L'uomo
comune che domanda consigli su cosa leggere a proposito di quel
periodo storico, che sia il medioevo, il rinascimento o l'ottocento,
mette sempre in crisi il saggista più disponibile.
Non
esiste un manuale che riassumi in modo esauriente mille anni di
storia, esattamente come non esiste un testo sintetico a sufficienza
d'abbracciare il XIX secolo, o comprendere con sufficiente rigore i
meccanismi del ventesimo.
Abbisognerebbe
un'intera collana, e persino così si trascurerebbero inevitabilmente
informazioni importanti. In linea generale, più un libro di storia è
ristretto a un argomento preciso, limitato nel tempo e nel luogo, più
alte sono le probabilità che sia davvero esauriente e scientifico
nel trattare la materia.
Ma
il più delle volte, chi chiede consigli su un buon libro sul
Medioevo risulta in realtà interessato agli ultimi tre secoli, e a
quell'immagine kitsch che hanno trasmesso i romanzi ottocenteschi.
Esattamente come chi chiede consigli sull'età vittoriana vorrebbe
leggere un saggio sull'Inghilterra nel 1880, e vi guarderebbe con
disprezzo se gli consigliaste un bel testo sull'evoluzione politica
della Francia post napoleone, o sull'avventura risorgimentale.
Nel
caso dell'Austria-Ungheria, neppure queste aspettative vengono
soddisfatte: lungi dal volersi informare su materiale saggistico, il
lettore si accontenta di leggere La marcia di Radetzky e dichiararsi
“esperto” di tutto le cose “austro-ungariche” senza magari
neppure conoscere la battaglia di Sadowa del 1866, e perpetuando
un'infinita lista di dannosi stereotipi.
Se
doveste domandarmi un buon testo sull'Austria-Ungheria, io
v'indirizzerei a questo Grandezza e caduta dell'Impero Asburgico 1815
– 1918 (pubblicato nel 1989), che è invece un primo step
verso degli studi seri.
In
seguito alla guerra fredda, numerosi storici dell'est, emigrati in
America dopo la seconda guerra e ferventi anticomunisti, recuperarono
lo studio della scomparsa Austria-Ungheria in chiave nostalgica.
Se
gli Asburgo non fossero caduti, allora Hitler non avrebbe trionfato.
Se
gli Asburgo non fossero caduti, allora Stalin non avrebbe
oppresso le terre dell'Europa orientale.
Il
contesto in cui scrive Alan Sked è proprio questo: ma tra gli
apologeti all'epoca abbondanti, preferisce prendere un taglio più
critico, e in tal senso ironizza spesso su chi difende Metternich
contro Churcill, proponendo paragoni politici che ora nel ventunesimo
secolo risuonano completamente grotteschi. Il compromesso di Alan Sked
– sicuramente migliore di quello austro-ungarico! – ci permette
pertanto una posizione mediata tra gli (ora) separatisti filo
asburgici e i liberali che reputano e reputavano i territori
asburgici la prigione di popoli sofferenti.
Nel
XIX secolo, l'Impero Austriaco era il secondo stato più vasto dopo
la Russia.
Nel
1848, comprendeva:
- I
territori austriaci: gli arciducati dell'Alta e Bassa Austria; i
Ducati di Stiria, Carniola e Carinzia; le Contee del Tirolo e di
Voralberg; Gorizia e Gradisca; il margraviato d'Istria; Trieste e lo
sbocco sul mare.
- I
territori della Corona ungherese: Ungheria, Croazia e Slavonia;
Fiume; il granducato di Transilvania; i confini croato-slavone e
serbo-ungheresi.
- I
territori della Corona Boema: la Boemia; il Margraviato di Moravia;
il ducato dell'Alta e Bassa Slesia.
- Il
regno Lombardo-Veneto.
- Il
Regno di Galizia e il granducato di Cracovia.
- Il
granducato di Bucovina.
- Il
regno di Dalmazia.
- Il
ducato di Salisburgo.
Un bel casino, neh? |
Se
questo vasto collage di stati e staterelli vi sembra un grande
impero, non va dimenticato di sovrapporre alla cartina politica, la
cartina geografica.
Il collage apparirà allora ancor più variegato
e bizzarro.
In
linea generale, l'Austria-Ungheria era per due terzi costituita da
montagne e colline, ben poco utili sia per la coltivazione che per
l'industria.
Nel
suo piccolo, la Boemia – una delle poche regioni fortemente
industrializzate – era separata dall'Austria-Ungheria, ma collegata
alla Germania tramite un efficiente sistema fluviale.
Il
collegamento via mare era limitato al mare Adriatico, e per di più a
un unico porto fondamentale, Trieste.
Galizia
e Bucovina erano tagliate fuori dal territorio principale
austroungarico da imponenti catene montuose.
Il
Voralberg era collegato con la produzione tessile della Svizzera e
della Svevia, ma non aveva collegamenti con i territori propriamente
austroungarici.
La
navigazione fluviale sul Danubio era universalmente ritenuta
difficile e pericolosa, mentre Trieste stessa non aveva efficaci
collegamenti ferroviari con il resto del paese – almeno fino agli
anni sessanta dell'Ottocento.
La
composizione nazionale era un allegro minestrone con a capo
l'elemento tedesco, che verrà lentamente diluito nel XIX secolo
dall'elemento slavo.
Nel
1848, Alan Sked stima su 37,5 milioni di abitanti:
- tedeschi (8 milioni)
-
magiari (5,5 milioni)
-
italiani (5 milioni)
-
cèchi (4 milioni)
-
ruteni (3 milioni)
-
romeni (2,5 milioni)
-
polacchi (2 milioni)
-
slovacchi (quasi 2 milioni)
-
serbi (1,5 milioni)
-
croati (quasi 1,5 milioni)
-
sloveni (oltre 1 milione)
-
ebrei (750000, concentrati a Vienna)
-
mezzo milione di zingari, armeni, bulgari e greci
Come
se non bastasse, Francesco Giuseppe rivendicava formalmente ex
territori asburgici persi secoli prima: la Lorena, l'Alta e Bassa
Lusazia, Kyburg e Hasburg e perfino il medievale Regno di
Gerusalemme (!).
Il
modo migliore per comprendere la geopolitica dell'Austria-Ungheria
non è di considerarla uno “stato”, quanto piuttosto un insieme
di terreni di proprietà del sovrano.
Una
persona qualunque colleziona nella sua stanza diversi mobili e
oggetti, che conserva nonostante l'apparente diversità, perché comprati e ceduti in viaggi e disavventure. Ugualmente, gli Asburgo
non possedevano uno stato, quanto piuttosto una variegata collezione
di terreni, o di popoli-souvenir, risalenti a diverse epoche e
diverse conquiste.
Come
un aristocratico spiaggiato però difficilmente vuole rinunciare a
vendere i suoi gioielli, ugualmente gli Asburgo non accettavano
nell'Ottocento di sgretolare i territori di famiglia. Così di volta
in volta, persino quando la situazione avrebbe permesso una soluzione
pacifica a patto di perdite territoriali, gli Asburgo preferivano
combattere... per conservare l'onore, ma inevitabilmente perdere.
Una composizione così variegata e complessa è il motivo per
cui è tanto interessante studiare l'Austria-Ungheria: come pesci
tropicali nell'acquario, studiare la storia dell'Austria-Ungheria è
ammirare cosa succede quando metti troppi (pesci) popoli nello stesso
territorio (boccia d'acqua).
E' guardare dall'occhio del tempo un
assurdo microcosmo di popoli ed etnie che convivono a forza, più o
meno pacificamente. E sarebbe stata un eccellente lezione per
l'Unione Europea studiarne i meccanismi ed evitarne gli errori: ma
sembra proprio che una monarchia costituzione con un Imperatore
arteriosclerotico funzioni meglio che le moderne assemblee, quando si
tratta di far ragionare più popoli.
Forse
– ma sto divagando – con tutti i loro difetti questi vecchi
monarchi avevano più a cuore l'onore che il denaro: e qui sta tutta
la differenza.
Francesco Giuseppe, foto ricolorata |
L'argomento è talmente vasto che non basterebbe certo un articolo per spiegarlo approfonditamente.
Ho
scelto pertanto tre diversi eventi, d'approfondire adeguatamente:
- Le
vittorie militari di Radetzky nel 1848, che evitarono un altrimenti
probabile tracollo degli Asburgo e immortalarono l'ottantenne (!)
generale.
- Il
concordato/compromesso (Ausgleich)
del 1867, che diede vita all'Austria-Ungheria propriamente detta. I
suoi effetti, i suoi pro e contro, la sua (scarsissima) popolarità.
- L'Austria-Ungheria
nel 1914, che nonostante le falsità tramandate nei libri di testo
era vitale, forte e in piena ascesa economica (e probabilmente
federalistica, una volta morto Francesco Giuseppe).
L'idea
che nel 1848 gli austriaci fossero preponderanti per numero e
organizzazione, e dunque che la causa italiana fosse persa “in
partenza” è un'impressione falsata da chi legge a ritroso la
storia.
Per
chi nel 1848 ci viveva, giunse come una completa e sgradita sorpresa,
che gli austriaci riuscissero a conservare il Lombardo-Veneto.
L'esito
sembrò a lungo a favore sia di Milano che Venezia, insorte con tale
rapidità da stupire persino i suoi stessi insorti.
Radetzky, che
aveva giurato non avrebbe mai abbandonato Milano, fuggiva con la coda
tra le gambe dopo soli cinque giorni di combattimenti. A Venezia i
marinai italiani erano di ovvie simpatie italiane, mentre tra gli
operai dell'Arsenale c'era un pericoloso malcontento, che sarebbe
presto sfociato in una sollevazione. L'ammiraglio Martini,
giustamente preoccupato, aveva inondato di missive Radetzky, che
diede tuttavia risposte evasive, e rifiutò di privarsi di soldati.
La conseguenza fu la perdita di Venezia, proclamata Repubblica.
Difetti
di lunga data esacerbavano una situazione per l'Austria già cattiva
di suo.
L'esercito,
mal equipaggiato e inferiore numericamente all'esercito piemontese,
viveva forti contrasti nazionali. Secondo una leggenda storiografica,
nel “malvagio” impero, le truppe erano dislocate a seconda delle
nazionalità in modo che non combattessero mai nel “loro”
territorio.
Gli
ungheresi combattevano in Italia, gli italiani in Ungheria, e così
via...
L'idea,
per quanto affascinante, conferirebbe in realtà agli Asburgo una
genialità infernale, che per (s)fortuna non possedevano. I fatti
contraddicono pienamente quest'idea: l'esercito di Radetzky aveva
numerose truppe italiane, che si ritrovavano nello sgradito ruolo di
dover combattere i loro stessi compatrioti.
Dei
61 battaglioni di fanteria di Radetzky:
-
9 erano ungheresi
-
6 cechi
-
10 slavi meridionali
-
12 austriaci
-
24 italiani
Ironia
delle ironie, il 40 per cento delle fanterie di Radetzky era
italiano, e l'attempato generale era il primo a constatare
tristemente la loro inaffidabilità:
Dove impiegarli? In prima linea? Potrebbero passare al nemico, rivolgere le armi contro di noi, e creare un vuoto molto pericoloso nel fronte di battaglia. Come riserve, minaccerebbero le mie retrovie; tenerli nelle fortezze sarebbe anche più rischioso, perché potrebbero consegnarle al nemico. L'unica cosa è frazionarli in modo da rendere possibili solo defezioni parziali e graduali; nelle circostanze peggiori potrei disarmali e sciogliere i reparti.
A
conti fatti, sia nel 1848 che nel 1914 le diverse nazionalità
dell'Impero continuarono a restare pervicacemente fedeli
all'esercito, combattendo fino alla fine. E' vero che nel 1848 i
reparti italiani avevano un alto tasso di diserzioni, ma in battaglia
combatterono con valore pari agli altri battaglioni, dimostrando che
la disciplina e (forse?) l'austriacità erano ancora valori vivi.
Nel
1918, negli ultimi mesi di guerra, l'esercito asburgico era composto
per i due terzi da quelle stesse nazionalità slave che l'avrebbero
poi smembrato; la percentuale di austriaci doc era ormai minima.
Va
anche riconosciuto a Radetzky d'aver risolto ogni diatriba tra
ungheresi e croati (slavi meridionali): mentre l'Ungheria minacciava
la rivoluzione, i soldati ungheresi erano altrettanto inaffidabili
degli italiani. Il sostegno croato, dal suo canto, era invece
ambiguo, e mirava a strappare forti concessioni autonomiste dalla
monarchia.
Con
un esercito malandato, Radetzky doveva anche fronteggiare le
rimostranze di Vienna: dopo aver perso Milano e Venezia il generale
era caduto in disgrazia presso la corte; i più pretendevano una
soluzione pacifica, che mirasse a cedere la Lombardia conservando il
Veneto.
Gli
accordi tra Londra, insorti Lombardi, Piemonte e Austria risultarono
tuttavia impossibili. Non si riusciva a separare i lombardi dai
piemontesi, mentre dal suo canto l'Inghilterra, guidata da
Palmerston, non mediava affatto tra le parti in causa, ma favoriva
apertamente gli italiani.
Giocò
qui un ruolo decisivo la sicurezza dei lombardi, ormai convinti
d'aver vinto la guerra.
Presa
Milano, si dava per scontato il successo della rivoluzione.
Dal
punto di vista geografico, tuttavia, Radetzky era fuggito sì, ma in
una posizione strategica, detta del Quadrilatero. Era una robusta
posizione strategica con i quattro angoli a vertice con le piazze
fortificate di Verona, Mantova, Legnago e Peschiera.
Nel
frattempo, Radetzky non era ancora stato informato dei tentativi
diplomatici.
Il
rubizzo generale non prese molto bene la notizia:
Tratterò, disse al ministro della Guerra, conte Latour, soltanto con la spada in pugno.
All'idea
di una soluzione diplomatica, Radetzky minacciava di abbandonare il
comando di generale:
Come fedele suddito, io non posso far altro che obbedire. Ma in tal caso sarei costretto a deporre il comando.
Quando
gli si propose di negoziare lui stesso la tregua, scrisse:
Siamo caduti in basso, ma perdiò non ancora così in basso.
Intanto,
la situazione verteva lentamente a favore del generale.
Carlo
Alberto non immaginava di dover invadere la Lombardia; prima della
dichiarazione di guerra l'esercito si preparava a reprimere una
rivolta a Genova.
Di conseguenza l'esercito non aveva mappe, tende,
cavalli, e provviste sufficienti.
Carlo
Alberto peggiorò la situazione tassando nelle regioni conquistate i
contadini, che gli diedero il nomignolo di “re dei signori”. In
sostanza Carlo Alberto mirava a ingraziarsi la borghesia e
l'aristocrazia lombarda, pesantemente tassata dal governo asburgico.
Nel
luglio del 1848, Carlo Alberto inoltre era ingenuamente convinto che
le cinque giornate di Milano avessero già sfiancato alla morte
l'esercito di Radetzky. Pertanto, non cercò minimamente di attaccare
il feldmaresciallo, già di suo saldamente arroccato nel
Quadrilatero.
Oltre
che lento nel cervello, Carlo Alberto temeva che le tendenze
repubblicane diffuse tra i patrioti si diffondessero dal Veneto alla
Lombardia e al Piemonte. Vietò quindi ai volontari lombardi di
tagliare agli austriaci le vie di rifornimento attraverso il Tirolo,
e non chiese minimamente aiuto ai francesi.
Solo
con molta riluttanza permise alla Legione polacca, del poeta Adam
Mickiewicz, di partecipare alle battaglie e di reclutare entusiasti
volontari dai prigionieri di guerra austriaci.
In luglio, di fronte al tremebondo Carlo, Radetzky prendeva
l'iniziativa: il 24-25 spazzava via l'esercito piemontese
nella battaglia di Custoza:
Una vittoria decisiva è stata il risultato di questa calda giornata.
Il
6 agosto, inneggiato dai contadini lombardi, rientrava a Milano.
Nel
marzo 1849, Carlo Alberto ci riprovava, e Radetzky lo massacrava
nuovamente nel giro di una settimana. Nel frattempo gli ungheresi
venivano sconfitti e persino la coraggiosa Repubblica di Venezia
s'arrendeva nell'agosto del 1849.
Spero
che a questo punto della narrazione abbiate compreso quanto la
vicenda italiana fosse in realtà in bilico. Vienna, la dinastia, la
burocrazia erano tutte favorevoli a una soluzione pacifica. Gli
italiani davano per scontato un'annessione rapida e indolore, mentre
gli inglesi preferivano ovviamente una potenza liberale agli Asburgo.
In
ultima analisi, se la Rivoluzione fu scongiurata, fu per
l'incredibile testardaggine di Radetzky, e del suo genio militare.
Custoza, carica del Genova Cavalleria |
Dopo
il 1849, Radetzky modellò anche il governo del Lombardo-Veneto.
Il
feldmaresciallo non dava per perdute la fedeltà di quelle regioni, e
sperava di riconquistare il popolo alla causa asburgica attraverso la
lotta di classe.
Radetzky
aveva correttamente osservato come la rivoluzione scaturisse dalla
nobiltà e dalla borghesia industriale lombarda, e non dai contadini.
Di conseguenza, argomentava di poter riconquistare il popolo tassando
i nobili e risparmiando i contadini.
Scriveva
infatti, rivolgendosi a Schwarzenberg:
Umiliare i ricchi refrattari, proteggere i cittadini fedeli, ma sopratutto esaltare la classi contadine più povere come in Galizia dovrebbe essere d'ora in avanti il principio ispiratore del governo nel Lombardo- Veneto.
Alan
Sked osserva che il suo capo di Stato Maggiore, il generale Hess, era
ancora più esplicito:
Il popolo ci ama; i nobili ci odiano; perciò dobbiamo annientarli.
Una
forma di paternalismo, un po' reazionaria. Ma personalmente, un'idea
che avrei anch'io appoggiato. Negli anni 50' e 60', la nobiltà
lombarda fu così spietatamente tassata, nel tentativo (fallito) di
eliminarne ogni base economica e sociale.
Usando
come scusa l'insurrezione milanese del febbraio 1853, il governi
confiscò le terre nobiliari.
I
nobili lombardi accedevano alla corte solo se imparavano il tedesco,
ma ovviamente per orgoglio nazionale la nobiltà lombarda conosceva
solo l'italiano.
Radetzky
esagerò a tal punto che Palmerston lo accusò di “comunismo”!
Alan
Sked annota:
Palmerston disse che la sua politica era odiosamente oppressiva, enunciava “una dottrina propria soltanto dei discepoli del comunismo”, ed era “sovvertitrice delle fondamenta stesse dell'ordine sociale”
Radetzky
comunista... In fondo è un complimento.
Purtroppo,
la politica del feldmaresciallo non funzionava: danneggiando la
nobiltà, danneggiava anche l'economia della regione e per sua
diretta conseguenza anche gli strati inferiori. Inoltre, nonostante
tutti gli sforzi, i contadini restarono sospettosi di ogni governo:
temevano che dietro alla politica di Radetzky stesse in agguato la
coscrizione obbligatoria per l'esercito - autentico spauracchio per
le famiglie contadine.
Trieste sotto l'Austria-Ungheria |
Non
dovrebbe sorprendere che il Compromesso che seguì alla sconfitta a
Sadowa nel 1866 era universalmente deprecato da ogni singola
nazionalità dell'Impero Asburgico.
Francesco
Giuseppe lo concluse in fretta e furia, senz'alcuna attenzione ai
dettagli, ma pressato dall'ansia di raggiungere un accordo.
Dal
punto di vista legislativo, l'accordo era tra Francesco Giuseppe e i
dirigenti ungheresi, e non aveva seguito alcuna via popolare,
democratica, o aperta.
L'imperatore
lo impose alla metà austriaca del paese, i politici ungheresi alla
metà magiara.
Le
nazionalità minori lo consideravano una truffa legalizzata.
Ciò
non di meno, il Compromesso andrebbe valutato per come concretamente
funzionava; e a questo proposito non si può dire abbia funzionato
male.
Il
vituperato, odiato, vigliacco, difettoso, ridicolo Compromesso durò
tranquillamente cinquant'anni, e com'ha scritto lo storico Macartney:
Della bontà di una torta... ci si accerta solo quando la si mangia, e a questa stregua il Compromesso, se non proprio appetitoso, almeno conteneva abbastanza vitamine per nutrire cinquanta milioni di persone per cinquant'anni.
Certo,
la sopravvivenza del Compromesso era unicamente legata alla
testardaggine dell'Imperatore e degli ungheresi. A ogni proposta
ungherese, Francesco Giuseppe minacciava di modificare il
Compromesso: fu così che i dirigenti magiari presero a considerarlo
un'assicurazione del futuro del popolo ungherese. Il Compromesso
aveva loro assicurato privilegi che nel “normale” Impero
pre-Sadowa difficilmente avrebbero mai ottenuto.
Nella
pratica, gli ungheresi rifiutavano di tornare indietro, mentre
l'Imperatore rifiutava di andare avanti.
La
soluzione pratica restava un Compromesso.
Generazioni
di storici nazionalisti ungheresi hanno perpetrato l'immagine di
un'Ungheria forte, che costretta nel Compromesso viene indebolita dal
“vampiro” austriaco.
Alan
Sked cita gli studi di John Komlos, The Habsburg Monarchy as a custom
Union, Economic development in Austria-Hungary in the nineteenth
century, che mostrano statistiche alla mano come fosse l'Ungheria a
sfruttare l'Austria, crescendo economicamente solo grazie
all'autarchia del Compromesso:
l'Ungheria non fu sfruttata economicamente dall'Austria; invece essa trasse considerevoli benefici dai suoi speciali legami con l'economia austriaca. L'Austria costituiva un mercato sicuro per i suoi prodotti agricoli e, cosa anche più importante, era una fonte indispensabile di capitali e di lavoro qualificato. Dal “matrimonio fra tessuti e frumento” l'Ungheria guadagnò molto più dell'Austria. A questi vantaggi fu dovuta in gran parte la mobilitazione dell'agricoltura e dell'industria ungheresi... In linea di massima è presumibile che una economia più piccola, specie se situata geograficamente in modo così sfavorevole come quella ungherese, derivi da legami di questo genere maggiori vantaggi di un'economia più ampia e più avanzata. (L'Austria, anche alla fine del nostro periodo, produceva beni e servizi per un valore doppio dell'economia ungherese, e il 44 per cento in più su base pro capite).
Esistono
a fine ottocento tre stati balcanici indipendenti, da paragonare
all'Ungheria: Romania, Bulgaria e Serbia.
Ebbene, nessuno di questi
tre stati sviluppa una rete ferroviaria, un'istruzione, una
burocrazia, un sistema di assicurazioni e prestiti con tanta velocità
quanto l'Ungheria.
A
meno di non delirare sulle virtù del superiore “uomo ungherese”
ne dobbiamo dedurre che l'Ungheria fosse cresciuta grazie al
Compromesso e grazie all'aiuto dell'Austria.
Lo
storico David F. Good, nell'opera L'ascesa economica dell'impero
asburgico dal 1750 al 1914, dimostra ulteriormente i vantaggi del
Comrpomesso.
Alla
vigilia della prima guerra mondiale, persino le regioni periferiche
dell'Ungheria avevano buone reti ferroviarie.
-
96 chilometri ogni 100000 abitanti in Transilvania, nel 1910
-
82 chilometri ogni 100000 abitanti nella Croazia Slavonia, nel 1910
Romania,
Bulgaria e Serbia aveva invece:
-
49 chilometri ogni 100000 abitanti in Romania
-
42 chilometri ogni 100000 abitanti in Bulgaria
-
31 chilometri ogni 100000 abitanti in Serbia.
Meno
della metà!
La
variazione regionale del reddito pro-capite nell'Austria-Ungheria era
minore che in Italia e Svezia; un chiaro indice che sotto la spinta
dell'industria le diseguaglianze si andavano lentissimamente
diradando.
David
F. Good ha inoltre un'intuizione geniale, paragonando
l'Austria-Ungheria agli Stati Uniti.
Superata
la sorpresa, si ritrovano parecchie analogie che possono aiutarci a
comprendere l'utilità del Compromesso.
Sia
gli Asburgo che gli Stati Uniti avevano spaccature regionali molto
forti:
-
tra Nord/Sud negli Stati Uniti
-
tra Est/Ovest nell'Austria-Ungheria
Questa
divisione corrisponde in entrambi i casi a un diverso sistema
sociale:
-
Schiavitù e campi di cotone nel Sud degli Stati Uniti
-
servaggio feudale nell'Est della Monarchia
A
questa spaccatura sociale corrispondevano inoltre diversi sistemi
politici: con l'eccezione che in America le divisioni portarono alla
guerra civile, mentre in Europa vennero risolte con il Compromesso, e
la spaccatura economica lentamente riassorbita nell'ultimo quarto
dell'Ottocento.
In
un certo senso, gli Asburgo risolsero il problema del servaggio molto
più di quanto gli Americani abbiano risolto il problema della
schiavitù!
Se
questo paragone non vi piace, resta un fatto fondamentale: tra il
1870 e il 1913 l'economia austriaca cresceva con un tasso medio
dell'1,32 per cento.
In
eta edoardiana, solo, e ripeto solo, la Germania ha tassi di crescita
simili.
Qualunque
altro perfetto-etnicamente-omogeneo-liberale stato europeo rimane
indietro.
L'Austria-Ungheria,
per usare una terminologia “moderna” era in pieno boom economico.
Boom
tardivo, diseguale, e presto seguito dal boom “reale” di un certo
terrorista a Sarajevo... Ma pur sempre crescita economica.
E
a voler infierire, l'Ungheria cresceva ancora più rapidamente, a
tassi dell'1,7 per cento!
David
F. Good scrive:
Presi insieme, la prestazione molto cospicua dell'Austria e il più rapido tasso di crescita dell'Ungheria implicano che la relativa arretratezza dell'impero era meno grave nel 1913 che nel 1870.
Per
approfondire a dovere le tante questioni del Compromesso ci
vorrebbero altri dieci articoli come questo, tra politica, esercito e
altre nazionalità.
Spero
se non altro d'avervi dimostrato che l'Austria-Ungheria era
tutt'altro che al collasso nel 1914, e che dal punto di vista della
crescita economica il Compromesso sembrava funzionare.
Nel
discutere sulle simpatie dei diversi gruppi nazionali interni
all'Austria-Ungheria bisogna sempre tener conto che stiamo parlando
di gruppi borghesi, e di gruppi di borghesi sinceramente interessati
alla politica asburgica.
L'atmosfera,
il sentimento generale, l'umore tra le fabbriche e le campagne era
raramente politicamente orientato. Fino allo scoppio della guerra, il
popolo nella metà austriaca dell'Impero era disinteressato a
questioni politiche. Gli artisti e scrittori viennesi sguazzavano
nella decadenza e nel narcisismo introspettivo; alla notizia
dell'assassinio di Francesco Ferdinando, gli intellettuali rimasero
se non contenti, indifferenti: l'erede era universalmente odiato
dalla popolazione.
Ho
visto le foto di una mostra asburgica che commemorava l'anniversario
del 1914, esibendo in quell'occasione le foto delle visite di
Francesco Giuseppe alle periferie dell'impero. Non c'era una singola
foto dove i contadini non acclamassero con piena sincerità
l'Imperatore; e si accetta che il “Vecchio” era considerato con
grande affetto dalle classi più povere.
Comunque,
per quel che serve, le simpatie della borghesia variavano a seconda
che favorissero l'alleanza con la Germania Guglielmina in funzione
anti-slava, o al contrario preferissero una più stretta alleanza con
la potenza zarista, o ancora rincorressero il sogno ormai impossibile
dell'Alleanza dei tre Imperatori – lo Zar, l'Asburgo, e il Kaiser.
Come
sempre, la situazione appariva straordinariamente incasinata:
- I
tedeschi erano unicamente interessati alla riunione con la Germania
del Kaiser; se liberali, erano anti-russi ma non desideravano una
guerra aperta contro lo zar.
- Gli
ungheresi erano meno entusiasti dell'alleanza con la Germania, ma la
preferivano a un'alleanza russa. Guardavano ai piccoli stati dei
Balcani come possibili alleati contro l'orso dell'Est. La politica
estera avrebbe dovuto concentrarsi sull'Europa orientale.
- I
cechi avrebbero voluto una collaborazione con la Russia in funzione
anti-tedesca.
- Serbi
e romeni non erano così contrari a una collaborazione con la
Germania, ma come i cechi avrebbero preferito di gran lunga una
collaborazione con la Russia.
- I
polacchi, come sempre, avevano ambizioni smisurate del tutto
sproporzionate ai loro mezzi: erano infatti sia anti-tedeschi, che
anti-russi.
Come
osserva Istvan Dioszegi, uno dei massimi storici ungheresi
dell'Austria-Ungheria, a prevalere era tuttavia un'ottusa
indifferenza:
Tuttavia nel nazionalismo delle popolazioni austriache prevaleva spesso, verso gli interessi imperiali e anche la politica estera, una indifferenza che aveva conseguenze pesantemente negative.
C'era
un pericoloso vuoto, che sia l'esercito che l'Ungheria riempiva con
proposte spesso avventate e guerrafondaie. Potete comunque osservare
che in proprio nessuno dei gruppi nazionali citati c'è la minima
traccia d'indipendenza: le simpatie di politica estera non
comportarono mai una dissoluzione dell'Impero, che nella mente
persino dei cechi e dei serbi, e dei polacchi restava una realtà
ineliminabile.
Ironicamente,
gli unici a pretendere una spaccatura nell'Impero erano gli
ultra-nazionalisti tedeschi di von Schonerer, che desideravano la
riunione dei tedeschi d'Austria con l'impero germanico degli
Hohenzollern.
La politica europea nel 1914: una partita di calcio con dei ritardati in campo |
Nonostante
la politica estera dell'Impero tra il 1900 e il 1913 sia uno dei
pochi argomenti su cui gran parte degli storici sono d'accordo,
rimane un periodo complesso.
L'Ungheria
gioca senza dubbio un ruolo fondamentale con Andrassy,
che rappresenta l'archetipo del diplomatico abile, ma spericolato:
aveva realizzato il Compromesso (1867), negoziato l'Alleanza dei Tre
Imperatori (1873), modificato il Trattato di Santo Stefano nel
Congresso di Berlino (1878). Aveva strappato da Bismark la Duplice
Alleanza del 1879, a condizioni favorevolissime per l'Austria: se
attaccata, la Germania era obbligata a soccorrerla militarmente, ma
se era la Germania a venire attaccata dalla Francia, l'Austria non
era vincolata a nessuna alleanza.
E
tuttavia, Andrassy si muoveva più nell'ambito della politica
magiara, che del più vasto interesse imperiale. In ogni sua azione,
era la Russia il nemico. L'uomo era letteralmente ossessionato dalla
Russia, che al contrario sarebbe potuta essere un alleata naturale,
come provavano anni e anni di diplomazia sotto Metternich.
Alan
Sked annota significativamente i seguenti aneddoti:
Il console prussiano a Pest riferiva che per Andrassy la Russia era “una preoccupazione continua, notte e giorno”; e un deputato ungherese lamentò che la Questione d'Oriente era per lui una “assurda infatuazione”.
Quest'ossessione
di Andrassy divenne presto un'ossessione per i generali austriaci,
per la corte e infine per Francesco Giuseppe stesso.
I
Balcani erano l'unica area dove l'Austria potesse esercitare una
politica di grande potenza; nel contempo l'imperatore era ben conscio
che non poteva assolutamente annettere altri territori slavi senza
modificare in modo irrimediabile l'alleanza con l'Ungheria.
A
complicare la situazione, l'Impero perdeva progressivamente il
controllo sulla Serbia, che divenne presto un'altra spina nel fianco
per le gerarchie militari. In seguito alle guerre balcaniche
(1912-13) nell'esercito si parlava apertamente di dover “liquidare”
la Serbia, prima che diventasse un magnete per le popolazioni slave
del sud.
In
questo contesto, l'occupazione della Bosnia e Erzegovina grazie a un
accordo a Berlino di Andrassy non fu poi quel trionfo che sembrava ai
contemporanei.
Attribuire
la Bosnia e Erzegovina all'Austria, o all'Ungheria: un dilemma
insolubile, perchè avrebbe in ambo i casi capovolto all'aria un
sistema di convivenza già instabile di suo.
La
tarocca soluzione risultò affidare la Bosnia al Ministro delle
finanze in comune tra le due metà (1878): un'idea tutt'altro che
felice, considerando che vietava ai bosniaci di avere una qualsiasi
cittadinanza austriaca o magiara, lasciandoli in una sorta di
“limbo” coloniale.
Il
trattamento della Bosnia e Erzegovina, con cui voglio concludere
quest'estenuante pamphlet, non mostra il lato migliore
dell'Austria-Ungheria. Non c'è vera differenza dai possedimenti
coloniali, mettiamo, degli inglesi in Africa. Le modalità con cui i
bosniaci venivano trattati non differivano molto dai neri dell'Africa
equatoriale.
L'occupazione
iniziò malamente, con il rifiuto dell'Ungheria di estendere la sua
rete ferroviaria alla Bosnia, volendo infatti tutelare il porto
magiaro di Fiume e la politica tariffaria delle ferrovie ungheresi.
In
seguito i kmet,
i contadini soggetti ai grandi proprietari terrieri maomettani non
furono emancipati, mentre l'attesa riforma agraria venne rinviata a
data a destinarsi.
Le
tasse furono quintuplicate – una caratteristica propria di ogni
colonia sui “selvaggi” - e la burocrazia passò da 120 impiegati
a un esercito di 9533 burocrati (1908).
Come
l'imperialismo oltremare di Francia e Inghilterra, gli Asburgo
usavano una politica del divide
et impera:
opponevano i croati ai serbi, e ben sapendo che i serbi erano il 42
per cento della popolazione, si appoggiavano ai grandi proprietari
terrieri ottomani.
Senza
per altro considerare una sanguinosa guerriglia, con tanto di presidi
militari in “terra straniera”...
Questa
è l'opinione di Alan Sked; che presentando fatti e numeri, non posso
certo contraddire.
Dal
mio canto, osservo che pur con tutti questi difetti, l'occupazione
asburgica portò 36 anni di pace ininterrotta, che la Bosnia non
godette certo nel resto del 900'. Senza considerare che una primitiva
rete di ferrovie fu comunque formata, così come una giustizia
liberale, certo migliore del precedente lassismo ottomano. Si
crearono infine i primi embrioni di un'industria e il tenore di vita
aumentò.
Poco,
certo, ma aumentò.
Un'autentica rarità: Francesco Giuseppe allegro e (quasi) sorridente |
A
proposito della prima guerra mondiale, e del ruolo
dell'Austria-Ungheria, ho già scritto in precedenti articoli, a
proposito in particolare della serie tv della BBC dedicata a Sarajevo.
L'Austria
scelse di guerreggiare, e senza alcuna pressione tedesca scelse
d'invadere la Serbia.
Gli
avvenimenti che seguirono dimostrano quanto una guerra “totale”
possa rovesciare un trono, e per volontà liberale (inglese) e per
l'iniziativa di piccoli gruppi nazionalisti disgregare un grande
Impero multinazionale.
Dopotutto,
già Francesco Giuseppe intuiva questa sorte nel 1866, quando
scriveva che bisognava
“resistere il più a lungo possibile, fare il proprio dovere fino all'ultimo e infine perire con onore.”
Molto
bello, un “tantino romantico” (Sked).
Ma
constatando i milioni morti nell'esercito austriaco, anche molto
pericoloso.
Fonti:
Grandezza e caduta dell'impero asburgico (1815-1918), di Alan Sked.
Il testo è fuori produzione, ma lo trovate con facilità in biblioteca. Il mio l'ho preso dalla Biblioteca di Storia e storia dell'Arte di Trieste.
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