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martedì 3 luglio 2018

New Camelot, di Lorenzo Davia: quando il fantasy diventa urban


New Camelot è il perfetto modello di una città, non il modello di una città perfetta. 
Scriveva così, riferendosi all'immane megalopoli, il sociologo Lewis Mumford, descrivendo bene la natura selvaggia, caotica e multi culturale di New Camelot. 
La città dei mulini satanici di William Blake, dove masse di umili lavoratori lavorano sotto la sferza delle oligarchie industriali, così come la città delle mille possibilità, dove all'angolo di ogni via potrebbe aspettare in agguato tanto il successo quanto il coltello di un teppista qualunque. 
New Camelot, New Camelot, città che non dorme mai: luogo di travolgenti successi e altrettanto travolgenti cadute, città dalle avveniristiche tecnologie e dalle ataviche magie. 
Le proprie case distrutte, i propri ambienti inquinati e sfigurati da una selvaggia industrializzazione: tutte le razze fantastiche si sono qui riunite, alla disperata ricerca di un lavoro, di una possibilità, di una vendetta. 
Gli elfi dominano gli ultimi livelli, nella qualità di dirigenti aziendali, di broker, di impiegati corporativi: una collocazione naturale per una razza di sociopatici opportunisti. 
Scendendo ai livelli inferiori, un melting pot di razze e creature fantastiche gareggia a farsi strada, a diventare qualcuno, ognuno con un sogno da realizzare. Centauri della polizia presidiano le strade, teste di cuoio orchesche rompono le teste di manifestanti goblin, nani meccanici aggiustano auto volanti e dovunque, dai bassifondi ai grattacieli corporativi, la razza umana supera tutti nel coraggio e nella stoltezza. Ma ognuno, in qualche modo, è convinto di avere una possibilità...
Perchè New Camelot è una città magica. Letteralmente. 

lunedì 5 marzo 2018

Visions, di Clive Barker: carceri, complotti e leggende metropolitane


Quinto e penultimo volume dei “Libri di Sangue”.
Stavo riflettendo sulle precedenti (ri)letture barkeriane e ho concluso che Barker mescola tre diverse tecniche, in quello che scrive.
In primo luogo, Barker è ovviamente uno scrittore ricercato, senza timore di usare a fondo il dizionario
Quest'aspetto, penalizzato dalle vecchie traduzioni, risalta nelle descrizioni e nella generale atmosfera raffinata dei suoi racconti, quand'anche abbondano budella strappate e morti violente. “Testacruda Rex” è un ottimo esempio.
In secondo luogo, Barker è generalmente disinteressato alle metafore spicce, ai simbolismi insistititi, al racconto come messaggio, che sia morale, politico, intellettuale e così via. Quanto ricerca e ama è il potere dell'immaginazione, che gli permette nel contesto delle sue opere un gusto per lo strano e il bizzarro senza giustificazione alcuna. 
Si può criticare quest'elemento come cattiva scrittura e teoricamente sono d'accordo nelle critiche di S. T. Joshi.
In terzo luogo, Barker è un autore romantico e come tale commenta e guarda da dietro le quinte, nelle vesti del demiurgo onnisciente le vicende dei suoi meschini protagonisti. 
I personaggi delle sue storie inoltre agiscono a loro volta guidati da un sacro fervore; quando il soprannaturale si manifesta raramente si scivola nel volgare o nella narrativa per ragazzi, dove il virile protagonista “accetta” l'orrore con motosega e fucile a canne mozze. L'incontro con il soprannaturale genera piuttosto una trasformazione, con punti di contatto nell'estasi religiosa.
E tuttavia lo stile di Barker non scivola mai nella volgarità, sebbene concedendo tutte le scene di sesso e di gore che si potrebbe aspettare dalle sinossi. Pur con il sacro fervore e il romanticismo innegabile dell'autore, c'è un certo distacco, un'ironia, un humor asciutto e tagliente.
Una strana combinazione.

venerdì 26 agosto 2016

Ivo Andric, Il ponte sulla Drina


1516. Tributo bambino al Sultano, futuro giannizzero e visir, Sokullu Mehmed Pasha vede dalla sua cesta passare il fiume Drina. Il traghetto lo traversa lento, ondeggiando paurosamente tra i flutti bianchi di spuma. Nella mente del bambino sorge una meravigliosa visione: un ponte di pietra bianca, collegamento tra Serbia e Bosnia, che rivoluzioni la vita della piccola cittadina di Visegrad.
1571. Sotto la guida del crudele consigliere Abigaga, inizia la costruzione del ponte sulla Drina.
1573. Abigaga tiranneggia gli operai, li maltratta. La costruzione va a rilento. Un anziano serbo, che vede nel ponte un'infamia dei turchi e dell'Islam, lo sabota di notte. E' catturato e impalato.

Credo sia nella scena dell'impalamento che il romanzo di Ivo Andric, Il ponte sulla Drina, mostra davvero di che pasta è fatto. Fino a quel momento il romanzo poteva infatti sembrare un'allegra scampagnata, una rievocazione con lacrimuccia all'occhio del passato bosniaco dello scrittore, nato proprio a Visegrad. Il romanzo infatti parte con un incipit degno dei Promessi sposi, con un'ampia descrizione geografica del luogo e dei suoi abitanti nell'800. Già tuttavia al momento di descrivere il ponte, un gusto per il sangue e il macabro trapela a spezzare l'eccessiva nostalgia, il rischio di una descrizione pastorale e artefatta:

venerdì 29 gennaio 2016

Providence 01: The Yellow Sign, di Alan Moore. Annotazioni, analisi e traduzioni.


Ultimamente la saggistica mi interessa molto di più che la narrativa. Non capisco da quando è successo; dopo aver infatti scritto la tesi mi aspettavo un certo senso di disgusto all'idea di tornare a leggere saggi di storia, ma al contrario ne ho ricavato uno sprone ad approfondire sempre di più determinati argomenti di mio interesse. Inoltre, per quanto suoni paradossale, trovo che i saggi in lingua inglese siano molto più leggibili dei romanzi: certo, è in parte a riprova di un livello molto basso della prosa universitaria oltreoceano, però è così. Sempre più di frequente con molti romanzi che nemmeno cito qui sul blog, sopravviene la noia. Non sono scritti per forza male, o non sono mal costruiti: tuttavia dover ogni volta leggere “del giovane protagonista”, contro “l'antagonista”, con i colpi di scena presenti dove devono esserci e il percorso di crescita dell'eroe, e il dialogone finale... Non sono i difetti che mi fanno sbadigliare (quelli piuttosto mi fanno incazzare...), è l'estrema prevedibilità della struttura narrativa, con quel dato eroe, quel dato “nemico”, quel dato svolgimento.

La serie di Providence, di Alan Moore, mi ha finalmente riportato a una narrativa in grado di combattere ad armi pari con la saggistica. Per la prima volta da qualche mese ho avuto l'impressione di leggere un qualcosa che di fronte alla saggistica non si rintanasse nei soliti schemi, ma anzi le desse battaglia, senza perdere colpi. Providence, in tal senso, mi ha soddisfatto: è una serie solida, incredibilmente profonda e complessa, dove (finalmente!) trovo carne al fuoco su cui discettare.

La serie (composta di dodici capitoli) segue le vicissitudini di Robert Black, giornalista del New York Herald nel 1919. Il nostro giovane protagonista, emigrato a New York dalla cittadina di Milwaukee, indagando per conto del suo giornale su alcuni fatti di cronaca, conosce il Dr Alvarez, che in seguito ad alcune sue domande su un testo ritenuto maledetto, Sous le Monde, gli rivela il primo gradino di un mondo sotterraneo e nascosto, di testi antichi e strani rituali.
Black, ancora traumatizzato dal suicidio del fidanzato Jonathan Russell, ne approfitta per chiedere un permesso al direttore dell'Herald e imbarcarsi in un'investigazione ai limiti del soprannaturale tra il New England e il Massachusetts... il suo intento è di scrivere un romanzo che documenti la storia del soprannaturale nell'America pre moderna.

Alan Moore chiaramente escogita Robert Black come una (voluta) confusione tra caratteri antitetici di H.P. Lovecraft: da un lato, è un immigrato ebreo, omosessuale; dall'altro però ricorda Lovecraft perchè è un giovane scrittore insicuro, timido, fobico, con ambizioni di romanziere “impegnato” che non riesce però a concretizzare niente al di là della narrativa breve.

A questo personaggio già in contraddizione, Moore aggiunge un'ambientazione e una storia che gioca abilmente con i racconti brevi di Lovecraft senza però riconoscervene il canone, ma anzi citandolo con lievi correzioni che in apparenza innocue distorcono l'edificio “classico” lovecraftiano fino a farlo crollare. Un po' come quando rimuoviamo un sassolino da una montagna e la vediamo crollare in una valanga di schegge e sassi. Come se non bastasse, il sassolino tolto è dato proprio da quegli elementi che in Lovecraft sono sempre stati più controversi: nei quattro episodi finora tradotti compaiono infatti il meticciato e la purezza di sangue, gli immigrati, l'occulto e sopratutto il “rimosso”, cioè il sesso, le donne e nel caso del protagonista stesso, l'elemento antisemita.

Fare leva su questi elementi per atteggiarsi ad autore rivoluzionario nel frattempo confezionando l'ennesima opera becera e banale è già stato fatto tante volte. Sedicenti liberal ansiosi di dimostrare la loro (inesistente) superiorità di vedute rispetto a quel brutto razzista di Lovecraft hanno tante volte inserito a forza gli elementi che reputavano “mancassero”. Il risultato è sempre stato rozzo, un'operazione di chirurgia che degenerava in un macello. Perchè al di là di una non specificata “superiorità culturale”, non c'è alcun lavoro ne di documentazione, ne di analisi del corpus di testi su cui si vorrebbe operare. E il risultato è sempre bambinesco. 

Non così con Providence. 
Sarebbe superfluo citare il lavoro di documentazione, che costituirebbe già una storia a sé. Sopratutto, però, è magistrale come Moore sappia creare un'opera fobica, che sembra concentrare in vignette calme e lente una terribile ansia. Providence può venir letto sia come sovversione del canone lovecraftiano, sia paradossalmente come una sua dimostrazione. Questo perchè il fumetto giunge a incarnare tutte le fobie che Lovecraft aveva, concentrandole nel nevrastenico protagonista, che è in tal senso un vero intellettuale nella tradizione dei Miti. Se nel Neonomicon c'era una violenza di fondo, una forzatura rispetto ai testi di Lovecraft, qui in Providence la forzatura c'è, ma non si vede: proseguendo con l'analogia Moore ha scassinato il canone lovecraftiano senza lasciare la minima traccia, nel più assoluto silenzio.
E nella casa/canone che ha scassinato ha lasciato però un vero casino di mobili spaccati, materassi svuotati e insomma un canone completamente rivoltato a metà. Ma il modo in cui l'ha fatto! Ah, un furto con scasso raffinatissimo, poco da dire. 

L'edizione della Panini Comics raggruppa le prime quattro puntate.
Considerando che altre case editrici per l'identico prezzo avrebbero avuto la faccia tosta di proporre un volume in formato piccolo, ritengo che tutto sommato ci è andata bene. La copertina è solida, le pagine ampie e spaziose danno modo di mostrare i dettagli delle vignette, invero minuziosi. In coda al fumetto, ci sono le pagine con le copertine alternative, così come un breve saggio di Antonio Solinas, davvero ben fatto rispetto alla media del genere.

Le note che seguono sono in parte mie, in parte tradotte dall'ottimo sito Facts in the case of Alan Moore's Providence. Mi sono limitato alle annotazioni ufficiali ufficiali, evitando di tradurre le annotazioni relative ai testi in appendice a ogni singolo numero (Il Common Place Book, di Robert Black). Se volete davvero scendere in profondità vi consiglio il sito in lingua inglese e se volete proprio perdervi nella Tana del Bianconiglio, i commenti deliranti in calce a ogni articolo.
La traduzione della Panini Comics ha mescolato parole inglesi e italiane, con rese alterne. Avrei infatti preferito che si traducesse il titolo ad esempio, The Yellow Sign, così come alcuni degli slang newyorkesi risultano va da sé traducibili solo perdendo la connotazione locale. Vedremo come va con i numeri 5-8.
L'idea è di compilare, come avevo fatto con Nemo, delle note a piè di pagina per tutti e quattro i capitoli presenti in questa prima raccolta. Fatemi sapere che vi sembra e se l'idea suscita interesse, è un lavoraccio...


The Yellow Sign 

mercoledì 12 febbraio 2014

Namazu: terremoti e mitologia giapponese


E' nel 1853 che la flotta americana entra nella baia di Edo (Odierna Tokyo), costringendo il Giappone a colpi di cannone a uscire dal suo isolazionismo ormai stagnante e secolare. A ben pensarci, un atto bizzarro: l'America stessa perseguirà poi nel corso del Novecento un rigido isolazionismo sdegnoso, che poco avrà da invidiare alla stagnazione in cui all'epoca versava il Giappone. 
Ma d'altronde, è noto: Dollaro e Democrazia, in punta di baionetta. 

L'intervento del Commodoro Matthew Perry verrà a lungo ricordato con particolare sofferenza dal popolo giapponese, che vedrà nell'arrivo delle magnifiche steamships occidentali un segno al contempo di sfrenato benessere e perturbante progresso. Una Distruzione (= il minacciato bombardamento, che poi non avverrà) e un Arricchimento (= le nuove opportunità commerciali, il progresso industriale, ecc ecc). Nel complesso, sarebbe inutilmente nostalgico rimpiangere l'epoca di oscurantismo dei Tokugawa, che precedette l'apertura dei porti; e tuttavia l'impressione che dovette provare la gente comune, il senso di forte instabilità, doveva risultare inimmaginabile.


Due anni dopo, nel 1855, un gigantesco terremoto avrebbe colpito Edo, causando più di settemila morti e distruzione su larga scala. Il terremoto, esattamente come l'intervento occidentale, aprì una larga frattura nel senso di morti e feriti, ma al contempo si tradusse in un gigantesco arricchimento, che portò fior fiore di quattrini nelle casse di architetti e carpentieri, che poterono finalmente cogliere un'occasione per ammodernare la città sconvolta dalla magnitudo 7.0

Abbiamo dunque due esempi di evento traumatico: l'intervento occidentale e il terremoto.
E abbiamo una doppia conseguenza in entrambi i casi: distruzione sul piano materiale e fisico e al contempo proprio in virtù di questa distruzione una possibilità di progresso, di arricchimento.

L'animale mitico giapponese che bene incarna questa dualità bifronte si chiama Namazu.

Dall'aspetto di un pescegatto colossale, vive nel fango, al di sotto della crosta del Giappone. Una pietra conficcata a mo' di spada lo tiene legato al fondale, sorvegliato dall'eroe che riuscì a imprigionarlo, il Dio Kashima. Quando il Dio si assenta per la pausa caffè, Namazu tenta di liberarsi causando con i suoi contorcimenti spaventosi terremoti sugli umani in superficie. Occorre dunque rabbonirlo, calmarlo, in attesa del ritorno del Dio Kashima. In seguito al terremoto di Edo, abbiamo infatti una larga produzione di tavolette votive, incisioni sul legno e stampe popolari che rappresentano il Namazu. Si vuole blandirlo e calmarlo, se siete artigiani e piccoli commercianti dalla casa distrutta. Oppure, al contrario, potete convincerlo a scuotersi ancora, a causare ulteriori terremoti, se appartenete alla spregevole gilda degli architetti, dei carpentieri, dei vigili del fuoco, dei muratori. A volte il Namazu si frammenta e moltiplica in più Namazu di statura umanoide, camuffati o impegnati in attività goliardiche alle spalle del popolo giapponese. Altre volte ancora, viene disegnato dalla silhouette a tal punto gigantesca e allungata da ricordar intenzionalmente una nave a vapore inglese. Ritorniamo così al tema di partenza (l'Intervento occidentale!).

Namazu, Kashima e la pietra Kaname-ishi. Si dice che il terremoto del 1855 derivi dall'ubriachezza di Ebisu, dio della pesca e del commercio, che avrebbe dovuto sostituire Kashima per un breve periodo di tempo, ma che non riuscì a resistere al richiamo del sakè, addormentandosi sul luogo di “lavoro”.



A volte i Namazu sanno essere gentili: in questo caso salvano qualche cittadino dalle macerie...

venerdì 18 ottobre 2013

The wolf among us - La Telltale games ci riprova

Fables era in origine una serie a fumetti dell'ottimo Bill Willingham, prima che la Telltale Games, reduce dal bagno di folla di The Walking Dead decidesse di trasformarla in una nuova avventura grafica a episodi. 

Uso il termine "avventura grafica" in modo improprio temo, perché degli enigmi e della lentezza che hanno da sempre caratterizzato questo genere è rimasto ben poco. Già in The Walking Dead la spinta verso la narrazione era massiccia, ma prevaleva di tanto in tanto qualche relitto di combinazione oggetti e cervellotico gioco d'incastri. Di quest'eredità "cruciverba" The Wolf among us se ne libera sin dall'esordio stesso, mescolanza serrata di dialoghi e QTE che non fanno rimpiangere la lentezza ripetitiva di certe vecchie serie, lodate da molti, giocate da pochi, effettivamente apprezzate da pochissimi. 
Se cercate avventure grafiche, tenete un occhio sui molti (issimi) progetti indie/ Kickstarter, o compratevi La Settimana Enigmistica. The Wolf among us continua sulla scia delle scelte morali di The Walking Dead, confezionando a tutti gli effetti una visual novel ottimamente svolta, dinamica, ma lontana dalla sensazione di "giocare" che possono trasmettere altri titoli.

Nel fumetto, il mondo delle Fiabe è stato invaso da una maligna presenza, l'Avversario, che dopo sanguinosi macelli ha spinto i diversi personaggi di ogni fiaba a emigrare nel mondo reale, in un esilio di rabbia, sporco e rassegnazione. Nella New York contemporanea Biancaneve, il Cacciatore, il Principe Azzurro, il Lupo Cattivo, la Bestia... Convivono tutti in ghetti e alto borghi, dibattendosi nelle ovvie difficoltà del mondo reale.


mercoledì 9 gennaio 2013

Aletheia (1/2)


Racconto scritto questo Natale, vagamente allegorico. Come fonte dominante, c'è il capolavoro, molto sopravvalutato a mio avviso, di Neil Gailman, American Gods. E conseguentemente, uno dei Tropes che più amo, cioè All Myths Are True. Stupido, ma divertente. Da quanto ricordo, con Gailman gli dei si fermano a Internet, rappresentata- banalissimamente, e in modo parecchio retrogrado- come un bambino grasso e disadattato. Vabbè.
Ho pensato di portare questo concetto avanti, e trasporre lo status di divinità ai social network stessi. Dopotutto, nell'era attuale, non è raro trovare gente che considera la visita giornaliera a Faccialibro ai pari di una preghiera, o che avverte una sincera perdita di fede, quando salta la connessione internet. E già trascuro gli hipster che fotografano ogni cosa che si muove, o gli evangelisti twitteriani, impegnati in feroci crociate contro gli araldi del bianco&blu.
Non è questo, "un mondo che ha perso la fede".


Come sempre, se vi va commentate! Nella mia intenzione, i due differenti piani – prima persona maschile e terza persona femminile di Aletheia - in cui si svolge la vicenda avrebbero dovuto intersecarsi con maggiore chiarezza, ma come ho constatato dal silenzio dei forum di scrittura, in effetti la gente fatica a comprendere cos'ho scritto. Non forse sul piano dell'intelligibilità- fortunatamente! - quanto piuttosto nel fine stesso della vicenda. Il fatto stesso che abbia considerato necessario questo breve preambolo, è un segno che manca chiarezza nel racconto. ^.^

Aletheia (1/2)

Sospiro, mentre tazza di caffè nella sinistra e mano destra sul mouse, aguzzo gli occhi sulle nuove notifiche. I punticini rossi brillano sullo schermo blu. Clicco, clicco frenetico: assaporo con sogghigno sulle labbra la replica irata di un bimbetto caduto nella mia provocazione da troll, osservo con distaccato disinteresse la risposta negativa di un cesso con cui ci stavo provando e termino infine, postando un frammento di Heidegger, che a essere ben sincero non comprendo, ma che ah! Lì sulla bacheca mi trasforma presto, nell'intellettuale impegnato che vorrei sembrare.
Sbatto le palpebre, stropiccio l'occhio arrossato. Sono cinque ore, che chatto online. Cinque ore che batto sulla tastiera, mando email, e di tanto in tanto, compilo distratto gli appunti della nuova lezione che dovrei andare a preparare. La schiena arde al contatto con il cuoio nero della poltrona, le braccia dolgono. La mano destra? Metastasi del tunnel carpale. Sono stanco, ma non riesco... non riesco a smettere. C'è un pensiero che mi tormenta. Dalla pausa in cui bevevo il thè del primo pomeriggio, e guardavo distratto le gru del porto ondeggiare alle raffiche della tempesta a venire. Non è la prima volta che mi sovviene un'idea; e non è certo novità che l'idea in questione appaia come un lavoro geniale, un progetto fantastico, "qualcosa di mai visto prima". Ma nel caso in questione era diverso. Non avevo la chiara sensazione di scrivere il solito, delirante frankenstein d'idee rubate, storpiate, torturate per farle sembrare qualcosa di mio. Stavolta, per la prima volta dopo anni e anni sentivo che un pensiero nuovo aveva fatto capolino. Timido, sbirciava dietro l'angolo. Un po' come il gatto della mia vicina, sempre tanto riluttante alla carezza. O come quelle ragazze che non riesci mai a invitare da nessuna parte, perchè non appena parli, già le vedi indietreggiare, sparire dietro lo scaffale dell'ennesima biblioteca. E così l'ho persa quest'idea, questo pensiero nuovo e autentico. Impegnato in mille altre cose, ho lasciato che si smarrisse nei meandri della mia mente. Tolgo lentamente le cuffie, barcollo con le giunture che gridano vendetta alla finestra. Respiro l'aria carica di pioggia, che picchia in strada in uno scrosciante diluvio. Un'idea, un pensiero di libertà. Mi afferro la fronte fra pollice e indice. Chino il capo. La mia piccola creatura. Perduta!



Aletheia scivola per le dune di sabbia rovente, affonda i sandali in passi faticosi. Impreca, quando superato l'ennesimo dislivello, scruta l'orizzonte vuoto. Il gioco di un dio beffardo, quel mondo. Una distesa desolata di sassi e sabbia. Non una pianta, non un animale. Inclina il capo a fissare il cielo assolato, di un azzurro stinto, divorato da un globo infuocato che risulterebbe riduttivo, definire "sole". Apre le labbra screpolate. Invoca l'acqua, la pioggia. " E già che ci siamo, il mare, e pronta una cazzo di galea a salvarmi! " Chiude gli occhi, li riapre. " Stupida, stupida, stupida! " Si batte il pugno sul peplo, affonda le mani nella sabbia. Pietre. Sbriciolate, arse, trasformate in finissima polvere dorata.
" Dove sono? Dove cazzo sono? " Ricorda ancora le verdi distese dell'Olimpo, la folla di dei, semidei, eroi. A giocare, guerreggiare, schernirsi. Da Zeus ad Atena, alle muse e ai satiri. E poi loro, le mezze cartucce. Gli aborti. Non titani adorati da popolazioni festanti, o dei a cui massacrare cento e cento vergini. Gli dei feccia. Dionisio. Le Graie, le Erinni, le Muse. E poi lei, Aletheia! Nemmeno un dio, nel senso pieno del termine. Ma una parola, un segno. Un'idea nella testolina di un filosofo troppo occupato a pensare. " Siamo scarti " constata Aletheia. Relitti nel folle percorso della ragione. Gli scarti nelle guerre di generazioni e generazioni di filosofi. Difesi da eserciti di critiche e trattati, innalzati all'ultima soluzione, all'ultima verità. Solo per subire l'oltraggio di troppi rivoluzionari, troppi allievi che superano il maestro, troppa destructio spinta al suo spasimo. Non esiste Aletheia. Non esiste verità ultima.

- Nasconditi! Nasconditi, sciocca! -

Una voce sottile, stridula. Aletheia alza il viso, inquadra la sottile silhouette di un airone in volo. L'uccello veleggia verso di lei, si ferma a mezz'aria, sbattendo le ali dai mille colori. Aletheia alza un sopracciglio, perplessa.

- Thot? Il dio della scrittura? Che ci fai...-

- Che ci faccio qui? – Gracchia, socchiude il becco affilato. Con gesto di nauseante autocompiacimento, s'appollaiola sulla spalla di Aletheia, che a stento si regge in piedi al peso gigante dell'airone.

- Sai – La dea stringe i denti, impreca – non sei proprio un leggero pappagallo...-

- E tu non sei solo un'umana sperduta, mia cara. Sei lo scarto della mente di un filosofo, quindi taci e ascolta chi è più vecchio, di te, chiaro? -

- Egizi, greci... Siamo più o meno lì, no? -

Thot chioccia una risata maligna. - Eravamo vecchi quando voi greci ancora vi massacravate con clave e pietre, Aletheia. - L'airone le strofina il becco nero sulla guancia, avvicina l'affilatissima punta all'occhio nero di Aletheia, che sbatte frenetica le palpebre. - Non provocarmi, puttanella -

La dea deglutisce amaro. Azzarda qualche nuovo passo sulla duna in salita. Scivola nella sabbia bollente.

- Parlavi di un pericolo...- Sospira – non è che sapresti dove sono, per le palle di Zeus? -

- Huhu – sibila Thot. - Una così dolce boccuccia che pronuncia parole tanto volgari! -

- Non lo sai, nemmeno tu, vero? - Sogghigna Aletheia. - Sei anche tu intrappolato in questo... Inferno! - 

- Err...- Thot gracchia, stringe gli artigli nel soffice peplo bianco di Aletheia. La ragazza resiste strenuamente all'impulso di grattarsi la spalla, dove macchie di sangue ormai macchiano il tessuto. - No! Va bene, non lo so! - il dio della scrittura sbatte le ali, schiaffeggia Aletheia. - Mi avrà intrappolato l'ennesimo scribacchino disperato, o il solito ragazzino appassionato di piramidi! -

- Quindi... Vorresti dire che siamo nella mente di un umano? Ma com'è...-

- Forse sì, forse no. Cioè, non lo so, Seth si fotta: non lo so! - Thot apre e chiude il becco, ticchetta frenetico – Può essere che siamo solo emanazioni, doppi, tripli della nostra autentica identità. Magari in quest'esatto momento, la vera Aletheia pasteggia nell'Olimpo, mentre la sua ombra bestemmia nel deserto. Chissà! Ma quanto conta, è che non siamo soli! -

- Altri dei? Come noi? Ma se...-

- Erano tre cavalieri, Aletheia. Ma ignoro se siano davvero dei, o cacciatori di questo deserto maledetto. Si muovono lenti, goffi. Gesticolano parolacce, grugniscono. Sono come infanti, bambini che non sanno ancora controllarsi. Ma possono fare male, se non stai attenta – Thot alza un'ala, espone una lacerazione fra le piume, un buco della forma di un cerchio perfetto, gocciolante inchiostro. - Hanno bastoni che tuonano, i bastardi -

- Ma siamo dei, no? Non possiamo morire? -

- E Afrodite, ferita al polso da Diomede, nella vostra ridicola guerra di Troia? E Ade, trafitto da una freccia di Eracle? Possibile che debba essere io, a ricordartelo? Ferire un dio, mutilarlo... E' sempre possibile. -