venerdì 29 gennaio 2016

Providence 01: The Yellow Sign, di Alan Moore. Annotazioni, analisi e traduzioni.


Ultimamente la saggistica mi interessa molto di più che la narrativa. Non capisco da quando è successo; dopo aver infatti scritto la tesi mi aspettavo un certo senso di disgusto all'idea di tornare a leggere saggi di storia, ma al contrario ne ho ricavato uno sprone ad approfondire sempre di più determinati argomenti di mio interesse. Inoltre, per quanto suoni paradossale, trovo che i saggi in lingua inglese siano molto più leggibili dei romanzi: certo, è in parte a riprova di un livello molto basso della prosa universitaria oltreoceano, però è così. Sempre più di frequente con molti romanzi che nemmeno cito qui sul blog, sopravviene la noia. Non sono scritti per forza male, o non sono mal costruiti: tuttavia dover ogni volta leggere “del giovane protagonista”, contro “l'antagonista”, con i colpi di scena presenti dove devono esserci e il percorso di crescita dell'eroe, e il dialogone finale... Non sono i difetti che mi fanno sbadigliare (quelli piuttosto mi fanno incazzare...), è l'estrema prevedibilità della struttura narrativa, con quel dato eroe, quel dato “nemico”, quel dato svolgimento.

La serie di Providence, di Alan Moore, mi ha finalmente riportato a una narrativa in grado di combattere ad armi pari con la saggistica. Per la prima volta da qualche mese ho avuto l'impressione di leggere un qualcosa che di fronte alla saggistica non si rintanasse nei soliti schemi, ma anzi le desse battaglia, senza perdere colpi. Providence, in tal senso, mi ha soddisfatto: è una serie solida, incredibilmente profonda e complessa, dove (finalmente!) trovo carne al fuoco su cui discettare.

La serie (composta di dodici capitoli) segue le vicissitudini di Robert Black, giornalista del New York Herald nel 1919. Il nostro giovane protagonista, emigrato a New York dalla cittadina di Milwaukee, indagando per conto del suo giornale su alcuni fatti di cronaca, conosce il Dr Alvarez, che in seguito ad alcune sue domande su un testo ritenuto maledetto, Sous le Monde, gli rivela il primo gradino di un mondo sotterraneo e nascosto, di testi antichi e strani rituali.
Black, ancora traumatizzato dal suicidio del fidanzato Jonathan Russell, ne approfitta per chiedere un permesso al direttore dell'Herald e imbarcarsi in un'investigazione ai limiti del soprannaturale tra il New England e il Massachusetts... il suo intento è di scrivere un romanzo che documenti la storia del soprannaturale nell'America pre moderna.

Alan Moore chiaramente escogita Robert Black come una (voluta) confusione tra caratteri antitetici di H.P. Lovecraft: da un lato, è un immigrato ebreo, omosessuale; dall'altro però ricorda Lovecraft perchè è un giovane scrittore insicuro, timido, fobico, con ambizioni di romanziere “impegnato” che non riesce però a concretizzare niente al di là della narrativa breve.

A questo personaggio già in contraddizione, Moore aggiunge un'ambientazione e una storia che gioca abilmente con i racconti brevi di Lovecraft senza però riconoscervene il canone, ma anzi citandolo con lievi correzioni che in apparenza innocue distorcono l'edificio “classico” lovecraftiano fino a farlo crollare. Un po' come quando rimuoviamo un sassolino da una montagna e la vediamo crollare in una valanga di schegge e sassi. Come se non bastasse, il sassolino tolto è dato proprio da quegli elementi che in Lovecraft sono sempre stati più controversi: nei quattro episodi finora tradotti compaiono infatti il meticciato e la purezza di sangue, gli immigrati, l'occulto e sopratutto il “rimosso”, cioè il sesso, le donne e nel caso del protagonista stesso, l'elemento antisemita.

Fare leva su questi elementi per atteggiarsi ad autore rivoluzionario nel frattempo confezionando l'ennesima opera becera e banale è già stato fatto tante volte. Sedicenti liberal ansiosi di dimostrare la loro (inesistente) superiorità di vedute rispetto a quel brutto razzista di Lovecraft hanno tante volte inserito a forza gli elementi che reputavano “mancassero”. Il risultato è sempre stato rozzo, un'operazione di chirurgia che degenerava in un macello. Perchè al di là di una non specificata “superiorità culturale”, non c'è alcun lavoro ne di documentazione, ne di analisi del corpus di testi su cui si vorrebbe operare. E il risultato è sempre bambinesco. 

Non così con Providence. 
Sarebbe superfluo citare il lavoro di documentazione, che costituirebbe già una storia a sé. Sopratutto, però, è magistrale come Moore sappia creare un'opera fobica, che sembra concentrare in vignette calme e lente una terribile ansia. Providence può venir letto sia come sovversione del canone lovecraftiano, sia paradossalmente come una sua dimostrazione. Questo perchè il fumetto giunge a incarnare tutte le fobie che Lovecraft aveva, concentrandole nel nevrastenico protagonista, che è in tal senso un vero intellettuale nella tradizione dei Miti. Se nel Neonomicon c'era una violenza di fondo, una forzatura rispetto ai testi di Lovecraft, qui in Providence la forzatura c'è, ma non si vede: proseguendo con l'analogia Moore ha scassinato il canone lovecraftiano senza lasciare la minima traccia, nel più assoluto silenzio.
E nella casa/canone che ha scassinato ha lasciato però un vero casino di mobili spaccati, materassi svuotati e insomma un canone completamente rivoltato a metà. Ma il modo in cui l'ha fatto! Ah, un furto con scasso raffinatissimo, poco da dire. 

L'edizione della Panini Comics raggruppa le prime quattro puntate.
Considerando che altre case editrici per l'identico prezzo avrebbero avuto la faccia tosta di proporre un volume in formato piccolo, ritengo che tutto sommato ci è andata bene. La copertina è solida, le pagine ampie e spaziose danno modo di mostrare i dettagli delle vignette, invero minuziosi. In coda al fumetto, ci sono le pagine con le copertine alternative, così come un breve saggio di Antonio Solinas, davvero ben fatto rispetto alla media del genere.

Le note che seguono sono in parte mie, in parte tradotte dall'ottimo sito Facts in the case of Alan Moore's Providence. Mi sono limitato alle annotazioni ufficiali ufficiali, evitando di tradurre le annotazioni relative ai testi in appendice a ogni singolo numero (Il Common Place Book, di Robert Black). Se volete davvero scendere in profondità vi consiglio il sito in lingua inglese e se volete proprio perdervi nella Tana del Bianconiglio, i commenti deliranti in calce a ogni articolo.
La traduzione della Panini Comics ha mescolato parole inglesi e italiane, con rese alterne. Avrei infatti preferito che si traducesse il titolo ad esempio, The Yellow Sign, così come alcuni degli slang newyorkesi risultano va da sé traducibili solo perdendo la connotazione locale. Vedremo come va con i numeri 5-8.
L'idea è di compilare, come avevo fatto con Nemo, delle note a piè di pagina per tutti e quattro i capitoli presenti in questa prima raccolta. Fatemi sapere che vi sembra e se l'idea suscita interesse, è un lavoraccio...


The Yellow Sign 

venerdì 22 gennaio 2016

La foresta dei suicidi, di Jeremy Bates


Difficile giudicare se un romanzo è da discount quand'è acquistato in formato ebook.
Non intendo con questa definizione dare addosso al romanzo da supermercato: semplicemente sono libri, che nella loro rozzezza, tengono il lettore appiccicato alle pagine nell'ansia di scoprire cosa diamine succederà ai personaggi. Lots of fun, but intelligent fun, se il romanzo è scritto degnamente.
Ecco, questo Suicide Forest, di Jeremy Bates, è sicuramente un romanzo da leggo-e-getto-via.
Questo non vuol dire che i personaggi siano scarsi, o che la storia manchi di spessore. In questo caso, il romanzo è palesemente da consumo indiscriminato, perchè scritto con stile molto, molto basso. Non siamo certo in campi letterari “alti”, ma nemmeno nella narrativa di genere di pregio.
Paradossalmente, tuttavia, lo stile diretto e senza fronzoli gioca inaspettatamente a nostro vantaggio, considerando che non siamo perfetti english speakers, ma lettori italiani. Al di fuori della saggistica e dei fumetti, è uno dei libri in inglese che ho letto con maggior scioltezza.
Chiarito ciò, benvenuti a Junkai...


mercoledì 20 gennaio 2016

La Disneyland Lovecraftiana di Claudio Vergnani


Secondo il filosofo Baudrillard, Disneyland è presentata come un luogo “immaginario”, un parco giochi artificiale, ma in realtà è tutta l'America a essere artificiale e infantile, esattamente come Disneyland, la cui esistenza, simbolicamente, serve a nascondere l'inganno perpetuato dal parco giochi. Allo stesso modo, il carcere, al di là della sua ovvia funzione detentiva, serve per nascondere che in realtà è l'intera società a essere carceraria, nei suoi obblighi e regole di cui è intessuta.
Abbiamo dunque nei due esempi citati due luoghi che sono presentati come “eccezioni”, ma risultano in realtà simbolo di una condizione pre esistente, nel primo caso l'infantilismo e l'irrealtà della società statunitense, nel secondo caso il carattere detentivo e punitivo della società moderna.
Il testo cui faccio riferimento – e che sto orribilmente generalizzando – è Simulations (1983) e sembra stranamente bene adattarsi al romanzo di Claudio Vergnani Lovecraft's Innsmouth.

Il nucleo sia della novella iniziale pubblicata nel ciclo Cthulhu Apocalypse che nel romanzo vero e proprio è il parco giochi di Innsmouth. Costruito sull'esempio dell'omonimo racconto del Solitario di Providence, è un vasto villaggio fatiscente, in cui comparse camuffate dai mutanti/abitanti fingono di terrorizzare i turisti, mentre si mimano le diverse fasi del racconto. Dalle offerte a Dagon, al sacrificio (in questo caso di una bella fanciulla, abile attrice), all'irruzione dei mostri nelle camere dell'albergo. Al contempo, a tanta serietà corrispondono i feticci di ogni buon parco giochi: dal ristorante, al bar, ai negozi di souvenir, alle camere con wi fi nell'albergo solo in apparenza malmesso e putrido ecc ecc
Il parco vuole ricreare a beneficio degli appassionati di H.P. un'atmosfera autentica e fedele all'opera originaria, non risparmiando alcun dettaglio per quanto truculento od eccessivo. Al contempo, nessun luogo d'intrattenimento può privare il visitatore occidentale dei suoi amati non-luoghi, quale per l'appunto il ristorante già citato. Inoltre, l'esasperata ricerca dell'iper realismo di quella che tuttavia è un'opera “di fantasia” si scontra con la necessità di smussare gli angoli, evitando ogni possibile inconveniente o pericolo per il cliente pagante: i vetri rotti sono in realtà smussati, le armi sono di gomma, le zone pericolose lungo la scogliera recintate, l'appartamento lurido l'atrio di una nascosta stanza d'affitto iper accessoriata ecc ecc
Si forma già un paragone col discorso su Disneyland di Baudrillard: Lovecraft's Innsmouth vorrebbe essere niente più che un parco divertimenti, ma il suo realismo, il suo “prendersi sul serio” smentisce questa finzione e proclama a gran voce l'esistenza di una Innsmouthreale”. Sarebbe per altro d'approfondire come un ciclo, quale I Miti di Cthulhu, totalmente inventato, venga dal parco giochi preso tanto sul serio. E' come se, in virtù del successo di Lovecraft, quanto abbia scritto non sia più un'opera di fantasia, ma una descrizione di un luogo esistente, da replicare con piglio di storico attento alle fonti.
A romanzo ormai inoltrato, senza far spoiler, il personaggio di Claudio, essendo la parte “riflessiva” del duo, se ne rende presto conto:
E, al di là di questo, quel posto mi dava la sensazione di essere sempre sul punto di rivelarsi, magari mostrando una realtà verminosa sotto la patina innocua, ma senza farlo mai davvero. Un luogo che, per far soldi, fingeva di essere un altro posto e che magari, alla fine, era proprio quel posto. A meno che tu non chiedessi in giro, naturalmente. Nel qual caso tutti a giurare e spergiurare che si trattava solo di una baracconata.

lunedì 18 gennaio 2016

Arma Infero - Il Mastro di Forgia, di Fabio Carta


Del seguente romanzo ho ricevuto una review copy. L'autore, Fabio Carta, mi aveva contattato via mail per chiedermi un'opinione sul romanzo, ancora l'estate scorsa. Non ho francamente idea se l'aver comprato o meno un'opera influisce sull'attendibilità della recensione. Sostenendo, come in ogni mia recensione, i vari pregi e difetti con citazioni e appositi argomenti, non credo che la mia opinione sia stata influenzata, ma per amore della chiarezza vi avverto comunque.

Muareb è un pianeta desertico e arido, un Marte flagellato da tempeste radioattive.
Nel passato, questa palla di sabbia è stata terraformata dagli umani, trasformata in un pianeta vivo e ospitale, dove la zootecnica ha creato piante e animali adatti alla sopravvivenza. La bestia che ha popolato Muareb è stata il Fauno, un animale d'allevamento in grado di produrre uova, latte e pelliccia, caratteristico per le corna ondulate e il becco uncinato. I primi esperimenti di Fauno, abbandonati nell'ambiente inospitale del pianeta morirono uno a uno, tranne che per un mitico sopravvissuto, un Fauno che resistette ai predatori e divenne egli stesso predatore per eccellenza: il Pagan. La società dei Padri di Muareb sviluppò col passare del tempo un culto guerriero che considerava il Pagan come un Dio.

Il romanzo parte con un flashback. Il protagonista, Karan, è un vecchio che sopravvive in una Muareb devastata da un olocausto nucleare. A una platea di deformi sopravvissuti racconta di come egli abbia realmente conosciuto il Lakon di cui parlano come un mito quando ancora giovane maniscalco lavorava nella Muareb pre apocalisse. Un alieno umanoide, dal volto e gli organi artificiali, Lakon, era stato catturato dai cavalieri per cui Karan fabbricava armi e armature. E da quell'episodio, Lakon era diventato poi l'essere che tutti conoscono, il Martire Tiranno conosciuto nelle stelle più lontane. Si snoda così una lunga avventura in prima persona di Karan e Lakon, dalla cerca del Pagan, alla guerra contro i Mercanti, alle tortuose vicende che condurranno Karan all'essere il vecchio che racconta la vicenda.


venerdì 15 gennaio 2016

Liberate lo Spoiler


Se si studia filosofia estetica, o anche solo se si è familiari con la storia dell'arte contemporanea, si saprà che nel '900 lo sforzo principale vuole l'abbandono dell'immagine tradizionale.
Sintetizzo: l'immagine non vuole più essere rinchiusa nel quadro/cornice, né limitata alla prospettiva rinascimentale, all'uso della pittura, alla raffigurazione umana. Sopratutto, si cerca di far sì che l'immagine diventi immagine di se stessa; non “qualcosa” che raffigura “qualcos'altro”, non uno strumento alternativo alla fotografia, ma un'arte a sé stante.
L'immagine non deve per forza raffigurare qualcosa di realmente esistente lì fuori, né rappresentare qualcos'altro al di fuori di sé stessa, ovvero dell'immagine. Si cerca pertanto di mostrare la nuda immagine, esposta come essere puro, astratto dalla realtà.
I quadri travalicano le cornici, i muri del museo, le costrizioni delle pitture tradizionali.

Ovviamente, con il romanzo non è avvenuto nulla di altrettanto rivoluzionario o straniante: sebbene vada osservato che se la pittura esiste da secoli, il romanzo nasce appena con il capitalismo borghese del '700 (Robinson Crusoe di Defoe, Pamela di Richardson, ecc ecc). Tuttavia, nel '900 le avanguardie e numerose sperimentazioni hanno dimostrato come anche il romanzo possa superare il corsetto di convenzioni imposte nell'Ottocento, sviluppandosi a scapito di alcuni punti fissi che si riteneva fondamentali.
Non sono un laureato in lettere, ma la prima metà del ventesimo secolo, le avanguardie, James Joyce e lo stream of consciousness a mio giudizio hanno molto contribuito a liberare il romanzo dalla sua cornice, esattamente come il quadro. Questo tentativo non ha prodotto opere “leggibili”, ma sul piano delle idee si sono compiuti passi da gigante.

La Condizione Umana I, Magritte, 1933, dettaglio

lunedì 11 gennaio 2016

Ma gli androidi sognano videogiochi interessanti?


Guardavo a dicembre i #gameawards per i migliori videogiochi dell'anno e rimanevo alquanto perplesso. Non per i premi in sé, che le classifiche e i totem interessano solo i fan idolatri, ma per le presentazioni dei nuovi giochi e le polemiche loro correlate.
Ho la netta impressione che si voglia sinceramente tentare qualcosa di nuovo sia nel gameplay che negli argomenti, senza tuttavia che questo “nuovo” si realizzi affatto.

Il luogo comune vuole che l'innovazione arrivi dai videogiochi indie, ma è chiaro per chiunque navighi il settore che anche la scena dei piccoli sviluppatori sia altrettanto conservatrice: spesso, dietro la scusa di un gioco complesso, si nascondono clunky mechanism che non verranno mai considerati dal giocatore se non per rassicurarlo che sta giocando qualcosa di autenticamente complicato. Penso in particolare a molte delle statistiche degli rpg dove in effetti la quantità di numeri e cifre sommerge anche il giocatore più paziente. Senza voler poi infierire sulla narrazione o su certi stilemi che sono se possibile ancor più stereotipati che nei giochi normali.

Ma non è sul gameplay che voglio discutere, quanto sulle tematiche proposte. Che in molti casi annunciano e trombettano di essere rivoluzionarie, delicate, sottili, intriganti ecc ecc senza mai dimenticare l'aggettivo forse più diffuso attualmente: dinamiche. Quanto ci piace essere dinamici (e flessibili, naturalmente, flessibilissimi...) oggigiorno. Ne andiamo davvero pazzi.
Addio alla narrazione inesistente di soldatacci all'attacco, di strane creature intente a correre e saltare, di omaccioni con complicate mosse X+Y+Y da eseguire per soddisfacenti punteggi.
Roba vera, (quasi) impegnata. Matura, finalmente.

Abbiamo dunque Far Cry Primal. Uno spin off di Far Cry dove nell'età della Pietra dobbiamo cacciare, combattere e ammaestrare animali conquistando il predominio contro tribù di cannibali e scimmie antropomorfe. Un'idea nuova, che incorpora la caccia, che tanto piaceva negli episodi precedenti, aggiungendo il bonus di un elemento “cuccioloso” quali le bestie d'addomesticare.

Detroit Become Human. Androidi sotto carica. 
Abbiamo dunque Detroit Become Human, dove un androide di nuova produzione sembra destinato a una grama vita di servitore degli umani, letteralmente box retail per i porci desideri di qualche ricco acquirente. Androidi il cui perfetto servizio è ingiustamente boicottato da luddisti che rischiano così di perdere il loro (già precario, essendo Detroit) lavoro. Una musica da brivido per una sequenza d'immagini d'impatto, una protagonista interessante, critica sociale ecc ecc

Abbiamo dunque Ghost Recon The Wildlands, dove al comando di un'unità d'elitè delle forze speciali statunitensi andremo a investigare i cartelli della droga nel sud america, attraverso un innovativo sistema flessibile e dinamico di scenari e gestionale affrontabili a seconda delle proprie inclinazioni e tattiche preferite. Un gioco realistico, maturo, firmato Tom Clancy...

venerdì 8 gennaio 2016

Il Sole dei soli, di Karl Schroeder - Analisi dell'ambientazione


In un lontano futuro, l'umanità ha popolato la Galassia.

Nella sua corsa alle stelle, accanto alla più consueta terraformazione, si è scelto di creare habitat ex novo, costituiti da bolle di atmosfera della grandezza d'interi sistemi solari. Questi micro (macro?) ambienti vengono poi “accesi” dall'interno creando piccoli soli artificiali, in grado di sostentare e dare vita a minuscoli insediamenti. La gravità è data dalla rotazione dell'insediamento stesso, così come le materie prime dal materiale già disperso nello spazio prima che venisse “incapsulato”.
E' una sorta di acquario al contrario, o se si preferisce un palloncino al cui interno viva un suo piccolo mondo. Col tempo, le dimensioni gigantesche di questi habitat, la naturale frammentazione dei loro insediamenti, l'accendersi e spegnersi dei piccoli soli causano la nascita di vere e proprie nazioni in lotta fra loro. Nel mezzo, il buio, le tenebre, l'assenza di vita. I paesi che non hanno un sole forte, o il cui sole sta morendo sono presto relegati alla periferia; chi non può permettersi una gravità forte soccombe militarmente alle nazioni più vaste, in grado di dare maggiore solidità (nel senso letterale del termine) ai propri cittadini. Sopra tutto, a generare materia prima e calore, c'è il Sole dei soli del titolo, Candesce.
Intanto, al di fuori di queste bolle, l'accelerazione tecnologica prosegue senza sosta: l'umanità diventa incorporea, spettri digitalizzati che vivono in paradisi artificiali governati dall'entità chiamata “Natura Artificiale”. Nelle bolle, al contrario, il livello tecnologico resta fermo agli anni 20/30 del 900 tra aeronavi, monarchie costituzionali, spade e uniformi. C'è il gusto dell'antico.
Secolo dopo secolo nella popolazione si diffonde l'idea che non c'è altro, al di fuori della bolla, che il mondo di Virga sia l'unica realtà possibile. L'assenza di gravità, i soli artificiali e la lotta tra nazioni sono la normalità, mentre nomi come stelle, pianeti e animali perdono significato.

Hayden Griffin non era che un bambino quando i suoi genitori accesero un sole pirata.
La nazione cui apparteneva, Aerie, non aveva avuto possibilità contro la potenza militare di Slipstream, un regno il cui sole gravita attorno a un asteroide, che fornisce la gravità alla capitale. I vassalli di Slipstream non hanno scelta se non aggregarsi all'elisse irregolare che l'asteroide compie attorno al Sole dei soli. L'alternativa dopo la sconfitta, sarebbe stata restare al buio, in periferia di Virga, decadendo a poco a poco. I genitori di Hayden, tuttavia avevano preparato un alternativa: un sole pirata, attorno cui far rinascere Aerie.
Il fallimento dell'accensione kamikaze di questo sole artificiale parte il romanzo. 
Hayden, persi i genitori entra nell'ambiente politico di Slipstream, con l'unico obiettivo di vendicare i genitori: ma scoprirà presto che esistono nemici e minacce molto più grandi e pericolose che il piccolo regno di Slipstream nella piccola bolla di Virga...

mercoledì 6 gennaio 2016

L'orrore claustrofobico di Gou Tanabe - Il Mastino e Altre Storie


Per il Capodanno appena trascorso, ero a Bassano del Grappa in visita a un mio collega di studi universitario, cui avevo promesso di venire un giorno. Come ogni volta che viaggio in qualche luogo nuovo, la prima cosa da fare è cercare quant'è, per noi nerd, un rifugio sicuro per un alpinista disperso in montagna: una fumetteria, una libreria, un negozio di giochi.
C'è stato un qui pro quo, per cui il negozio di Atom Plastic che pensavo, dal titolo, essere un negozio di modellismo, si è rivelato un'ottima fumetteria. L'autobus partiva, aveva ricominciato a nevicare, mi rifiutavo di uscire a mani vuote: così ho comprato il primo fumetto che attirasse la mia attenzione, ovvero questo "Il Mastino e Altre Storie", di Gou Tanabe.

Ciò per spiegare che normalmente non ho i soldi per comprare fumetti a scatola chiusa, né per altro l'abitudine di comprare al volo, solo perché attirato dalla copertina. Leggo volentieri i manga ( a proposito, potremmo davvero chiamarli “fumetti giapponesi”, esattamente come esistono i fumetti francesi, invece che relegarli nel recinto dei termini esotici!) ma li compro e li assaporo comunque raramente. Va da sé, che se siete di chi è convinto che il fumetto orientale sia inferiore e ridicolo per principio perché non imita l'assoluto (ir)realismo degli universi Marvel e Dc Comics, potete anche sgombrare, passate a leggere altro. Altrimenti, Il Mastino e Altre Storie è un buon libro.

Gou Tanabe ha scelto per questa raccolta di storie strettamente fedeli ai racconti di Lovecraft tre episodi piuttosto iconici: il Tempio, il Mastino (in Italia noto come Il Cane) e La Città senza Nome.

lunedì 4 gennaio 2016

La Signora del Lago di Andrzej Sapkowski, o come il Fantasy nell'Est Europa lo sanno scrivere


La Torre della Rondine si concludeva con l'autentica protagonista della saga, Ciri, la Fiamma di Cintra, in fuga dal cacciatore Leo Bonhart attraverso il portale di Tor Zirael. Un elfo intento a suonare un'allegra melodia accoglieva infatti una stranita Ciri all'arrivo, ingannando il lettore con la speranza che la sfortunata striga avesse incontrato un amico.
Se fossimo nel mondo di Tolkien, sarebbe probabilmente così, ma vivendo nel mondo di Sapkowski, Ciri scopre presto che la società di elfi che vive al di là del portale desidera solo tenerla prigioniera per avere da lei un figlio e permettere a questa razza di salvarsi dal non-luogo in cui sono esiliati. Più simili ad alieni che agli elfi tolkeniani, chiamano Ciri La Signora del Lago, e lasciano a intendere che non se ne andrà mai via di lì, se non incinta. Un suo figlio magico è l'unico lasciapassare permesso. Ma grazie alla magia instabile del mondo in cui è arrivata, Ciri progetta presto una fuga per suo conto...

Con l'arciera Milva, la prosperosa Angouleme, il rinnegato Cahir e il vampiro Regis, Geralt ormai dispone di una vera Compagnia Brancaleone, che nell'accompagnarlo alla ricerca di Ciri giunge al regno di Toussaint. Tanto piccolo quanto ignorato da tutti, Toussaint ricorda una provincia francese stereotipata, dove cavalieri erranti cacciano mostri tra filari di vigneti e dove ogni parola sembra richiedere perifrasi e cerimoniale normalmente sufficiente per un'incoronazione.
Stanco, malato e bloccato sia dall'inverno che dall'indecisione, Geralt decide di restare per un po' a Toussaint, ma come con La Signora del Lago di Ciri, è in realtà una prigionia dorata...

Intanto, la guerra espansionistica di Nilfgaard raggiunge il suo parossismo, mentre ogni genere di uomo, nano, elfo, mezzuomo e mercenario si getta nella mischia. 
Temeria e Redania adunano le loro forze, L'Imperatore si prepara allo scontro decisivo: per il popolino stesso questa sarà la guerra che terminerà tutte le guerre. Illusione sia storica che fantasy...

In occasione del Lucca Comics&Games del 2015 ho guardato molte interviste a Sapkowski, dove il baffuto polacco raccontava la genesi del suo personaggio, Geralt, dall'idea di una soluzione capitalista a come risolvere il vecchio problema delle fiabe: uccidere il mostro, orco o drago che sia. La soluzione realistica sarebbe stata, punzecchiava, pagare un professionistaCioè, uno witcher, uno strigo, un cacciatore di taglie a livello due punto zero. Geralt, appunto.
Inoltre, dopo quest'aneddoto, Sapkowski chiariva sempre come de La Signora del Lago non ricordasse assolutamente nulla. Non ricordava nulla della trama, dei personaggi, del tema. Certo, aveva ben presente il mondo di Geralt e si mostrava felice delle royalties garantite dalle vendite e dai videogiochi, ma chiariva bene come Geralt fosse una sua creazione del passato. In effetti, è innegabile: La Signora del Lago fu pubblicato appena nel 1999 e solo ora, nel 2015, possiamo leggerlo in italiano. Dopotutto, non dovremmo nemmeno lamentarci; la nostra editoria, assieme a quella spagnola è l'unica in assoluto ad aver tradotto il Maestro. Gli inglesi devono accontentarsi di una traduzione – piuttosto mediocre – delle raccolte di novelle. Possiamo andarne giustamente orgogliosi, per una volta. Probabilmente, nell'asfittico panorama delle grandi case editrici, l'epopea di Sapkowski è tra le poche davvero meritevoli di lettura, scogli di sangue e spade nel mare di Young Adult. Tuttavia, resta pur sempre il fatto che il libro che in questo momento tengo in mano fu pubblicato appena nel 1999 e bisognerebbe anche contestualizzarlo in quegli anni. In tal senso, le lamentele di già visto, o certi piagnucolii che parlano di ingenuità narrativa non dovrebbero davvero avere luogo.