venerdì 25 settembre 2015

Il Lovecraft byroniano di Craig Engler


Ci sono kickstarter che seguo dai primi abbozzi di sketch in uno sparuto gruppo facebook fino all'ultimo update dell'ultimo aggiornamento sulla spedizione degli ultimi item completati.
E dall'altro, ci sono raccolte fondi via kickstarter a cui partecipo di sfuggita, e che per pochi spiccioli non si fanno sentire per mesi fino a scivolare lentamente nell'oblio.

Una pericolosa abitudine mentale, considerando che avete donato fondi a un progetto che, in cambio dovrebbe retribuirvi con quanto promesso: se non altro la soddisfazione di sapere che il libro/fumetto/coso è stato realizzato con pieno successo dal generoso popolo dell'Internet.

E' stato quindi con non poca sorpresa che l'altro ieri mi sono accorto che Lovecraft, di Craig Engler, aveva finalmente completato il suo primo numero, gentilmente inviato in formato pdf sulla soglia di casa. 
Mi ero completamente dimenticato d'aver partecipato!
A mia difesa, non c'erano stati frequenti updates...

Il progetto prevedeva di finanziare il primo numero di una serie di fumetti intitolata semplicemente “Lovecraft”. Lo sceneggiatore e finanziatore è Craig Engler, autore di Z Nation (1), mentre ai disegni troviamo Daniel Govar, ai colori Mat Lopes e alle (splendide!) copertine Lewis LaRosa.

Il tratto di Govar supera a malapena la sufficienza, ma i colori hanno di tanto in tanto un tratto di acquerello che dà loro un qualcosina di originale. Non guastano le tinte cupissime, che trasmettono un che' di viscido. Gli obiettivi di volta in volta sbloccati dalla raccolta fondi hanno permesso di raccogliere nel volume schizzi di preparazione, la sceneggiatura con relative correzioni e sopratutto un'impressionante sequela di copertine alternative, l'una più bella dell'altra.
Tra queste è superfluo premiare la pin up “lovecraftiana” di Richard Luong, meglio conosciuto per Cthulhu Wars, sulla cui arte aveva già discorso La Tana dello Sciamano.

lunedì 21 settembre 2015

Leggere? Roba da mocciosi.


Uno degli ultimi articoli della Leggivendola dava di che pensare.
La blogger argomentava nel primo punto che leggere è un legittimo hobby, di cui non ci si dovrebbe vergognare; è giusto potersene vantare, così come poterlo citare come attività da svolgere nel tempo libero. L'argomento era trattato in modo passeggero e la vignetta incriminata convinceva più della tesi contraria sostenuta dall'autrice.
L'argomento mi lasciava piuttosto indifferente, ma un commento di Athenae Noctua prendeva una posizione decisamente più estrema. 
Come vi sono accaniti tifosi di calcio, così vi sono accaniti lettori, e non dovrebbero vergognarsi di più i primi che i secondi, essendo leggere un'attività molto più elevata e nobile?
Perché un lettore italiano, in mezzo a tanti analfabeti funzionali (curiosa definizione del tutto anti-scientifica, questa), dovrebbe vergognarsi di voler entrare in club di lettura e dedicare quel poco tempo che lavoro&vita sociale ci lasciano per leggere dei bei romanzi?
Dall'opinione di passaggio della Leggivendola, si veleggiava in territori già più radicali e insicuri, pericolosamente vicini alle rapide distruttive della vignetta incriminata.
Se ovviamente la lettura è una bellissima attività, è altrettanto vero che difficilmente la si può categorizzare come hobby.
L'hobby riguarda un'attività che si caratterizza per essere specifica di un dato ambito e materia, rigorosamente circoscritto nello spazio e nei modi.
C'è chi per hobby colleziona: ma non si limiterà mai a collezionare “solamente”. Collezionerà qualcosa di specifico, possibilmente di raro.
Colleziono... francobolli del secondo dopoguerra.
Colleziono... bustine di zucchero dei bar.
Colleziono... fossili rari.
C'è anche chi per hobby pratica uno sport: ma non si limiterà mai semplicemente a “fare” uno sport. Farà corsa agonistica, tennis competitivo, calcio con gli amici, ping pong con l'amico cinese ecc ecc
Cerchiamo allora un hobby che sia il più generico possibile.
Il signor Rossi per hobby guarda la televisione. Quando non sa cosa fare accende il capezzolo di vetro e guarda che di bello c'è in tv. Tuttavia, di nuovo: il signor Rossi sarebbe una scimmia lobotomizzata, se guardasse un po' tutto, senza sviluppare uno specifico gusto.
C'è quindi chi per hobby guarda la televisione, ma il più delle volte avrà l'hobby di guardare una data trasmissione, serie tv, cartone ecc ecc
Non si può pertanto difendere la lettura come un hobby con una sua dignità, perché non è né un hobby, né un passatempo. E' un'attività che svolgiamo ogni giorno, assolutamente generale e ancora molto richiesta nel lavoro, nella vita sociale e nell'attività umana dalle piccole città alle megalopoli.
Il neonato impara a camminare, a parlare. E nei primi anni delle elementari impara a scrivere e leggere. Lo ripeto, nel caso vi fosse sfuggito il concetto: impariamo a leggere quando siamo bambini con il grembiule sporco di cibo e l'altezza di un hobbit rincoglionito.
Leggere non è qualcosa di speciale, è un requisito fondamentale della civiltà moderna.

(Norman Rockwell)

martedì 15 settembre 2015

Grandezza e caduta dell'impero asburgico (1815-1918), di Alan Sked - Leggende storiografiche e spauracchi liberali



L'uomo comune che domanda consigli su cosa leggere a proposito di quel periodo storico, che sia il medioevo, il rinascimento o l'ottocento, mette sempre in crisi il saggista più disponibile.
Non esiste un manuale che riassumi in modo esauriente mille anni di storia, esattamente come non esiste un testo sintetico a sufficienza d'abbracciare il XIX secolo, o comprendere con sufficiente rigore i meccanismi del ventesimo.
Abbisognerebbe un'intera collana, e persino così si trascurerebbero inevitabilmente informazioni importanti. In linea generale, più un libro di storia è ristretto a un argomento preciso, limitato nel tempo e nel luogo, più alte sono le probabilità che sia davvero esauriente e scientifico nel trattare la materia.
Ma il più delle volte, chi chiede consigli su un buon libro sul Medioevo risulta in realtà interessato agli ultimi tre secoli, e a quell'immagine kitsch che hanno trasmesso i romanzi ottocenteschi. Esattamente come chi chiede consigli sull'età vittoriana vorrebbe leggere un saggio sull'Inghilterra nel 1880, e vi guarderebbe con disprezzo se gli consigliaste un bel testo sull'evoluzione politica della Francia post napoleone, o sull'avventura risorgimentale.

Nel caso dell'Austria-Ungheria, neppure queste aspettative vengono soddisfatte: lungi dal volersi informare su materiale saggistico, il lettore si accontenta di leggere La marcia di Radetzky e dichiararsi “esperto” di tutto le cose “austro-ungariche” senza magari neppure conoscere la battaglia di Sadowa del 1866, e perpetuando un'infinita lista di dannosi stereotipi.
Se doveste domandarmi un buon testo sull'Austria-Ungheria, io v'indirizzerei a questo Grandezza e caduta dell'Impero Asburgico 1815 – 1918 (pubblicato nel 1989), che è invece un primo step verso degli studi seri.
In seguito alla guerra fredda, numerosi storici dell'est, emigrati in America dopo la seconda guerra e ferventi anticomunisti, recuperarono lo studio della scomparsa Austria-Ungheria in chiave nostalgica.
Se gli Asburgo non fossero caduti, allora Hitler non avrebbe trionfato.
Se gli Asburgo non fossero caduti, allora Stalin non avrebbe oppresso le terre dell'Europa orientale.
Il contesto in cui scrive Alan Sked è proprio questo: ma tra gli apologeti all'epoca abbondanti, preferisce prendere un taglio più critico, e in tal senso ironizza spesso su chi difende Metternich contro Churcill, proponendo paragoni politici che ora nel ventunesimo secolo risuonano completamente grotteschi. Il compromesso di Alan Sked – sicuramente migliore di quello austro-ungarico! – ci permette pertanto una posizione mediata tra gli (ora) separatisti filo asburgici e i liberali che reputano e reputavano i territori asburgici la prigione di popoli sofferenti.

Nel XIX secolo, l'Impero Austriaco era il secondo stato più vasto dopo la Russia.
Nel 1848, comprendeva:

- I territori austriaci: gli arciducati dell'Alta e Bassa Austria; i Ducati di Stiria, Carniola e Carinzia; le Contee del Tirolo e di Voralberg; Gorizia e Gradisca; il margraviato d'Istria; Trieste e lo sbocco sul mare.

- I territori della Corona ungherese: Ungheria, Croazia e Slavonia; Fiume; il granducato di Transilvania; i confini croato-slavone e serbo-ungheresi.

- I territori della Corona Boema: la Boemia; il Margraviato di Moravia; il ducato dell'Alta e Bassa Slesia.

- Il regno Lombardo-Veneto.

- Il Regno di Galizia e il granducato di Cracovia.

- Il granducato di Bucovina.

- Il regno di Dalmazia.

- Il ducato di Salisburgo.

Un bel casino, neh?
Se questo vasto collage di stati e staterelli vi sembra un grande impero, non va dimenticato di sovrapporre alla cartina politica, la cartina geografica
Il collage apparirà allora ancor più variegato e bizzarro.
In linea generale, l'Austria-Ungheria era per due terzi costituita da montagne e colline, ben poco utili sia per la coltivazione che per l'industria.
Nel suo piccolo, la Boemia – una delle poche regioni fortemente industrializzate – era separata dall'Austria-Ungheria, ma collegata alla Germania tramite un efficiente sistema fluviale.
Il collegamento via mare era limitato al mare Adriatico, e per di più a un unico porto fondamentale, Trieste.
Galizia e Bucovina erano tagliate fuori dal territorio principale austroungarico da imponenti catene montuose.
Il Voralberg era collegato con la produzione tessile della Svizzera e della Svevia, ma non aveva collegamenti con i territori propriamente austroungarici.
La navigazione fluviale sul Danubio era universalmente ritenuta difficile e pericolosa, mentre Trieste stessa non aveva efficaci collegamenti ferroviari con il resto del paese – almeno fino agli anni sessanta dell'Ottocento.

La composizione nazionale era un allegro minestrone con a capo l'elemento tedesco, che verrà lentamente diluito nel XIX secolo dall'elemento slavo.
Nel 1848, Alan Sked stima su 37,5 milioni di abitanti:
  • tedeschi (8 milioni)
  • magiari (5,5 milioni)
  • italiani (5 milioni)
  • cèchi (4 milioni)
  • ruteni (3 milioni)
  • romeni (2,5 milioni)
  • polacchi (2 milioni)
  • slovacchi (quasi 2 milioni)
  • serbi (1,5 milioni)
  • croati (quasi 1,5 milioni)
  • sloveni (oltre 1 milione)
  • ebrei (750000, concentrati a Vienna)
  • mezzo milione di zingari, armeni, bulgari e greci
Come se non bastasse, Francesco Giuseppe rivendicava formalmente ex territori asburgici persi secoli prima: la Lorena, l'Alta e Bassa Lusazia, Kyburg e Hasburg e perfino il medievale Regno di Gerusalemme (!). 

Il modo migliore per comprendere la geopolitica dell'Austria-Ungheria non è di considerarla uno “stato”, quanto piuttosto un insieme di terreni di proprietà del sovrano.
Una persona qualunque colleziona nella sua stanza diversi mobili e oggetti, che conserva nonostante l'apparente diversità, perché comprati e ceduti in viaggi e disavventure. Ugualmente, gli Asburgo non possedevano uno stato, quanto piuttosto una variegata collezione di terreni, o di popoli-souvenir, risalenti a diverse epoche e diverse conquiste.
Come un aristocratico spiaggiato però difficilmente vuole rinunciare a vendere i suoi gioielli, ugualmente gli Asburgo non accettavano nell'Ottocento di sgretolare i territori di famiglia. Così di volta in volta, persino quando la situazione avrebbe permesso una soluzione pacifica a patto di perdite territoriali, gli Asburgo preferivano combattere... per conservare l'onore, ma inevitabilmente perdere.

Una composizione così variegata e complessa è il motivo per cui è tanto interessante studiare l'Austria-Ungheria: come pesci tropicali nell'acquario, studiare la storia dell'Austria-Ungheria è ammirare cosa succede quando metti troppi (pesci) popoli nello stesso territorio (boccia d'acqua). 
E' guardare dall'occhio del tempo un assurdo microcosmo di popoli ed etnie che convivono a forza, più o meno pacificamente. E sarebbe stata un eccellente lezione per l'Unione Europea studiarne i meccanismi ed evitarne gli errori: ma sembra proprio che una monarchia costituzione con un Imperatore arteriosclerotico funzioni meglio che le moderne assemblee, quando si tratta di far ragionare più popoli.
Forse – ma sto divagando – con tutti i loro difetti questi vecchi monarchi avevano più a cuore l'onore che il denaro: e qui sta tutta la differenza.

Francesco Giuseppe, foto ricolorata

L'argomento è talmente vasto che non basterebbe certo un articolo per spiegarlo approfonditamente.
Ho scelto pertanto tre diversi eventi, d'approfondire adeguatamente:

Le vittorie militari di Radetzky nel 1848, che evitarono un altrimenti probabile tracollo degli Asburgo e immortalarono l'ottantenne (!) generale.

- Il concordato/compromesso (Ausgleich) del 1867, che diede vita all'Austria-Ungheria propriamente detta. I suoi effetti, i suoi pro e contro, la sua (scarsissima) popolarità.

- L'Austria-Ungheria nel 1914, che nonostante le falsità tramandate nei libri di testo era vitale, forte e in piena ascesa economica (e probabilmente federalistica, una volta morto Francesco Giuseppe).

L'idea che nel 1848 gli austriaci fossero preponderanti per numero e organizzazione, e dunque che la causa italiana fosse persa “in partenza” è un'impressione falsata da chi legge a ritroso la storia.
Per chi nel 1848 ci viveva, giunse come una completa e sgradita sorpresa, che gli austriaci riuscissero a conservare il Lombardo-Veneto.
L'esito sembrò a lungo a favore sia di Milano che Venezia, insorte con tale rapidità da stupire persino i suoi stessi insorti. 
Radetzky, che aveva giurato non avrebbe mai abbandonato Milano, fuggiva con la coda tra le gambe dopo soli cinque giorni di combattimenti. A Venezia i marinai italiani erano di ovvie simpatie italiane, mentre tra gli operai dell'Arsenale c'era un pericoloso malcontento, che sarebbe presto sfociato in una sollevazione. L'ammiraglio Martini, giustamente preoccupato, aveva inondato di missive Radetzky, che diede tuttavia risposte evasive, e rifiutò di privarsi di soldati. La conseguenza fu la perdita di Venezia, proclamata Repubblica.
Difetti di lunga data esacerbavano una situazione per l'Austria già cattiva di suo.
L'esercito, mal equipaggiato e inferiore numericamente all'esercito piemontese, viveva forti contrasti nazionali. Secondo una leggenda storiografica, nel “malvagio” impero, le truppe erano dislocate a seconda delle nazionalità in modo che non combattessero mai nel “loro” territorio.
Gli ungheresi combattevano in Italia, gli italiani in Ungheria, e così via...
L'idea, per quanto affascinante, conferirebbe in realtà agli Asburgo una genialità infernale, che per (s)fortuna non possedevano. I fatti contraddicono pienamente quest'idea: l'esercito di Radetzky aveva numerose truppe italiane, che si ritrovavano nello sgradito ruolo di dover combattere i loro stessi compatrioti.
Dei 61 battaglioni di fanteria di Radetzky:
  • 9 erano ungheresi
  • 6 cechi
  • 10 slavi meridionali
  • 12 austriaci
  • 24 italiani
Ironia delle ironie, il 40 per cento delle fanterie di Radetzky era italiano, e l'attempato generale era il primo a constatare tristemente la loro inaffidabilità:
Dove impiegarli? In prima linea? Potrebbero passare al nemico, rivolgere le armi contro di noi, e creare un vuoto molto pericoloso nel fronte di battaglia. Come riserve, minaccerebbero le mie retrovie; tenerli nelle fortezze sarebbe anche più rischioso, perché potrebbero consegnarle al nemico. L'unica cosa è frazionarli in modo da rendere possibili solo defezioni parziali e graduali; nelle circostanze peggiori potrei disarmali e sciogliere i reparti.

A conti fatti, sia nel 1848 che nel 1914 le diverse nazionalità dell'Impero continuarono a restare pervicacemente fedeli all'esercito, combattendo fino alla fine. E' vero che nel 1848 i reparti italiani avevano un alto tasso di diserzioni, ma in battaglia combatterono con valore pari agli altri battaglioni, dimostrando che la disciplina e (forse?) l'austriacità erano ancora valori vivi.
Nel 1918, negli ultimi mesi di guerra, l'esercito asburgico era composto per i due terzi da quelle stesse nazionalità slave che l'avrebbero poi smembrato; la percentuale di austriaci doc era ormai minima.
Va anche riconosciuto a Radetzky d'aver risolto ogni diatriba tra ungheresi e croati (slavi meridionali): mentre l'Ungheria minacciava la rivoluzione, i soldati ungheresi erano altrettanto inaffidabili degli italiani. Il sostegno croato, dal suo canto, era invece ambiguo, e mirava a strappare forti concessioni autonomiste dalla monarchia.

Con un esercito malandato, Radetzky doveva anche fronteggiare le rimostranze di Vienna: dopo aver perso Milano e Venezia il generale era caduto in disgrazia presso la corte; i più pretendevano una soluzione pacifica, che mirasse a cedere la Lombardia conservando il Veneto.
Gli accordi tra Londra, insorti Lombardi, Piemonte e Austria risultarono tuttavia impossibili. Non si riusciva a separare i lombardi dai piemontesi, mentre dal suo canto l'Inghilterra, guidata da Palmerston, non mediava affatto tra le parti in causa, ma favoriva apertamente gli italiani.
Giocò qui un ruolo decisivo la sicurezza dei lombardi, ormai convinti d'aver vinto la guerra.
Presa Milano, si dava per scontato il successo della rivoluzione.
Dal punto di vista geografico, tuttavia, Radetzky era fuggito sì, ma in una posizione strategica, detta del Quadrilatero. Era una robusta posizione strategica con i quattro angoli a vertice con le piazze fortificate di Verona, Mantova, Legnago e Peschiera.
Nel frattempo, Radetzky non era ancora stato informato dei tentativi diplomatici.
Il rubizzo generale non prese molto bene la notizia:
Tratterò, disse al ministro della Guerra, conte Latour, soltanto con la spada in pugno.

All'idea di una soluzione diplomatica, Radetzky minacciava di abbandonare il comando di generale:
Come fedele suddito, io non posso far altro che obbedire. Ma in tal caso sarei costretto a deporre il comando.

Quando gli si propose di negoziare lui stesso la tregua, scrisse:
Siamo caduti in basso, ma perdiò non ancora così in basso.

Intanto, la situazione verteva lentamente a favore del generale.
Carlo Alberto non immaginava di dover invadere la Lombardia; prima della dichiarazione di guerra l'esercito si preparava a reprimere una rivolta a Genova. 
Di conseguenza l'esercito non aveva mappe, tende, cavalli, e provviste sufficienti.
Carlo Alberto peggiorò la situazione tassando nelle regioni conquistate i contadini, che gli diedero il nomignolo di “re dei signori”. In sostanza Carlo Alberto mirava a ingraziarsi la borghesia e l'aristocrazia lombarda, pesantemente tassata dal governo asburgico.
Nel luglio del 1848, Carlo Alberto inoltre era ingenuamente convinto che le cinque giornate di Milano avessero già sfiancato alla morte l'esercito di Radetzky. Pertanto, non cercò minimamente di attaccare il feldmaresciallo, già di suo saldamente arroccato nel Quadrilatero.
Oltre che lento nel cervello, Carlo Alberto temeva che le tendenze repubblicane diffuse tra i patrioti si diffondessero dal Veneto alla Lombardia e al Piemonte. Vietò quindi ai volontari lombardi di tagliare agli austriaci le vie di rifornimento attraverso il Tirolo, e non chiese minimamente aiuto ai francesi.
Solo con molta riluttanza permise alla Legione polacca, del poeta Adam Mickiewicz, di partecipare alle battaglie e di reclutare entusiasti volontari dai prigionieri di guerra austriaci.

In luglio, di fronte al tremebondo Carlo, Radetzky prendeva l'iniziativa: il 24-25 spazzava via l'esercito piemontese nella battaglia di Custoza:
Una vittoria decisiva è stata il risultato di questa calda giornata.

Il 6 agosto, inneggiato dai contadini lombardi, rientrava a Milano.
Nel marzo 1849, Carlo Alberto ci riprovava, e Radetzky lo massacrava nuovamente nel giro di una settimana. Nel frattempo gli ungheresi venivano sconfitti e persino la coraggiosa Repubblica di Venezia s'arrendeva nell'agosto del 1849.

Spero che a questo punto della narrazione abbiate compreso quanto la vicenda italiana fosse in realtà in bilico. Vienna, la dinastia, la burocrazia erano tutte favorevoli a una soluzione pacifica. Gli italiani davano per scontato un'annessione rapida e indolore, mentre gli inglesi preferivano ovviamente una potenza liberale agli Asburgo.
In ultima analisi, se la Rivoluzione fu scongiurata, fu per l'incredibile testardaggine di Radetzky, e del suo genio militare.

Custoza, carica del Genova Cavalleria
Dopo il 1849, Radetzky modellò anche il governo del Lombardo-Veneto
Il feldmaresciallo non dava per perdute la fedeltà di quelle regioni, e sperava di riconquistare il popolo alla causa asburgica attraverso la lotta di classe.
Radetzky aveva correttamente osservato come la rivoluzione scaturisse dalla nobiltà e dalla borghesia industriale lombarda, e non dai contadini. Di conseguenza, argomentava di poter riconquistare il popolo tassando i nobili e risparmiando i contadini.
Scriveva infatti, rivolgendosi a Schwarzenberg:
Umiliare i ricchi refrattari, proteggere i cittadini fedeli, ma sopratutto esaltare la classi contadine più povere come in Galizia dovrebbe essere d'ora in avanti il principio ispiratore del governo nel Lombardo- Veneto.

Alan Sked osserva che il suo capo di Stato Maggiore, il generale Hess, era ancora più esplicito:
Il popolo ci ama; i nobili ci odiano; perciò dobbiamo annientarli.

Una forma di paternalismo, un po' reazionaria. Ma personalmente, un'idea che avrei anch'io appoggiato. Negli anni 50' e 60', la nobiltà lombarda fu così spietatamente tassata, nel tentativo (fallito) di eliminarne ogni base economica e sociale.
Usando come scusa l'insurrezione milanese del febbraio 1853, il governi confiscò le terre nobiliari.
I nobili lombardi accedevano alla corte solo se imparavano il tedesco, ma ovviamente per orgoglio nazionale la nobiltà lombarda conosceva solo l'italiano.
Radetzky esagerò a tal punto che Palmerston lo accusò di “comunismo”!
Alan Sked annota:
Palmerston disse che la sua politica era odiosamente oppressiva, enunciava “una dottrina propria soltanto dei discepoli del comunismo”, ed era “sovvertitrice delle fondamenta stesse dell'ordine sociale”

Radetzky comunista... In fondo è un complimento.

Purtroppo, la politica del feldmaresciallo non funzionava: danneggiando la nobiltà, danneggiava anche l'economia della regione e per sua diretta conseguenza anche gli strati inferiori. Inoltre, nonostante tutti gli sforzi, i contadini restarono sospettosi di ogni governo: temevano che dietro alla politica di Radetzky stesse in agguato la coscrizione obbligatoria per l'esercito - autentico spauracchio per le famiglie contadine.

Trieste sotto l'Austria-Ungheria
Non dovrebbe sorprendere che il Compromesso che seguì alla sconfitta a Sadowa nel 1866 era universalmente deprecato da ogni singola nazionalità dell'Impero Asburgico.
Francesco Giuseppe lo concluse in fretta e furia, senz'alcuna attenzione ai dettagli, ma pressato dall'ansia di raggiungere un accordo.
Dal punto di vista legislativo, l'accordo era tra Francesco Giuseppe e i dirigenti ungheresi, e non aveva seguito alcuna via popolare, democratica, o aperta.
L'imperatore lo impose alla metà austriaca del paese, i politici ungheresi alla metà magiara.
Le nazionalità minori lo consideravano una truffa legalizzata.
Ciò non di meno, il Compromesso andrebbe valutato per come concretamente funzionava; e a questo proposito non si può dire abbia funzionato male.
Il vituperato, odiato, vigliacco, difettoso, ridicolo Compromesso durò tranquillamente cinquant'anni, e com'ha scritto lo storico Macartney:
Della bontà di una torta... ci si accerta solo quando la si mangia, e a questa stregua il Compromesso, se non proprio appetitoso, almeno conteneva abbastanza vitamine per nutrire cinquanta milioni di persone per cinquant'anni.

Certo, la sopravvivenza del Compromesso era unicamente legata alla testardaggine dell'Imperatore e degli ungheresi. A ogni proposta ungherese, Francesco Giuseppe minacciava di modificare il Compromesso: fu così che i dirigenti magiari presero a considerarlo un'assicurazione del futuro del popolo ungherese. Il Compromesso aveva loro assicurato privilegi che nel “normale” Impero pre-Sadowa difficilmente avrebbero mai ottenuto.
Nella pratica, gli ungheresi rifiutavano di tornare indietro, mentre l'Imperatore rifiutava di andare avanti.
La soluzione pratica restava un Compromesso.

Generazioni di storici nazionalisti ungheresi hanno perpetrato l'immagine di un'Ungheria forte, che costretta nel Compromesso viene indebolita dal “vampiro” austriaco.
Alan Sked cita gli studi di John Komlos, The Habsburg Monarchy as a custom Union, Economic development in Austria-Hungary in the nineteenth century, che mostrano statistiche alla mano come fosse l'Ungheria a sfruttare l'Austria, crescendo economicamente solo grazie all'autarchia del Compromesso:
l'Ungheria non fu sfruttata economicamente dall'Austria; invece essa trasse considerevoli benefici dai suoi speciali legami con l'economia austriaca. L'Austria costituiva un mercato sicuro per i suoi prodotti agricoli e, cosa anche più importante, era una fonte indispensabile di capitali e di lavoro qualificato. Dal “matrimonio fra tessuti e frumento” l'Ungheria guadagnò molto più dell'Austria. A questi vantaggi fu dovuta in gran parte la mobilitazione dell'agricoltura e dell'industria ungheresi... In linea di massima è presumibile che una economia più piccola, specie se situata geograficamente in modo così sfavorevole come quella ungherese, derivi da legami di questo genere maggiori vantaggi di un'economia più ampia e più avanzata. (L'Austria, anche alla fine del nostro periodo, produceva beni e servizi per un valore doppio dell'economia ungherese, e il 44 per cento in più su base pro capite).

Esistono a fine ottocento tre stati balcanici indipendenti, da paragonare all'Ungheria: Romania, Bulgaria e Serbia. 
Ebbene, nessuno di questi tre stati sviluppa una rete ferroviaria, un'istruzione, una burocrazia, un sistema di assicurazioni e prestiti con tanta velocità quanto l'Ungheria.
A meno di non delirare sulle virtù del superiore “uomo ungherese” ne dobbiamo dedurre che l'Ungheria fosse cresciuta grazie al Compromesso e grazie all'aiuto dell'Austria.

Lo storico David F. Good, nell'opera L'ascesa economica dell'impero asburgico dal 1750 al 1914, dimostra ulteriormente i vantaggi del Comrpomesso.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, persino le regioni periferiche dell'Ungheria avevano buone reti ferroviarie.
  • 96 chilometri ogni 100000 abitanti in Transilvania, nel 1910
  • 82 chilometri ogni 100000 abitanti nella Croazia Slavonia, nel 1910
Romania, Bulgaria e Serbia aveva invece:
  • 49 chilometri ogni 100000 abitanti in Romania
  • 42 chilometri ogni 100000 abitanti in Bulgaria
  • 31 chilometri ogni 100000 abitanti in Serbia.
Meno della metà!

La variazione regionale del reddito pro-capite nell'Austria-Ungheria era minore che in Italia e Svezia; un chiaro indice che sotto la spinta dell'industria le diseguaglianze si andavano lentissimamente diradando.
David F. Good ha inoltre un'intuizione geniale, paragonando l'Austria-Ungheria agli Stati Uniti.
Superata la sorpresa, si ritrovano parecchie analogie che possono aiutarci a comprendere l'utilità del Compromesso.
Sia gli Asburgo che gli Stati Uniti avevano spaccature regionali molto forti:
  • tra Nord/Sud negli Stati Uniti
  • tra Est/Ovest nell'Austria-Ungheria
Questa divisione corrisponde in entrambi i casi a un diverso sistema sociale:
  • Schiavitù e campi di cotone nel Sud degli Stati Uniti
  • servaggio feudale nell'Est della Monarchia
A questa spaccatura sociale corrispondevano inoltre diversi sistemi politici: con l'eccezione che in America le divisioni portarono alla guerra civile, mentre in Europa vennero risolte con il Compromesso, e la spaccatura economica lentamente riassorbita nell'ultimo quarto dell'Ottocento.
In un certo senso, gli Asburgo risolsero il problema del servaggio molto più di quanto gli Americani abbiano risolto il problema della schiavitù!

Se questo paragone non vi piace, resta un fatto fondamentale: tra il 1870 e il 1913 l'economia austriaca cresceva con un tasso medio dell'1,32 per cento.
In eta edoardiana, solo, e ripeto solo, la Germania ha tassi di crescita simili.
Qualunque altro perfetto-etnicamente-omogeneo-liberale stato europeo rimane indietro.
L'Austria-Ungheria, per usare una terminologia “moderna” era in pieno boom economico.
Boom tardivo, diseguale, e presto seguito dal boom “reale” di un certo terrorista a Sarajevo... Ma pur sempre crescita economica.
E a voler infierire, l'Ungheria cresceva ancora più rapidamente, a tassi dell'1,7 per cento!
David F. Good scrive:
Presi insieme, la prestazione molto cospicua dell'Austria e il più rapido tasso di crescita dell'Ungheria implicano che la relativa arretratezza dell'impero era meno grave nel 1913 che nel 1870.

Per approfondire a dovere le tante questioni del Compromesso ci vorrebbero altri dieci articoli come questo, tra politica, esercito e altre nazionalità.
Spero se non altro d'avervi dimostrato che l'Austria-Ungheria era tutt'altro che al collasso nel 1914, e che dal punto di vista della crescita economica il Compromesso sembrava funzionare.

Nel discutere sulle simpatie dei diversi gruppi nazionali interni all'Austria-Ungheria bisogna sempre tener conto che stiamo parlando di gruppi borghesi, e di gruppi di borghesi sinceramente interessati alla politica asburgica.
L'atmosfera, il sentimento generale, l'umore tra le fabbriche e le campagne era raramente politicamente orientato. Fino allo scoppio della guerra, il popolo nella metà austriaca dell'Impero era disinteressato a questioni politiche. Gli artisti e scrittori viennesi sguazzavano nella decadenza e nel narcisismo introspettivo; alla notizia dell'assassinio di Francesco Ferdinando, gli intellettuali rimasero se non contenti, indifferenti: l'erede era universalmente odiato dalla popolazione.
Ho visto le foto di una mostra asburgica che commemorava l'anniversario del 1914, esibendo in quell'occasione le foto delle visite di Francesco Giuseppe alle periferie dell'impero. Non c'era una singola foto dove i contadini non acclamassero con piena sincerità l'Imperatore; e si accetta che il “Vecchio” era considerato con grande affetto dalle classi più povere.
Comunque, per quel che serve, le simpatie della borghesia variavano a seconda che favorissero l'alleanza con la Germania Guglielmina in funzione anti-slava, o al contrario preferissero una più stretta alleanza con la potenza zarista, o ancora rincorressero il sogno ormai impossibile dell'Alleanza dei tre Imperatori – lo Zar, l'Asburgo, e il Kaiser.
Come sempre, la situazione appariva straordinariamente incasinata:

I tedeschi erano unicamente interessati alla riunione con la Germania del Kaiser; se liberali, erano anti-russi ma non desideravano una guerra aperta contro lo zar.

- Gli ungheresi erano meno entusiasti dell'alleanza con la Germania, ma la preferivano a un'alleanza russa. Guardavano ai piccoli stati dei Balcani come possibili alleati contro l'orso dell'Est. La politica estera avrebbe dovuto concentrarsi sull'Europa orientale. 

- I cechi avrebbero voluto una collaborazione con la Russia in funzione anti-tedesca.

- Serbi e romeni non erano così contrari a una collaborazione con la Germania, ma come i cechi avrebbero preferito di gran lunga una collaborazione con la Russia.

- I polacchi, come sempre, avevano ambizioni smisurate del tutto sproporzionate ai loro mezzi: erano infatti sia anti-tedeschi, che anti-russi.

Come osserva Istvan Dioszegi, uno dei massimi storici ungheresi dell'Austria-Ungheria, a prevalere era tuttavia un'ottusa indifferenza:
Tuttavia nel nazionalismo delle popolazioni austriache prevaleva spesso, verso gli interessi imperiali e anche la politica estera, una indifferenza che aveva conseguenze pesantemente negative.

C'era un pericoloso vuoto, che sia l'esercito che l'Ungheria riempiva con proposte spesso avventate e guerrafondaie. Potete comunque osservare che in proprio nessuno dei gruppi nazionali citati c'è la minima traccia d'indipendenza: le simpatie di politica estera non comportarono mai una dissoluzione dell'Impero, che nella mente persino dei cechi e dei serbi, e dei polacchi restava una realtà ineliminabile.
Ironicamente, gli unici a pretendere una spaccatura nell'Impero erano gli ultra-nazionalisti tedeschi di von Schonerer, che desideravano la riunione dei tedeschi d'Austria con l'impero germanico degli Hohenzollern.

La politica europea nel 1914: una partita di calcio con dei ritardati in campo
Nonostante la politica estera dell'Impero tra il 1900 e il 1913 sia uno dei pochi argomenti su cui gran parte degli storici sono d'accordo, rimane un periodo complesso.
L'Ungheria gioca senza dubbio un ruolo fondamentale con Andrassy, che rappresenta l'archetipo del diplomatico abile, ma spericolato: aveva realizzato il Compromesso (1867), negoziato l'Alleanza dei Tre Imperatori (1873), modificato il Trattato di Santo Stefano nel Congresso di Berlino (1878). Aveva strappato da Bismark la Duplice Alleanza del 1879, a condizioni favorevolissime per l'Austria: se attaccata, la Germania era obbligata a soccorrerla militarmente, ma se era la Germania a venire attaccata dalla Francia, l'Austria non era vincolata a nessuna alleanza.
E tuttavia, Andrassy si muoveva più nell'ambito della politica magiara, che del più vasto interesse imperiale. In ogni sua azione, era la Russia il nemico. L'uomo era letteralmente ossessionato dalla Russia, che al contrario sarebbe potuta essere un alleata naturale, come provavano anni e anni di diplomazia sotto Metternich.
Alan Sked annota significativamente i seguenti aneddoti:
Il console prussiano a Pest riferiva che per Andrassy la Russia era “una preoccupazione continua, notte e giorno”; e un deputato ungherese lamentò che la Questione d'Oriente era per lui una “assurda infatuazione”.

Quest'ossessione di Andrassy divenne presto un'ossessione per i generali austriaci, per la corte e infine per Francesco Giuseppe stesso.
I Balcani erano l'unica area dove l'Austria potesse esercitare una politica di grande potenza; nel contempo l'imperatore era ben conscio che non poteva assolutamente annettere altri territori slavi senza modificare in modo irrimediabile l'alleanza con l'Ungheria.
A complicare la situazione, l'Impero perdeva progressivamente il controllo sulla Serbia, che divenne presto un'altra spina nel fianco per le gerarchie militari. In seguito alle guerre balcaniche (1912-13) nell'esercito si parlava apertamente di dover “liquidare” la Serbia, prima che diventasse un magnete per le popolazioni slave del sud.

In questo contesto, l'occupazione della Bosnia e Erzegovina grazie a un accordo a Berlino di Andrassy non fu poi quel trionfo che sembrava ai contemporanei.
Attribuire la Bosnia e Erzegovina all'Austria, o all'Ungheria: un dilemma insolubile, perchè avrebbe in ambo i casi capovolto all'aria un sistema di convivenza già instabile di suo.
La tarocca soluzione risultò affidare la Bosnia al Ministro delle finanze in comune tra le due metà (1878): un'idea tutt'altro che felice, considerando che vietava ai bosniaci di avere una qualsiasi cittadinanza austriaca o magiara, lasciandoli in una sorta di “limbo” coloniale.

Il trattamento della Bosnia e Erzegovina, con cui voglio concludere quest'estenuante pamphlet, non mostra il lato migliore dell'Austria-Ungheria. Non c'è vera differenza dai possedimenti coloniali, mettiamo, degli inglesi in Africa. Le modalità con cui i bosniaci venivano trattati non differivano molto dai neri dell'Africa equatoriale.
L'occupazione iniziò malamente, con il rifiuto dell'Ungheria di estendere la sua rete ferroviaria alla Bosnia, volendo infatti tutelare il porto magiaro di Fiume e la politica tariffaria delle ferrovie ungheresi.
In seguito i kmet, i contadini soggetti ai grandi proprietari terrieri maomettani non furono emancipati, mentre l'attesa riforma agraria venne rinviata a data a destinarsi.
Le tasse furono quintuplicate – una caratteristica propria di ogni colonia sui “selvaggi” - e la burocrazia passò da 120 impiegati a un esercito di 9533 burocrati (1908).
Come l'imperialismo oltremare di Francia e Inghilterra, gli Asburgo usavano una politica del divide et impera: opponevano i croati ai serbi, e ben sapendo che i serbi erano il 42 per cento della popolazione, si appoggiavano ai grandi proprietari terrieri ottomani.
Senza per altro considerare una sanguinosa guerriglia, con tanto di presidi militari in “terra straniera”...

Questa è l'opinione di Alan Sked; che presentando fatti e numeri, non posso certo contraddire.
Dal mio canto, osservo che pur con tutti questi difetti, l'occupazione asburgica portò 36 anni di pace ininterrotta, che la Bosnia non godette certo nel resto del 900'. Senza considerare che una primitiva rete di ferrovie fu comunque formata, così come una giustizia liberale, certo migliore del precedente lassismo ottomano. Si crearono infine i primi embrioni di un'industria e il tenore di vita aumentò.
Poco, certo, ma aumentò.
Un'autentica rarità: Francesco Giuseppe allegro e (quasi) sorridente
A proposito della prima guerra mondiale, e del ruolo dell'Austria-Ungheria, ho già scritto in precedenti articoli, a proposito in particolare della serie tv della BBC dedicata a Sarajevo.
L'Austria scelse di guerreggiare, e senza alcuna pressione tedesca scelse d'invadere la Serbia.
Gli avvenimenti che seguirono dimostrano quanto una guerratotale” possa rovesciare un trono, e per volontà liberale (inglese) e per l'iniziativa di piccoli gruppi nazionalisti disgregare un grande Impero multinazionale.
Dopotutto, già Francesco Giuseppe intuiva questa sorte nel 1866, quando scriveva che bisognava
resistere il più a lungo possibile, fare il proprio dovere fino all'ultimo e infine perire con onore.”

Molto bello, un “tantino romantico” (Sked).
Ma constatando i milioni morti nell'esercito austriaco, anche molto pericoloso.

Fonti: 
Grandezza e caduta dell'impero asburgico (1815-1918), di Alan Sked.
Il testo è fuori produzione, ma lo trovate con facilità in biblioteca. Il mio l'ho preso dalla Biblioteca di Storia e storia dell'Arte di Trieste.