venerdì 18 aprile 2014

Lo Scorpione Grigio di Misty Bay


L'Ora Più Buia è il titolo di una raccolta di racconti d'avventura di Andrea Sfiligoi, che mescola arti marziali orientali all'impianto pulp tipico degli anni trenta. Misty Bay: una città inventata, ma saldamente radicata nel peggio della realtà urbana americana. Gray Scorpion: un eroe mascherato di quelli che ne hanno perso lo stampo, ma esile, senza superpoteri e di provenienza cinese.
L'ebook si compone di due racconti, il primo di lungo respiro che sviluppa un massacro pirotecnico nel covo di uno dei cattivi della storia, il secondo dilatato nell'occhio di un sicario incaricato di rimuovere (permanentemente) Gray Scorpion.

Assassino veloce e letale, lo Scorpione Grigio è un giustiziere della notte veloce e cavalleresco, che colpisce per un binomio arti marziali/razionalità abbastanza inconsueto. Solitamente l'eroe senza poteri soprannaturali spinge molto sull'azione violenta, uno sforzo muscolare che liberi la situazione. Gray Scorpion al contrario, essendo alla fin fine un piccolo cinese esperto in arti marziali, preferisce un approccio più tattico, dove perfino nelle situazioni più concitate la mente freddamente enumera i dati a disposizione e agisce di conseguenza.
Un Batman più sagace, meno ricco, più umano.
Nel concitatissimo racconto “L'Ora più Buia” Gray Scorpion già accecato da un acido, viene assalito alle spalle dalla presa strangolatrice di un assassino di professione. E' un passaggio piuttosto emblematico del binomio appena espresso:
Il giustiziere mascherato fece appello a tutta la concentrazione di cui era capace.
Usando le dita come pugnali, lanciò una ridda di colpi contro i fianchi dell'uomo, cercandone i punti vitali con tecniche di digitopressione.
Ma le sue dita incontrarono una resistenza inaspettata.
L'uomo indossava qualcosa – piccole lamelle di materiale freddo e liscio, non metallico, che componevano un vero e proprio giubbotto, duro e flessibile allo stesso tempo. Quel materiale, oltre a proteggere l'uomo dai colpi, impediva allo Scorpione di sentire il fluire del c'hi nel corpo dello strangolatore. (…) La sue mente osservava dall'esterno con la solita freddezza di chi sapeva di vivere giorni presi in prestito.

mercoledì 16 aprile 2014

Suffragette Ninja!



Come tutti i movimenti Sindacali delle Trade Unions operaie e allargando il campo come per ogni movimento di emancipazione, il movimento delle suffragette fu un affare duro e sanguinoso.

Nei libri di storia le pretese degli operai vengono inseriti nel flusso di un progresso generale, dove i diritti del lavoratore vengono man mano integrati nel più generale processo di industrializzazione. Tuttavia, se il movimento di scioperi e proteste ebbe successo fu per la testardaggine dei lavoratori, difficilmente per un'immaginaria “apertura” degli imprenditori e dei lavoratori delle fabbriche. 
L'idea che mi sono fatto è che le richieste dei diversi movimenti operai nel corso dell'Ottocento fossero violentemente in contrasto con l'ordinamento che si andava imponendo. Infatti, a ogni puntuale crisi economica, guerra (di produzione e/o militare) le suddette conquiste venivano metodicamente annullate. L'Inghilterra era una monarchia parlamentare pesantemente classista e poté raggiungere questo alto grado d'industrializzazione proprio in virtù di un classismo teorizzato e legiferato dalla Gentry. La Francia tormentata da continue rivoluzioni politiche e sociali, perse infatti il passo: troppo potere al popolino, troppa apertura alla democrazia. La Prussia che andava unificando la Germania invece, non a caso in virtù del suo rigidissimo sistema che l'avvicinava all'Inghilterra (e forse la superava) poté industrializzarsi con rapidità spaventosa. 
Lo vediamo tutt'oggi: la direzione centralizzata della Cina sta conquistando i mercati molto più rapidamente della Russia post-comunista, che liberalizzando completamente il mercato andò rapidamente nello sfascio più completo. Questo per dire che non c'è alcun necessario nesso Democrazia-Industria-Progresso, anzi il primo temine lo escluderei decisamente.


In questo ambito, come detto, il movimento delle suffragette fu un affare singolarmente sanguinoso.
Gli scioperi della fame risultarono una sgradita novità per le carceri inglesi, che scelsero un'alimentazione forzata che non possedeva certo la delicatezza delle Flebo endovena moderne: dovete immaginare tubi che spaccano i denti di bocche risolutamente serrate, sbobba ficcata in gola, rigurgiti&vomiti, gente soffocata e altre simili piacevolezze.


In questo contesto la situazione verso il 1913 raggiunse un autentico “punto di ebollizione”.
Sylvia Pankhurst giunse a consigliare le sue seguaci d'imparare le arti marziali e prese a raccomandare che ognuno si portasse randelli e 

We have not yet made ourselves a match for the police, and we have got to do it. The police know jiu-jitsu. I advise you to learn jiu-jitsu. Women should practice it as well as men.
Don’t come to meetings without sticks in future, men and women alike. It is worth while really striking. It is no use pretending. We have got to fight.


L'esortazione di Sylvia Pankhurst non andò inascoltata, anzi: per proteggere i diversi leader del movimento dagli assalti di arrabbiati difensori dello status quo, la Women's Social and Political Union scelse di creare una Bodyguard, un corpo di guardie del corpo femminili, che proteggessero le Suffragette nei momenti più violenti dei numerosi Comizi in piazza. Venticinque, trenta donne che scelsero d'imparare il jiu-jitsu. Questa particolare arte giapponese era già stata introdotta in Inghilterra quindici anni prima dalla leggendaria figura di Edward William Barton-Wright, il fondatore del Bartitsu, l'arte marziale di autodifesa usata da Arthur Conan Doyle nei racconti di Sherlock Holmes! I giornalisti non appena vennero a conoscenza del fatto deliziati coniarono l'impronunciabile neologismo Jujitsusufragettes!

E ora veniamo allo scontro in cui dove più la Bodyguard di suffragette diede prova di sé: 

La battaglia di Glasgow (Battle of Glasgow)



venerdì 11 aprile 2014

Una mamma perfetta


A studiare il nemico, c'è sempre il forte pericolo che si diventi quanto s'aveva duramente combattuto.
Si studia, si studia e si giunge all'agghiacciante conclusione che il nemico aveva ragione, tu avevi torto e dopotutto agiva a fin di bene. La conversione al nemico, che sia una semplice posizione culturale o una conversione religiosa; un fenomeno tanto banale quanto comune.

Tuttavia, c'è un processo perfino più insidioso, che bene riflette l'atteggiamento di molti parassiti, che entrati sotto pelle manovrano e succhiano energia a un corpo che crede di avere libero arbitrio, pieno controllo di corpo e pensieri. E' il caso dell'opposizione che finisce per lodare, o meglio per dogmaticamente proporre proprio il modello che vorrebbe combattere con tutte le sue forze. A volte finisce addirittura per rafforzarlo. E' un processo singolare, ma che ha un senso, nella società contemporanea. 
L'oppositore opponendosi diventa sostenitore e viceversa.

Ad esempio, quando qualche settimana addietro ero in libreria a frugare nella sezione Fumetti, non ho potuto non ascoltare una conferenza che vi si andava tenendo. Ho imparato da tempo che alle conferenze, specie se in luoghi pubblici come una libreria, un folto pubblico non è per forza buona cosa. Se c'è tanta gente, stanno aspettando solo una cosa: il rinfresco. E se non c'è rinfresco, la conferenza ha come protagonista un personaggio che il pubblico spera pittoresco: c'era tanta gente per Mauro Corona, per Sgarbi ecc ecc. In questo caso, la relatrice era una donna, l'argomento era femminista e il pubblico era scarso: tutti ottimi indizi che il discorso fosse interessante. E da quel poco che ho ascoltato lo era parecchio. Nulla di nuovo per la carità; filava sul pattern di stampo antropologico, che confrontava certi modelli di politica e comportamento svedesi e finlandesi con una certa arretratezza latente tipica del Peggio dei paesi mediterranei coniugato col peggio della beceraggine anglosassone. Avendo frequentato un corso di antropologia con una professoressa piuttosto...umh...critica, conosco già gran parte degli argomenti e vi concordo. Almeno, facendo eccezione del totale disprezzo che gli antropologi provano per ogni conquista tecnologica, per non citare tutte quei noiosi rimproveri “alla kattiva civiltà occidentale” che ha “schiavizzato” le “pacifiche culture non eurocentriche”. Ho qualche difficoltà a considerare popolazioni come gli Zulu o gli schiavisti guerrafondai del Dahomey pacifici, ma sto divagando.

Il vero problema era un altro e me ne resi conto solo scarpinando a casa. 
Tra un pensiero e l'altro, analizzavo componenti e parti del discorso e volevo trarne per così dire un modello pratico di comportamento. Ovvero; se era chiaro chi disprezzava e chi odiava, verso tuttavia quale persona (ideale) si rivolgeva l'elogio femminista

La risposta mi sorprese; era la madre. 
Una madre forte, fiera, indipendente, ma pur sempre una madre. La dottoressa che alla levata di scudi
dell'obiezione di coscienza dei medici diventa l'unica specialista che pratica aborti, ma che in realtà vorrebbe anche far nascere qualche bambino di tanto in tanto. La madre che abbandonata dal marito tira avanti da sola e si rende conto di come autonomamente viva meglio di quand'era sotto il tetto familiare. And so on.
Il nodo debole dell'argomentazione è, per l'appunto, questo. Se modello positivo del femminismo è una “supermadre” cosciente, autonoma, ma per l'appunto super, cosa la differenzia, mettiamo, con la Maria piena di Grazia del Cristianesimo? In entrambi i casi, sia nel modello religioso che laico c'è un modello di donna che si realizza nella maternità, un modello estremo, indubbiamente di grande potenza. Qual'è il passo in avanti, nell'individuare nella lode sperticata alle “tante madri coraggiose” l'esempio femminista per eccellenza?
Non si può utilizzare un lessico cristiano, e pertanto capitalista, per combattere una situazione per l'appunto di dominio capitalista. Usare il fuoco per combattere il fuoco porta solo all'autocombustione.
Non proprio una grande conquista.
Sarebbe stato piuttosto interessante interlocutire la relatrice e chiederle se provenisse da un entroterra cristiano, se la sua famiglia fosse cristiana; se fosse credente. Non è il meccanismo forse dell'inconscio stesso, questo seppellire certe credenze che si credevano estinte per poi riproporle credendole proprie, genuinamente convinti di aver trovato qualcosa di nuovo? Una verniciata superficiale e via, totalitarismi paternalisti (ri)proposti come “nuovi”, come modelli innovativi, ingannevolmente emancipatori. 
E in un orrendo circolo vizioso ci si ritrova così con un discorso che vuole essere "emancipatore" ma in realtà corteggia esattamente quello stereotipo trito e ritrito della buona madre di famiglia che tutto sopporta pur di crescere i bambini e rendere felice la famiglia. Bizzarro, no?

Non ho messo alcun link nelle fonti, stavolta, perché son riflessioni che ho partorito (sic) per conto mio e che probabilmente possono facilmente venire smontate :-D

Involontario Fail.

lunedì 7 aprile 2014

A caccia di Tigri Reali del Bengala a (quasi) mani nude


Sono contrario alla caccia, ma non certo perché la reputi un'attività particolarmente crudele. 
Diciamo che in tempi di collasso ecologico andarsene in giro per foreste sovraffollate di quei peculiari animali chiamati “vacanzieri”, con una doppietta sulla spalla non evoca immagini di grande eroismo. 
Non ha molto senso impallinare alberi e occasionali lupi smagriti.

Posso però capire il fascino che quest'attività esercitava nei secoli passati. 
Nella Prima Guerra Mondiale gli Imperi centrali conquistarono un'iniziale vantaggio in termini di fucili e mirini di sniper proprio per l'amore della caccia che nutrivano i giovani Junger, dalla mira infallibile allenata a colpire nel folto delle foreste del nord. La caccia era propedeutica alla guerra, un'attività di fianco a tante altre, tanto naturale quanto respirare. 
In campo inglese, la vastità dei territori coloniali, a stento tallonata in terra d'Africa dai successi francesi, garantiva un ampio territorio di safari esoticoSareste persone terribilmente tristi per considerare “brutta” l'immagine di guerrieri indigeni che scudo e zagaglia in mano “battono” la giungla per stanare la terribile preda che il cacciatore bianco, rossa uniforme in velluto dai ricami d'oro, punta col fucile, con glaciale freddezza.
Uno sbuffo di fumo, un acclamare di lance e urla tribali. E una nuova pelle decora la grande Hall di qualche club londinese, memento di quanto sottile sia il confine tra coraggio e temerarietà.
Bellissima, bellissima scena!
Tigre! Tigre! Divampante fulgore Nelle foreste della notte, Quale fu l'immortale mano o l’occhio Ch'ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria? (cit. Blake)

La tigre di Blake. Non proprio un cucciolo. 
Ovviamente, non esisteva solo l'Africa. In India, il Bengala fu tra le prime zone che venne colonizzato dagli Inglesi nella prima metà del XVIII secolo; l'influenza olandese e portoghese andava scomparendo lasciando ampia rivalità al crescente antagonismo Anglo-Francese.
Verso la metà dell'Ottocento, L'India, più che una colonia inglese era un continente talmente vasto da costituire uno stato inglese a sé, il più eminente gioiello dell'impero Britannico. A questo proposito è interessante notare come nel 1700, per quanto cominci a delinearsi un progetto imperialista, ancora il termine "impero" non è in uso, mentre domina invece il lessico d'età vittoriana...
E ovviamente in questo fiore all'occhiello le prede abbondavano, e su tutte la più ambita era la Tigre mangiauomini...

E' in un contesto di questo genere e con questo spirito d'animo che dobbiamo inserire l'avventura del Luogotentente Colonello Frank Sheffield, che scrisse nel 1902 un piccolo libro che raccontava un suo sfortunato incontro con la Fauna locale del Bengala. 
Il mio principale proposito nello scrivere questo libriccino era di porre a testimonianza scritta una descrizione della mia stupefacente conservazione dalla morte in un incontro causale con una Tigre Reale del Bengala. La mia vita era a tal punto avventurosa a quei tempi. Ho partecipato a diversi grandi safari di vario tipo. Ma quest'episodio, talmente bizzarro in sé, risultò fondamentale per la mia vita in seguito e per il mio carattere; segnò inoltre la fine della mia carriera come cacciatore di grossa taglia.

Il 25 gennaio 1871 il nostro Frank Sheffield scelse di andare a caccia nei pressi di Palaspai, nel Midnapore, uno dei più importanti e ricchi distretti del Bengala britannico. Passò la mattina “a sparare” e sulla via del ritorno ebbe un incontro che difficilmente avrebbe dimenticato a breve.

Il nostro cacciatore, bisogna dirlo, apparteneva la genere degli improvvisatori.
Contrariamente a quanto si pensa, i Kattivi Bianchi Kolonialisti non cacciavano sempre contro il parere degli indigeni, ma spesso erano gli autoctoni stessi del luogo a richiedere cacciagione. In questo caso, un nativo chiese al nostro Sheffield se volesse abbattere una tigre. Sheffield aveva solo un vecchio fucile per la caccia agli uccelli, ma scelse comunque di tentare il colpaccio. Aveva infatti due proiettili esplosivi nella tasca e li sagomò per poterli inserire nel fucile. Era inoltre convinto che la superstiziosa plebe del luogo avesse scambiato un piccolo leopardo per una tigre. Un errore di malafede non indifferente...


venerdì 4 aprile 2014

Il Fantasma nel Guscio della Nexo Digital (Ghost in the Shell: Arise)


Giubbotto allacciato, familiare peso del talismano magico chiamato “libretto universitario” nella tasca sinistra. Camminata veloce attraverso la città al crepuscolo. Gruppetti di ragazzine che papereggiano presso il sacro tempio chiamato Burger King. Barbe&baffi travestite da esseri umani che formano minuscoli gruppetti presso il cinema. Non è ancora il momento. Mentre procedo nel Viale, gli edifici cominciano a liquefarsi, a decadere in calcinacci e tapparelle abbassate.
Suono all'ennesimo condominio di piccole stanze per piccoli budget per piccoli studenti. 
Portone, ascensore, corridoio.
...Ora senti, forse il tuo metodo di massaggi è diverso dal mio ma sai... toccare i piedi di sua moglie e infilare la lingua nel più sacro dei suoi buchi non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato...

Per meglio distrarsi dall'esame sul pessimismo leopardiano, l'Amico di Cinema mangia la sua cena guardando Pulp Fiction. Un tostapane che sembra uscito dall'ultima guerra (cioè la guerra boera, ovviamente!) riscalda panini poco appetitosi. Fobicissimi entrambi di file e posti a sedere esauriti, decidiamo che mezz'ora di anticipo è il minimo indispensabile. Ghost in the Shell: Arise ci aspetta. Oh yeah!
Una birra, due, tre.
Usciamo. Il Cinema lampeggia, ma non c'è fila, solo un solitario cinese, qualche barbuto panzone uscito direttamente dagli stereotipi anni Ottanta e un paio di pensionati, che sono come il prezzemolo, stanno bene dovunque. Constatiamo con fastidio libertariano il divieto di portarsi drinks dall'esterno. Sempre la stessa storia, misure protezioniste everywhere. E non c'è nemmeno la bisaccia per contrabbandare qualche panino, qualche lattina sotto costa, per rifocillare i nostri poveri corpi.
Rassegnati, tormentiamo la piccola commessa perché ci fornisca le locandine promesse. Good! Il bambino pacioccone che è in tutti noi nerdacci che si rispettino esulta.
Entriamo in sala...


Questa è stata un'introduzione diversa dal solito, spero vi abbia divertito ^^
Un mese fa ho sperimentato la maratona di Ghost in The Shell della Nexo Digital e ne sono rimasto piuttosto soddisfatto. Costosetta certo, ma erano anni che non guardavo un'anime sul grande schermo.
Quand'ero, ironicamente, ragazzino (tredici, quattordici anni) consideravo qualunque cosa non fosse un film con attori reali, una cosina “per bambini” indegna di attenzione. Col tempo, questo pregiudizio è perdurato sottopelle, fin a quando mi sono accorto, che sì, stranamente anche i cartoons possono risultare interessanti, e anzi vantare sceneggiature niente male. Ghost in the Shell è una delle poche serie anime che abbia visto quand'ero giovine e una delle poche di cui abbia visionato credo tutto, dagli Oav alle due serie tv, in particolare la 2nd Gig per quanto terribilmente lenta vantava una sceneggiatura fenomenale.

Della maratona, la rivelazione era risultato l'Attacco dei Cyborg; 2004, appena uscita la computer grafica, Mamoru Oshii voleva provare qualcosa di nuovo. E l'aveva provato dannazione! La quantità di riferimenti, giochi temporali, illusioni virtuali e pure orgie visive t'imprimevano sulla cornea una sensazione indescrivibile di sublime, (quasi) di sacro terrore.

Ghost in the Shell: Arise, strutturato in tre parti da un'ora ciascuno (OAV) ha un'impostazione molto più Ghost Pain ha un'andatura nell'insieme lenta rispetto a Ghost Whispers, e fa meno presa sullo spettatore. Gli eventi devono ancora ingranare. C'è qualche bella intuizione: il corpo del Maggiore sovvenzionato dall'esercito e conseguentemente di sua proprietà, gli usuali interrogativi uomo-macchina, un lavoro in termini di Worldbuilding sociopolitico assai imponente. C'è sempre stato un fondo di astrattismo intellettuale, nelle avventure del maggiore Kusanagi, specie nella seconda serie tv. E quest'astrattismo ritorna nel primo episodio, che cede poi sul fronte dell'azione con Ghost Whispers.
tradizionale. Gli stessi disegni, oscillano da un'impostazione paesaggistica fino ad allora assente, a modelli dei diversi personaggi a volte poco precisi, stilizzati quasi. Delle due parti,

Motoko Kusanagi in questo prequel è una Maggiore piuttosto arcigna, che nel corso dei due episodi si rivela alquanto brutale in confronto alle precedenti serie tv. C'è un'interessante cortocircuito del fan service, il quale più che risultare contenuto, viene invalidato dalla protagonista stessa, che risulta troppo giovane, troppo androgina se confrontata con le sue precedenti incarnazioni.
Nella sigla iniziale, c'è qualche momento “stuzzichevole” (odio quest'aggettivo) tuttavia man mano che l'episodio si dipana, l'esile silhouette dell'esperta di cervelli elettronici acquista sempre meno corporeità. Un fan service digitalizzato non è fan service. E di questo sono molto contento.
Grazie alla matrice poliziesca il primo episodio butta lì diversi momenti introspettivi che ho personalmente apprezzato: Kusanagi è intralciata oltre dall'ingenuità dei primi anni, da un corpo cibernetico nell'insieme debole, se paragonato alle mostruosità metallo-carne che affronta di volta in volta. C'è una sensazione di disparità nelle forze in campo che finora mancava.

E quindi? Nell'insieme? Valsa la pena? 
Risponderei Ni: questi due episodi hanno un ritmo troppo classico, troppo “normale” se confrontati con i mostri sacri che li precedevano. Tuttavia, scorrono piacevolmente. Mancando inoltre ancora due episodi, in realtà è impossibile fornire un giudizio definitivo. In ogni caso, rincontrare la Maggiore Kusanagi è sempre una gioia. *_____*