dei tesori, anche nella Compagnia
dell'Anello trovi sempre dettagli che non ricordavi.
La Famiglia Maggot secondo Hildebrandt |
Ad
esempio, chi si ricorda il vecchio Maggot?
Un
hobbit ben piantato e coraggioso, che gestisce un'ampia fattoria
nella Terra di Buck, ai confini della Vecchia Foresta. Viene
addirittura menzionato da Tom Bombadil, lasciando così a intendere
che Tolkien lo considerasse un personaggio secondario di tutto
rispetto.
In
seguito alla scorciatoia, Frodo, Sam e Pipino finiscono nei suoi
campi e dopo un paio di incomprensioni coi suoi cani li invita in
casa, offrendo loro diversi boccali di birra, che affumicano con
delle robuste pipate (come detto, gli hobbit sono creature
resistenti...).
E'
interessante che i Cavalieri Neri abbiano anche tentato di corrompere
l'hobbit con dell'oro: in generale i Nazgul di Tolkien assomigliano
di più a dei briganti che agli assassini seriali in armatura a
piastre di Jackson. Corrompono, intimoriscono e parlano molto più
che nei film, questo è certo.
Dopo
la Terra di Buck, il villaggio di Brea è un'altra sorpresa.
Nonostante
il gran lavoro di Jackson, la conformazione geografica del villaggio
è completamente diversa: è costruita sul fianco di una collina, con
le case della Gente Piccola scavate nel colle. Ancora una volta, un
intero paragrafo è dedicato alla sola storia della Locanda, ancor
prima di approfondire il personaggio di Omorzo Cactaceo e la lettera
di Gandalf.
A
differenza di Ian McKellen, Gandalf il Grigio risulta molto più
imperioso e pungente: rimbrotta spesso il suo interlocutore,
impartisce ordini e minaccia scherzosamente, ma pur sempre minaccia.
C'è
un'aura di autorità fondamentale per un personaggio che per tutti e
tre i libri è sempre in movimento, eguagliato nella mobilità solo
dai Nazgul.
A
Brea inoltre, incontrando Grampasso, si nominano per la prima volta i
raminghi. Vigilando sui territori del Nord e cacciando le creature
malvagie, proteggendo la Contea e i piccoli villaggi. Nessuno osserva
mai che svolgendo questo ruolo di protettori siano in realtà
cacciatori di mostri: sono loro che uccidono orchetti, ragni e
Vagabondi.
Questo
ruolo lo ribadisce Aragorn molto chiaramente durante il Consiglio di
Elrond:
« E ti dirò un'altra cosa, Boromir, prima di concludere: siamo uomini solitari, Raminghi delle zone selvagge, cacciatori... ma ostinati cacciatori dei servi del Nemico, che si trovano in molti luoghi, non soltanto a Mordor.
Se Gondor, Boromir, si è dimostrata una torre robusta, noi abbiamo recitato un'altra parte. Vi sono molte cose malvagie che le vostre forti mura e spade splendenti non arrestano. Sapete poco dei paesi oltre i vostri confini. Pace e libertà, dici? Poco le avrebbero conosciute il Nord, se non fosse stato per noi. Sarebbero state distrutte dalla paura. Ma quando cose oscure vengono dai colli senza case, o strisciano fuori dai boschi senza sole, esse fuggono da noi.
Quali strade si oserebbe percorrere, quale la sicurezza delle silenziose campagne, o delle case di semplici uomini nella notte, se i Numenoreani dormissero, riposassero tutti nella tomba?
Eppure riceviamo ancora meno ringraziamenti di voi. I viaggiatori ci guardano torvi ed i contadini ci danno nomi spregiativi. “Grampasso” mi chiama un uomo grasso che vive ad un giorno di marcia dai nemici che gli raggelerebbero il cuore o distruggerebbero la sua cittadina, se non fosse incessantemente protetta. Non desideriamo tuttavia che le cose stiano altrimenti. Se la gente semplice non conosce preoccupazioni e paura, rimarrà tale, e noi per aiutarli dobbiamo restar segreti. Questo è stato il compito della mia gente, con l'accumularsi degli anni, mentre l'erba è cresciuta ».
Sapete
cosa mi ricorda, quest'ingratitudine della plebe, questo cacciar
mostri e vigilare su ogni pericolo? Ricorda Geralt di Rivia il
Witcher. Certamente vi sono tante differenze, delle quali la più
grande che Geralt viene pagato per un lavoro professionale, una
prestazione inconcepibile nella Terra di Mezzo. Tuttavia, svolgono
entrambi lo stesso ruolo: cacciano i mostri e proteggono gli umani.
Non capisco davvero perché questo ruolo dei raminghi venga sempre
taciuto. Sono i guardiani del gregge, i cacciatori di mostri:
un'opportunità narrativa da non sottovalutare.
Ovviamente,
Sapkowski adora mandare frecciatine sarcastiche al fantasy
tolkeniano, il che rende la (vaga) rassomiglianza fra Aragorn e Geralt
ancora più divertente...
Frodo, Sam e Pipino in viaggio, secondo Ted Nasmith |
Con
l'inseguimento dei Cavalieri Neri al Guado si raggiunge l'apice della
tensione.
Frodo
è a un passo dal diventare uno spettro, l'intervento di Glorfindel e
il coraggio di Aragorn servono poco contro il potere dei Nove.
« Fuggite! Il nemico ci è sopra! »
Un'invocazione
terribile per quanto è scarna, priva di ogni sofisticheria.
Dopo
la formazione della Compagnia, il viaggio rincomincerà e con lui la
tensione.
Il
paesaggio accentuerà allora le caratteristiche che aveva già nel
viaggio da Collevento a Imladris, ostili e oscuri, dove sia la terra
che i suoi animali (gli uccelli neri, i corvi...) minacciano gli
eroi.
La
volpe ciarliera e il sole della Contea diventeranno così un ricordo
lontano.
2 commenti:
Ahhh mi hai riportato nella Contea.
Ho letto il post tutto d'un fiato. Hai ragione: nei primi capitoli ci prendiamo il nostro tempo.
Ho gradito anche le illustrazioni che hai: John Howe, Ted Nasmith, Greg e Tim Hildebrandt mi riportano indietro di anni!
Ci prendiamo davvero mooolto il nostro tempo XD
Sono tutte immagini stupende. Io ho un debole per Ted Nasmith, ma anche John Howe rimane un dio del disegno...
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