Visualizzazione post con etichetta national geographic. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta national geographic. Mostra tutti i post

lunedì 26 settembre 2016

Per uno stile di vita Biedermeier

So che con questo articolo sembrerò una persona ancora più vecchia nell'animo di quanto già non sembro normalmente, ma con diverse ore di studio alle spalle (o meglio, in testa) mi risulterà inevitabile. Sono come quel vecchio alla fermata del tram che proprio non resiste a raccontarvi quella sua storiella tanto importante. Gettategli qualche euro per starvene in pace.

Qualche settimana fa, discutendo sul mio (pseudo) luogo di lavoro, una collega elencava quanto a suo giudizio erano le cose-da-fare prima di raggiungere i quarant'anni. Viaggi, innanzitutto; e poi attività spericolate-ma-non-troppo, dall'immersione nella gabbia con gli squali al bungee jumping.
Mi dev'essere sfuggito allora uno sbadiglio e non solo perchè stavo cercando di studiare un testo tanto filo americano che sentivo la mia camicia colorarsi a stelle e strisce. No, sbadigliavo anche perchè ritenevo che fosse una lista di attivitàpericolose, eppure anche così... borghesi?
Il pericolo c'era, ma diluito a tal punto da risultare addomesticato, gestibile. Un brivido, nulla di più.
E non voglio certo dire che non ci voglia coraggio a nuotare tra gli squali, anzi il sottoscritto non sapendo nuotare affatto, probabilmente si spaventerebbe anche solo all'idea di immergersi in qualcosa di più della vasca da bagno casalinga. Quindi tanto di cappello, suppongo. Eppure, all'idea stessa di compilare una list of things to do prima di diventare “vecchi” mi sentivo schifato. Non erano vere attività, come non erano vere esperienze; si trattava piuttosto di cogliere un attimo particolare e consumarlo. Elencare le cose da fare trasmetteva un'idea di lista della spesa, di consumo generalizzato, in diretto contrasto con il lessico usato.
Da un lato, le solite cazzate buddiste/spiritualiste: cibo per l'anima, rigenerazione interiore, un'esperienza dell'animo ecc ecc
Dall'altro, un'attività programmata e preparata nel dettaglio, un oggetto-esperienza da consumare seduta stante. Solo in una società che quantifica tutto e tutti instancabilmente, sarebbe stato possibile arrivare a un simile combinazione di fattori:
  • Qualcosa d'impalpabile come “un'esperienza” vendibile attraverso un'attività.
  • Un'attività unica e irripetibile venduta con un suo programma predefinito, un suo listino e costo, una sua descrizione in dettaglio.
  • Un servizio a pagamento – perchè di questo discutiamo – presentato nemmeno come un'attività, ma come un'esperienza e per di più un'esperienza spirituale.
Già Slavoj Zizek lamentava giustamente come il consumismo moderno, non pago di avere un consumatore, pretende persino di avere un consumatore che non badi a ciò che compera, che lo consumi con disprezzo zen. Non basta che si comperi un oggetto e non si possa star bene senza averlo comprato; ma nella fase successiva all'acquisto occorre negare ogni attaccamento, considerarlo spazzatura, robetta poco importante. Insomma, perdiamo così persino la figura dell'accaparratore, materialista geloso e possessivo verso quanto acquista.

martedì 13 ottobre 2015

Il tramonto del Sol Levante: il Giappone negli anni Novanta (National Geographic)


Lo scorso autunno avevo tratto da un vecchio numero del National Geographic un breve articolo sul Giappone durante le Olimpiadi del 1964, cercando di trasmettere almeno un pizzico della grandiosità del boom economico nipponico.
Un anno dopo, ritorniamo sull'argomento con un brusco salto temporale: per un bizzarro colpo di fortuna, la mia rigatteria preferita ha ricevuto un nuovo carico di National Geographic, stavolta squisitamente anni novanta.

“Il sole del Giappone sorge sul Pacifico” costituisce un lungo reportage sull'espansione culturale e commerciale giapponese attraverso l'intero Sud Est asiatico, la Cina, la Corea, fin fine all'Australia e alla costa occidentale degli Stati Uniti.
Il giornalista, Arthur Zich, è un fedele facsimile di quel William Graves che nel 1964 esplorava Tokyo: fortemente critico, preoccupato, altresì parecchio razzista.
Come nel 64' il giornalista guardava al Giappone in bilico tra l'ammirazione e la sensazione eccentrica di vedere uno distorto specchio della società americana, così nel 91' un incredulo americano intervista boccheggiante un'espansione che non sembra conoscere né morale, né limiti.
Dalla ricostruzione negli anni cinquanta, allo slancio industriale nel sessanta, dall'Olimpiadi di Tokyo, alla costruzione del treno-proiettile Shinkansen, dall'eccezionale crescita in un periodo di crisi quale gli anni Settanta, al boom mostruoso dell'elettronica e dei chip nei reaganiani anni ottanta... 
Il Giappone approdava nel 1991 colmo di benessere, e mai così squilibrato tra il suo effettivo possesso territoriale di poche isolette e il suo mostruoso potere finanziario.

Dalla rassegna, non è difficile capire perchè per un osservatore di allora il Giappone sembrasse tra le maggiori potenze leader. C'erano tutte le ragioni, esposte nei decenni precedenti, per continuare a credere che il Giappone costituisse il Futuro, con la F maiuscola.
Un futuro intrecciato a incomprensibili tradizioni che nessun gaijin avrebbe mai compreso, un futuro di suicidi e drogati di straordinari, di Corporazioni e monopolii, di inquinamento e cementificazione; ma pur sempre il futuro.
Non a caso, Blade Runner ripropone proprio questa mescolanza di vecchio e nuovo, nel suo vero protagonista, la città: vecchie usanze, aggeggi vintage e tecnologie da urlo si fondono per descrivere più che il futuro, un retrofuturo per come allora lo immaginavano.

Logicamente, per noi storici e uomini del duemila, il tracollo economico del Giappone dalla seconda metà degli anni novanta risulta qualcosa di ovvio, di inevitabile: si capisce senza difficoltà, come il Giappone campasse in realtà di rendita dagli anni sessanta e ottanta.
L'esercito di impiegati che aveva permesso la ricostruzione aveva prodotto una generazione meno masochista, meno indotta al sacrificio. Una generazione che pretendeva finalmente del tempo libero, e turni meno massacranti.
Il sistema patriarcale cedeva a un disperato edonismo, che sfilacciava relazioni e amicizie, mentre le donne giapponesi cercavano di sfuggire alla trappola di un matrimonio precoce e i giovani preferivano una gratificazione immediata alle prospettive di una lunga&estenuante carriera.
Lo yen, pompato oltre i suoi normali standard, si sarebbe sommato a una crisi nel sistema immobiliare e tutti questi sintomi sarebbero scoppiati in un bubbone di povertà.

Le condizioni di un meritato crollo, per un effetto congiunto sia di motivazioni finanziarie che sociali abbondavano: tuttavia, se tralasciamo l'efficace descrizione dell'edonismo giapponese nato negli anni ottanta, il reporter non avverte alcun tremore del terremoto economico che minacciava la società giapponese.


martedì 30 settembre 2014

Tokyo vintage degli anni Sessanta


A mo' di consolazione dopo essere stato splatter(osamente) segato a un esame di qualche giorno fa, sono ricascato nella mia attuale dipendenza di rigatterie&negozi polverosi.
Stavolta, dopo aver inutilmente scavato tra cumuli di harmony, mi sono messo a sfogliare alcuni old but gold National Geographic, finendo per comprare il numero di ottobre del 1964.

Avrete già intuito guardando la copertina qui esposta quale fosse il mio interesse: il Giappone degli anni sessanta. Le Olimpiadi del 1964 vennero per la prima volta tenute nel Giappone del secondo dopoguerra e rappresentarono uno sforzo erculeo per il popolo giapponese, in termini di infrastrutture e servizi. Appena nel cinquanta era iniziata la ricostruzione e nonostante le catene di aiuti post-bellici, il paese era un cumulo di macerie insanguinate. Senza citare il (doppio) bombardamento nucleare, ogni città era stata capillarmente devastata e il fulcro della gioventù giapponese era morta in guerra, sia negli attacchi kamikaze che difendendo la costellazione di isole-colonie conquistate negli anni trenta: Filippine, Guam, Isole Marshall, Isole Caroline...

Dì lì a dieci anni, seguì una ricostruzione tanto rapida quanto tecnologicamente fantascientifica. Il boom economico schizzò alle stelle, mentre il paese superava nello slancio della ricostruzione ogni altro concorrente.  l'Europa né l'America nonostante l'impressionante ricchezza di quegli anni potevano vagamente competere con il nuovo colosso asiatico. Una crescita tanto più impressionante se si considera che a differenza dei paesi occidentali il Giappone continuò pervicacemente a restare paese leader fino agli anni novanta. Opere razziste come "Sol Levante" qualificano bene la paura degli Stati Uniti che un'altra potenza minacciasse il suo primato consumista. Le destre xenofobe europee di quegli anni parlano chiaramente infatti dei maledetti "nani di Tokyo" che detenevano 3/4 del mercato azionario. Negli Stati Uniti si preparava una nuova offensiva: scomparso lo spauracchio comunista, c'era necessità di un nuovo nemico e solo il crollo economico del colosso giapponese (crollo in realtà relativo se comparate ad altre crisi) impedì una nuova campagna diffamatoria. Se al momento l'odio è verso i "maledetti musulmani" e non verso "i maledetti musi gialli" dipende abbondantemente da scelte a priori. D'altronde, non va dimenticato che lo shintoismo rimane una religione pagana, per forza in violento contrasto con la mentalità americana. Ateo o cristiano, fa poca differenza: la mentalità statunitense resta rigidamente monoteista e astorica, con tutto ciò che ne consegue.

Tenendo ciò bene presente, non deve sorprendere che l'articolo preso in esame sia alla fin fine un gustoso confronto tra una mentalità americana razzista, dove il reporter liquida le conquiste giapponesi come pure imitazioni e a contraltare un altrettanto razzista mentalità giapponese, dove le conquiste edilizie e ingegneristiche sono tanto strombazzate da dare l'impressione di un inferiorità in altri campi...
Il meglio lo si raggiunge già nell'introduzione, dove la notizia del boom economico procede di pari passo con un'ostinata enumerazione di dati tecnici:

Il giovane giornalista giapponese sapeva un sacco di cose e non vedeva l'ora di aiutare.“ Tokyo” disse “E' ora la più grande città del mondo – 10 milioni e mezzo di persone”Annuii. “ Sì, lo so. Le guide turistiche lo dicono. Ho preso nota, infatti”Il mio amico girò una pagina del suo libretto d'appunti. “ Tokyo ha ora 8,488 ponti, per lo più di pietra o di cemento,” disse.
“Sono felice di sentirlo,” risposi “La guida turistica non lo diceva. Cos'altro hai nei tuoi appunti?”Il mio amico girò un'altra pagina. “Gli abitanti di Tokyo in una normale giornata” – prese un ampio respiro – “mangiano 6 milioni di libbre di riso, 3.5 milioni di libbre di pesce, leggono 21 diversi giornali, comprano 6 milioni di biglietti del treno, aumentano la popolazione di 460 persone, commettono 641 crimini.” Fece una pausa. “E hanno 25 incendi e tre terremoti.”“Questa non è esattamente una normale giornata per una sola città!” Dissi. Scosse la testa.
Tokyo non è una città. Tokyo” S'interruppe alla ricerca della parola giusta – “Tokyo è un'esplosione”.