Difficile giudicare se
un romanzo è da discount quand'è acquistato in formato ebook.
Non intendo con questa
definizione dare addosso al romanzo da supermercato: semplicemente
sono libri, che nella loro rozzezza, tengono il lettore appiccicato
alle pagine nell'ansia di scoprire cosa diamine succederà ai
personaggi. Lots of fun, but intelligent fun, se il romanzo è
scritto degnamente.
Ecco, questo Suicide
Forest, di Jeremy Bates, è sicuramente un romanzo da
leggo-e-getto-via.
Questo non vuol dire
che i personaggi siano scarsi, o che la storia manchi di spessore. In
questo caso, il romanzo è palesemente da consumo indiscriminato, perchè scritto con stile molto, molto basso. Non siamo certo in
campi letterari “alti”, ma nemmeno nella narrativa di genere di
pregio.
Paradossalmente,
tuttavia, lo stile diretto e senza fronzoli gioca inaspettatamente a
nostro vantaggio, considerando che non siamo perfetti english
speakers, ma lettori italiani. Al di fuori della saggistica e dei
fumetti, è uno dei libri in inglese che ho letto con maggior
scioltezza.
Chiarito ciò,
benvenuti a Junkai...
...o letteralmente, il
mare di alberi. Il termine ufficiale è Aokigahara, che denomina una
vasta foresta di 35 chilometri quadrati, una riserva naturale
cresciuta a ridosso del monte Fuji, in ambiente vulcanico. Come
direbbe l'elfo Legolas, è una foresta vecchia e piena di rabbia. Il
sottosuolo di grotte, fenditure e crepacci dà vita a una vegetazione
fitta e intricata, ricca di conifere e arbusti. La fenomenale
crescita degli alberi ha bloccato coi secoli l'agire del vento,
rendendo la foresta silenziosa e poco abitata dagli animali, tranne
che dagli uccelli e da occasionali cervi.
Il silenzio ovatta
l'ambiente, dando al visitatore l'impressione di trovarsi dentro un
bozzolo accogliente, dove nulla si muove o vive. Già nell'Ottocento,
la foresta era nota perché vi andavano a morire gli anziani dei
villaggi nei periodi di crisi, dalle pestilenze alle guerre. Quando
la famiglia non era più in grado di sfamare i deboli della famiglia,
venivano abbandonati dentro la foresta, a morire di fame.
Hansel&Gretel, versione pensionato. Stando alla plebe, i loro
spiriti infestano ancora Junkai nella forma dei fantasmi giapponesi,
gli yurei.
I ranger che la
pattugliano ammoniscono invece i campeggiatori contro le pietre
vulcaniche della zona, che impediscono il funzionamento delle bussole
e interferiscono con i cellulari. Il sottobosco omogeneo e monotono
fa sì che ci si perda facilmente.
Dal secondo dopoguerra,
la Foresta è tristemente nota per il suo alto numero di suicidi.
Dagli anni settanta mantiene il primato in tutto il
Giappone, un centinaio all'anno. Dopo il Golden Gate Bridge a San
Francisco, è la seconda località più gettonata dai suicidi di
tutto il mondo. Contrariamente a quanto si pensa, non è perchè il
luogo sia inquietante, o morboso: proprio al contrario, l'estremo
silenzio, il suo essere un “bozzolo” impermeabile al mondo
rendono l'atto facile e romantico. Nella realtà, i cadaveri di cui
sono costellati Junkai non sono per niente eroici: gli animali
divorano i corpi nel giro di un anno o le carcasse butterate
ammorbano l'aria dall'alto di un cappio, le gambe mangiate dai
randagi. Le statistiche effettivamente fanno impressione: nel 2010
247 diverse persone hanno provato a farla finita e 57 ci sono
riuscite, nonostante le telecamere, la polizia, le ronde. Una
leggenda vuole che la yakuza getti via qui i cadaveri che vuole nascondere.
Le discussioni sul
perchè vi siano così tanti suicidi in realtà sanno benissimo la
risposta. E' lo stress imposto dalla società capitalista, da ritmi
di lavoro massacranti, dal perdere quello stesso lavoro massacrante,
dalle aspettative di colleghi e dirigenti. Non a caso, Junkai diventa
la Foresta dei Suicidi solo dalla modernizzazione liberale americana
del '50, e sempre non a caso, l'altro record è proprio del Golden
Gate Bridge, negli Stati Uniti, altra contrada capitalista.
Rimproverare i suicidi alla superstizione locale, alla cultura laica
o addirittura a Mishima e al seppuku è stupido. Ad avvalorare
l'argomento, il più alto numero di suicidi è sempre in marzo, la
fine dell'anno fiscale in Giappone, mentre il numero è drasticamente
salito con la Crisi Economica del 2007 (superando il record del 1998,
altro periodo di “recessione”, dopo la crescita vertiginosa della
fine anni '80/inizio anni '90).
Ethan, il professor
Ethan, insegna inglese ai giapponesi a Tokyo ormai da diversi anni.
Prima di concludere finalmente il suo periodo di stage oltremare e
tornare in America, desidera vedere un ultima volta il monte Fuji con
la sua fidanzata anch'essa insegnante, Mel. Una brava persona, è
tormentato dalla morte di suo fratello, ucciso senza ragione da un
delinquente nel pieno della gioventù. Dopo un periodo di profonda
depressione, ha trovato una soluzione nella fuga nel Sol Levante,
dove il nuovo ambiente ha seppellito l'inconscio del parente morto.
A metà tragitto verso
il monte, sembra dover piovere. La comitiva, indecisa, incontra alla
prima stazione una coppia israeliana in gita che propone loro una
meta alternativa: un campeggio illegale a Junkai, in attesa che il
tempo migliori. Gustare l'atmosfera proibita della foresta e forse
scorgere qualche fantasma, il tutto a costo zero.
Dopo aver scelto di
deviare dal sentiero principale affidandosi ai nastri lasciati dai
suicidi come indicazioni, il gruppo si addentra profondamente nella
foresta. John Scott, il militare del gruppo, vorrebbe vedere uno dei
cadaveri “appesi”, mentre Nina, la donna israeliana, sembra
interessata a flirtare con Ethan. Tra gli effetti personali di alcuni
suicidi il gruppo trova Il manuale del suicidio, e andando avanti una
borsetta, un ombrello femminile, una gabbia per cani...
Dopo una notte agitata,
Ethan si sveglia per scoprire che Ben, il marito dell'israeliana,
pende da un albero, impiccato. Il nastro che li aveva condotti fin lì
sembra sparito e il gruppo vagando a caso inizia a smarrirsi nel mare
di alberi, ognuno preda delle sue personali depressioni.
Jeremy Bates dosa bene gli elementi conturbanti a sua disposizione. La
principale paura per l'intero romanzo non è fornita dallo splatter,
o da “mostri”, o dai fantasmi, ma dall'istinto primordiale
proprio di ogni essere umano: la paura di perdersi. Quel momento in
cui, da bambini, vi perdevate nel centro commerciale, senza capire
dove fosse l'uscita, la madre, la salvezza.
Ethan infatti nei primi
capitoli traccia senza difficoltà un paragone tra Junkai e Tokyo,
dove la prima è una tomba vegetale, la seconda una tomba di cemento,
abitata da zombie-impiegati che aspettano solo una liberazione, nella
forma della pensione o della morte.
Aokigahara viene
presentata a poco a poco: dapprima nelle dicerie di John Scott e
degli israeliani, poi da Tomo, l'unico giapponese della comitiva e
infine dal comportamento degli anziani del posto, che cercano in ogni
modo di dissuaderli dal campeggiare. Tre livelli d'inquietudine senza
che la comitiva sia nemmeno ancora entrata nella foresta.
L'ambiente è descritto
seguendo fedelmente le testimonianze degli escursionisti, come un
luogo che non è solo vecchio, ma sa di vecchio. I personaggi
la paragonano a Fangorn:
“Sort of like Middle Earth, I reckon,” Neil said, breaking the silence that had stolen over us. “The Ents. Treebeard.”Eyeing a nearby nest of tree roots, I could almost imagine one of these trees coming to life and walking away.“An enchanted forest,” Mel said. “That’s what I think. It’s so green. Like from a fairytale.”
La sequela di oggetti
dei defunti, che diventano sempre meno innocui al passare dei
capitoli, aumentano la tensione. Questo ancor prima che si scopra il
primo cadavere o compaia l'elemento soprannaturale vero e proprio. Il
sottosuolo, decisamente carsico, permette inoltre di dare anche un
robusto scossone, quando uno dei personaggi ci precipita dentro,
ancora all'inizio della storia.
In generale tuttavia,
Jeremy Bates prepara la tensione con un lavoro minuzioso. Quando la situazione precipita, il ritmo cambia improvvisamente e per fare
un paragone si passa dal flauto meditativo alla chitarra elettrica. Ethan, come
Nina e Mel, vanno incontro a un tour de force di danni fisici e
mentali in tre capitoli finali assolutamente infernali, dove il
romanzo diventa una versione cartacea di The Descent.
Jeremy per altro lancia
ogni sua arma narrativa contro il lettore.
Dalle descrizioni
dettagliatamente sadiche dei suicidi...
His head seemed too large, at least larger than I remembered it, in comparison to the rest of his body. Then I realized his head wasn’t too big at all; his neck was too thin, too elongated. The rope was knotted snug beneath his jawline, pulled impossibly high and tight by gravity and his own body weight, crushing the soft tissue in his throat, providing the illusion that his neck had been stretched.His eyes were closed, his mouth a gaping orifice, from which his tongue protruded, swelled thick, a blood-purple color. I couldn’t be sure given the distance between us, but it appeared as though his face was covered with small red blotches, almost as if he had developed a bad case of the measles, and it took me a moment to realize these were likely the result of burst capillaries that had bled into his skin.
...
alle digressioni biografiche. Un paio di colpi di
scena non del tutto prevedibili rendono inoltre i protagonisti meno
banali di quanto sembri nella mia sinossi.
Il romanzo è certo
piuttosto rozzo nel suo uso della prima persona di Ethan, soggetto a
divagazioni e ricordi anche nel folto dell'azione/foresta. I momenti
in cui rimembra il suo passato sono troppo “staccati” dal resto
degli eventi, quasi paragrafi di approfondimento. Tuttavia, Ethan ha
una voce calda, è un protagonista con cui simpatizzare con facilità.
Ha i suoi difetti, ma è un uomo a posto. Il suo essere insegnante
d'inglese in terra nipponica rende i primi capitoli una via di mezzo fra
romanzo e resoconto di viaggio, il che per gli idioti come me
affascinati dal Giappone è molto interessante.
Si vedano ad esempio
chicche come questa:
Driving our car was Tomo Ishiwara, a twenty-two-year-old university student studying psychiatry, which was a rare major in Japan. Generally speaking, people over here didn’t speak about their problems; they drank them away. One of the first expressions I learned fresh off the plane four and a half years ago was nomehodai, which basically means all-you-can-drink shōchū, sake, and beer. For some people in over-stressed Tokyo, this was a nightly occurrence, and in many cases it was better therapy than weekly sessions with a shrink.
O quest'altra:
I think Tomo currently had two or three girls chasing after him. He was handsome, with the shaggy hair popular with Japanese guys, almond eyes, and a sharp nose and cheekbones. He could use a visit to the dentist, however, because his teeth were crooked every which way. But that was only my opinion; yaeba, or snaggletooth, was commonplace in Japan and considered attractive. I’ve even heard of people paying for a dental procedure to get their own fake yaeba.
Jeremy Bates riesce
anche a trasmettere bene i diversi “inglesi” parlati nella
comitiva: John Scott è un soldato americano di stanza a Okinawa, i
due israeliani balbettano un inglese stentato, mentre Tomo, l'unico
“nativo” del gruppo, parla un inglese pieno di parolacce,
avendolo imparato dai film e dal rap più che dalle lezioni di Ethan.
Il risultato è volutamente sgrammaticato, ma rende facile
affezionarsi ai personaggi.
Jeremy Bates, da bravo
scrittore seriale, ha già scritto un seguito nello stesso genere, The Catacombs, ambientato stavolta nelle catacombe di Parigi, ma con un plot
pressoché identico...
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