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lunedì 4 dicembre 2017

No, Blade Runner 2049 non è un film sessista (e non lo è nemmeno The Witcher)


La mia prima visione di Blade Runner 2049, a pochi giorni dall'uscita nelle sale, fu un'esperienza estetica ai limiti del doloroso. 
Non sono uno storico dell'arte, non è il mio campo, ma ho avuto modo in passato di restare ore a soffermarmi sui dettagli di un quadro. 
La visione di Blade Runner 2049 rientra per me in questo genere d'esperienze. 
Se il film è in primo luogo una catena d'immagini e compito del regista è organizzare queste immagini per darne un senso tanto artistico quanto narrativo, Blade Runner 2049, come Mad Max: Fury Road, sono entrambe opere di cinema nel senso più classico del termine.

lunedì 22 maggio 2017

A ogni genere il suo sentimento, a ogni epoca il suo fantasy


Ci si lamenta spesso come online si diano per scontate troppe cose, si presumano troppi indizi, ci si abbandoni troppo volentieri a confidenze e scambi basati sulla sola fiducia.

Non giudicare un uomo dalla sua pipa,
giudicalo dal suo tabacco
Indubbiamente, nel mio campo, se si leggono alcuni blogger per anni, articolo dopo articolo, specie tra i siti giornalieri, ci si può illudere di conoscere una persona. 
Forse è anche più facile che dal vero; tra un'immagine profilo e un articolo, tra una riflessione e una dichiarata affiliazione a un hobby, una politica, una religione, diventa possibile fraintenderne il carattere, arrogarsi il diritto di giudicare. 
Devo però ammettere, che sarà forse che non ho grandi contatti online, ma non ho riscontrato quest'arroganza tra i lettori e i colleghi blogger, almeno quei pochi che ho conosciuto. Ad esempio ho qualche contatto che commenta e che conosco da anni che raramente inquisiscono dentro questioni personali, preferendo mantenere il discorso sui reciproci interessi, pure molto seri.


Al contrario, andrebbe osservato che ci sono tante, tantissime persone che conosci di viso, che sei costretto a salutare per ragioni di elementare educazione, ma che tu non conosci e che loro non ti conoscono. 
Mi sto riferendo sopratutto ai vicini di casa/appartamento, ma rimane una riflessione aperta anche ad altri campi: conoscenze sul bus, vicini della casa dell'amico, genitori dell'amico ecc ecc
Quando forzatamente sono poi costretto a una conversazione, rimango sempre sorpreso dell'arroganza degli stessi; vi potrà sorprendere, ma se vedete una persona ogni giorno, non vuol dire che la conosciate o che sappiate chi è e cosa fa. 
Guardare una persona non equivale a conoscerla; vederladal vivo” non significa nulla. Ho visto lo stesso controllore sullo stesso treno per trenta giorni, ma questo non mi ha rivelato nulla sul suo carattere, sulla sua famiglia. Sopratutto non mi permetterei mai di dirgli cosa deve fare o come deve comportarsi. E' solo una persona che “vedi”; non vuol dire niente. 
Questo contorto preambolo per arrivare a dire che qualche settimana fa mi sono ritrovato in ascensore con una persona di mia conoscenza; devo ammetterlo, più la conversazione procedeva, più mi sorprendevo dell'estrema, ottusa arroganza che mi veniva esibita dinanzi. Sull'unico indizio della mia età, la sgradevole vecchia – perchè tale era – procedeva a criticare a tutto spiano, al punto che sono rimasto allibito, le mani che mi prudevano. Ovviamente, di fronte all'ennesimo esempio della pensionata che ha raggiunto la pensione solo perché era nel punto giusto al momento giusto e che occupa un appartamento vuoto tanto quanto le sue idee, non vale la pena arrabbiarsi. 
Il suo stesso comportamento era per me una condanna sufficiente. Non resta, in casi del genere, che comportarsi cortesemente, cercando di chiudere ogni contatto il prima possibile. Inutile reagire, si avvalorerebbero solo la tesi di partenza. Che incredibile arroganza, però!

Rientrato a casa, mi sono messo davanti al Pc e ho calpestato la tastiera producendo una decina di pagine di un racconto distopico. Roba hardcore, nello stile di Alan D Altieri.
Al che, mi ha colpito il nesso... La rabbia non mi aveva spinto a scrivere un articolo, non mi aveva spinto a scrivere una riflessione, una storia fantasy, un frammento mainstream. No, la rabbia mi aveva spinto a scrivere una distopia. L'ho trovato interessante: la rabbia mi aveva stimolato a scrivere di fantascienza pessimista, distopica. Tanto più che proprio qualche giorno prima riflettevo come il genere sia ormai controproducente sotto così tanti aspetti: la distopia Young Adult è un ossimoro offensivo verso le vittime reali delle dittature; come avvertimento la distopia non funziona perchè propone sempre una soluzione semplicistica; come critica del presente di solito si risolve in una generica e irrealizzabile imitazione della Nord Corea, che come stato è un “fossile”, un'eccezione.

Il mio "fantasy" (dalla rivista art nouveau Jugend, 1896)
L'associazione di un sentimento a un genere specifico non dovrebbe sorprendere. 
Ad esempio, fino agli '40 dell'Ottocento, il romanzo come forma narrativa predominante in Italia era il romanzo storico, alla Ivanhoe. La soluzione rispondeva a criteri di praticità – superare la censura della Restaurazione – offrendo nel contempo quel divertimento apprezzato sia da chi aveva combattuto per/contro Napoleone, sia dai figli che scalpitavano per combattere ancora, mentre sul versante “nazionale” permetteva di concepire l'unificazione senza realizzarla effettivamente. 
In altre parole, il romanzo storico offriva una soddisfazione a quel peculiare meccanismo psicologico per cui si desidera qualcosa nel contempo senza volerla davvero. 
I moti del '30 e il fallimento del '48 porteranno alla ribalta il romanzo contemporaneo, ma a interessarci davvero è il romanzo che prende forma dopo l'unificazione. E' infatti impressionante constatare come gli ideali del Risorgimento crollino all'improvviso, scompaiano come niente: c'è un tentativo di unificazione linguistica con a capo il toscano, ma la disillusione è forte, fortissima, almeno per come la presenta Tellini nella sua saggistica. Come va di moda tra i culturalisti oggigiorno, si potrebbe rimproverare ai romanzieri la colpa di aver fomentato un clima pessimista con le proprie opere; per chi invece ricerca una prospettiva razionale e scientifica, diventano evidenti le magagne immense di un sistema accentrato con l'unica guida della Casa Savoia, paralizzato da letali conflitti di potere e afflitto da un analfabetismo imbarazzante, a cui difficilmente potevano far fronte i libelli e i romanzetti toscani, densi di sentimentalismo e amor di patria.
E' dunque chiaro come la narrativa disperata del periodo fosse un riflesso, un prodotto delle ansie economiche, tra crack in Borsa, fallimenti della Banca Italiana e una corruzione crescente. Per ogni De Amicis abbiamo un Verga, o per lo meno un autore Scapigliato pronto a prendersi in giro, a ricercare il brutto, il grottesco, lo psicologismo rivolto all'interiorità disinteressata alle visioni eroiche del Risorgimento.

Il mio "fantasy" (dalla rivista art nouveau Jugend, 1902)
Tutta questa pappardella, per spiegarvi come sono convinto che a ogni periodo storico, a ogni decennio corrisponda un dato genere predominante, che risulta la concretizzazione delle ansie e della struttura economica del momento. In tal senso, ritengo di poter dire con sufficiente sicurezza che la fantascienza distopica, anziché preavvertire una futura distopia, sia semplicemente la conseguenza del Crack economico del 2007 e da quel momento in poi sia stata associata per circa un decennio (2007-2017) al progressivo furore di una popolazione che si riteneva a buon ragione ingannata.
Motivazioni economiche, la “pancia”, che hanno suscitato una rabbia che sua volta si è tradotta, in un clima ancora relativamente benestante, ma velocemente eroso, in una narrativa fantascientifica a carattere distopico. Il carattere di buon attivista della distopia andava d'amore e d'accordo con la gran parte dei movimenti e dei gruppi dei successivi cinque anni, da Occupy Wall Street a Podemos.
Allo stesso modo, però, dei tanti Divergent e Hunger Games, la protesta è rimasta circostanziata, spegnendosi e risolvendosi in dibattiti sterili, dove l'ossessione per una “rivoluzione dalla rete” ha presto perso ogni contatto con la Realtà, quella con la “R” maiuscola. 
Probabilmente l'elezione di Trump è stato il canto del cigno di questo modo di pensare: migliaia su migliaia di giornalisti e blogger e attivisti intenti a fare campagna dalle proprie pagine blog, facebook, twitter... dimenticando che i sostenitori del loro nemico, Drumpf, molto semplicemente non leggevano Internet e certo non leggevano i post da loro etichettati “liberali”. La prigione della Rete ha rivelato per l'ultima volta (spero), che senza un aggancio al mondo reale non produce cambiamenti. Perchè l'Agente Smith possa incarnarsi, deve passare dalla Matrice al mondo di carne e ossa, il mondo dove a una caduta corrisponde una gamba rotta. 
La fantascienza distopica in tal senso ha dato la stura alla rabbia di quegli anni, senza tuttavia preventivarne il pericolo o fornirne una minima alternativa.

Il mio "fantasy" (dalla rivista art nouveau Jugend, 1896)
In questi mesi, al di fuori della mia arrabbiatura, pensavo a un altro genere invece trascurato, ovvero il Fantasy. Non l'Urban Fantasy, o il Weird, o la fantascienza alla Star Wars, cioè fantasy con le spade laser: no, proprio il Fantasy inteso come un mondo parallelo al nostro, straordinario e terribile. Non per forza una landa medievale, però, sì, qualcosa di classico.
High Fantasy, insomma. Bene contro Male, nei limiti del kitsch.

Il lavoro sul mio saggio del Signore degli Anelli infatti mi ha rivelato una prospettiva che già sospettavo: Tolkien attingeva in profondità alle terre dove viveva. Non all'Inghilterra come nazione e nemmeno a Oxford come mondo universitario: ma alla regione dov'era nato, alle terre e ai pochi acri a lui circostanti. E' su quei ruderi celtici, su quelle montagne erose dal tempo, su quelle lande fangose dagli strani toponimi che ha estratto l'oro prezioso della sua narrativa. Gli studi, la filologia gli hanno fornito gli strumenti indispensabili per comprendere quel mondo, per dargli forma, per forgiarlo in un'arma narrativa formidabile. Senza la documentazione, partorisci un aborto. Senza uno stile di scrittura studiato e rielaborato e rivolto al lettore, non allo stronzo arrogante dentro di te, non ottieni niente di degno. 
Non c'è, almeno per me, alcun dubbio che la geografia e la bellezza del Signore degli Anelli derivino dalla comunità locale, dalla terra dove il professore abitava, da cui ha distillato gli ingredienti che più amava – lo si vede negli hobbit, ovviamente, ma anche negli uomini di Brea, o negli elfi di Granburrone.

Qui si pone il passaggio interessante: proprio perchè legato a un ambiente quasi “di famiglia”, suo e unicamente suo, non possiamo imitare Tolkien imitando il suo genere di fantasy. E' un'operazione che non ha senso: come provare sentimenti per l'infanzia di uno sconosciuto, per i ricordi a lui cari. 
Il lettore può farlo, perché s'immedesima negli hobbit; lo scrittore non può, perché non ha il “vissuto” che aveva Tolkien, perché non ha il background inglese e piccolo borghese su cui ha costruito il suo mondo.
Sarebbe un'opera da parassita, come cercare di fingere di essere qualcun'altro. Il risultato è grottesco, non ultimo perché manca, accanto a questo elemento quasi biografico, la componente di duro lavoro di scrittura e ricerca. 

Per questo motivo, nei mesi scorsi, pensavo a scrivere un Fantasy. E mentre mettevo le mani sulla tastiera continuavo a pensare come non potevo, sebbene cercassi, attingere a quel background celtico-medievale-rurale di Tolkien. Io non sono nato in campagna, non ho mai scorrazzato tra i boschi, sono una persona urbana, a suo agio nell'architettura di una solida città vittoriana, meglio art nouveau, al più modernista: i moti dell'animo di chi ama i fioruncoli e i panorami idilliaci non mi appartengono. Ho pertanto iniziato un lavoro di scandaglio interiore. Ho lentamente, dolorosamente cercato di individuare cosa amo – a livello sociale, di identità e comunità – del mondo in cui vivo. E a sua volta quale mitologia e quale leggende e quali studi filologici posso svolgerci. L'idea sarebbe di trovare per primi gli elementi positivi, stavolta; per primi gli elementi quali valori e immagini su cui poi costruire il mio mondo fantasy. Un mondo pertanto triestino, in un certo senso; bibliotecario, in un altro; burocratico e urbano in un altro ancora. Questi sono infatti gli ambienti in cui mi muovo. Da queste basi indagare quanto più approfonditamente per scovare localmente e solo localmente, gli elementi di leggenda, i mattoni lego “mitemi” con cui costruire le fondamenta di cosa voglio scrivere.

Il mio "fantasy" (dalla rivista Jugend, da cui Jugendstil, del 1902)
Perchè questo sforzo, al di là del fatto che scrivere è l'unica cosa di cui sono capace e che ironicamente è tra le abilità più inutili e superflue oggigiorno?
Ci si ricollega al discorso della distopia e alla rabbia dell'esordio. A livello infatti nazionale e personale, ritengo che la rabbia stia cedendo il passo alla semplice tristezza. Disperazione, in alcuni casi. Ma tristezza, per lo più. La gente, lo vedo in strada, lo sento in giro, è semplicemente distrutta. Al di là dei pensionati che affollano i bus e le Poste e di chi sa che il suo posto e il suo futuro sono al sicuro, mi sembra che la gran parte della popolazione sia ormai affranta, con la calma traumatizzata del reduce. C'è un limite attraverso cui puoi pompare violenza e minacce e a livello politico, sia sulla scena nazionale che internazionale, credo sia stato raggiunto. In quest'ambiente, ipotizzo che il Fantasy come genere classico tornerà a essere letto in gran numero. Non solo Young Adult, non solo ennesime contaminazioni con altri generi, ma Fantasy con la F maiuscola, Fantasy puro.

Quando la Compagnia dell'Anello uscì in sala, non erano passati che pochi mesi dall'attentato del'11 settembre 2001. Sarebbe bastato che fosse uscito a ottobre, a novembre e una popolazione ancora “stordita”, l'avrebbe ignorato e Peter Jackson si sarebbe ritrovato a spasso. Ma La Compagnia uscì a dicembre... quando le genti erano ormai tristi, ma erano uscite dallo shock. E fu un successo, perché il Fantasy è un genere che da speranza quando si è abbattuti, è un genere che nella sua forma più pura risolleva dalla disperazione.
Quando Tolkien, a sua volta, scrisse Il Signore degli Anelli, era nella Terra Desolata degli anni '40 del Novecento, dentro quell'inferno di sangue e shrapnel della Seconda Guerra Mondiale, dove solo flebili Irradiazioni come quella di Junger o dello stesso Tolkien brillavano come fragili fiammelle nel buio più cieco. Tempi tristi, tempi in cui scrivere Fantasy.

La situazione in cui ci troviamo, tranne che per pochi privilegiati, è ugualmente cupa: ritengo che per ragioni geo-politiche ci aspetti un'apocalisse, l'equivalente del ventunesimo secolo della Grande Guerra. Per questa ragione, penso che sia di nuovo scoccata l'ora per il Fantasy e per i grandi romanzi, con cui a tenere a bada l'orrore che ci aspetta.  

martedì 14 maggio 2013

Un salto in edicola (rant videoludico)


Per un motivo o per l'altro, quando una settimana fa sono giunto in edicola chiedendo l'ultimo numero di The Games Machine, mi sono improvvisamente reso conto che non acquistavo una rivista da almeno, sei mesi? Uno, due anni, non considerando qualche occasionale quotidiano, subito accartocciato nel cestino vicino alla scrivania.

Insomma, un bel po' di tempo.
Come per i libri cartacei, sarebbe ingiusto incolpare solo internet, che pure nel campo videoludico ha da tempo soppiantato le tradizionali riviste; diciamo pure che sia la mancanza di tempo che denaro aveva svolto un ruolo fondamentale. Allo sfogliare la rivista avevo sostituito il surfare i blog di turno, all'aggiornarmi sulle ultime mirabolanti anteprime su riviste come Giochi per il mio computer, ero passato a più soddisfacenti aggiornamenti in tempo reale. Insomma, è il progresso, dopotutto. 

rip in peace :-(
Una gestione ubriaca, ai limiti dell'idiotico, spesso francamente incomprensibile di molte testate avevano
completato l'avvilente quadretto: ricordo ancora con malcelata sofferenza gli ultimi mesi d'uscita di quella che un tempo era fra le mie riviste preferite, Giochi per il mio computer.
Costretta a un'anoressia di pagine sempre più forzata, continuamente storpiata dalle politiche della Sprea, inutilmente appesantita dal videogiochi (in)scatolati che proprio in quegli anni subivano la massiccia offensiva via Steam, Giochi per il mio computer era scomparso come un desaparecidos in terra messicana.

Ricordo quanto si allungassero sempre più i ritardi, fino a quando... la rivista svanì.
Come vento nel deserto. O qualcosa del genere.
Certo, lo scorpione Sprea ci aveva messo di suo un pungiglione avvelenato, nel terminare la rivista, e tuttavia leggendo gli ultimi numeri, sottrarsi da una chiara sensazione di stanchezza generale, era piuttosto difficile.

Ad ogni modo, ricordo Giochi per il mio computer con affetto. Nel valutare recensioni e anteprime spesso il giocatore-lettore si preoccupa di voti, numeri e immagini; tuttavia in Gmc c'era una cura nel linguaggio, nella costruzione delle frasi che sebbene sarebbe ardito definire raffinata era lontana dai modelli caciaroni che ora propongono- con criteri che sarebbe imbarazzante definire criteri! - youtubers dalla bocca sporca di latte (e disinformazione). Nel frattempo, impianti come Multiplayer mantengono il tradizionale assetto da sito video ludico con novità e recensioni, ma in cambio, mascherandosi dietro la facciata gratuita, rifiutano di pagare qualsiasi volenteroso freelancer.


sabato 13 aprile 2013

Bioshock Infinite, impressioni a caldo


Quello che conta in un'opera, che sia un romanzo, un fumetto, un discorso o nel nostro caso un videogioco  sono incipit e finale. Sarebbe errato affermare che quanto "sta in mezzo" è ininfluente,
ma non si può negare che molte opere mediocri vengono ravvivate e passano alla storia per un finale geniale, che capovolge in un mindfuck che nessuno mai si sarebbe immaginato un prodotto nell'insieme gradevole, ma con alcune pecche.

In Bioshock Infinite se incipit- e ancor più finale- vanno a collocarsi nell'olimpo dei videogiochi, tuttavia il grosso che c'è in mezzo spesso si rivela altalenante accostando, a una direzione artistica che non ha eguali in nessun altro media, una giocabilità spesso semplificata e leggera, in cui manca mouse alla mano la sensazione di "giocare".

Questo non è voler sminuire il titolo, tanté che su Ludomedia non ho esitato a votare il gioco con un 9.5 che non avevo mai dato, eccezion fatta per quell'opera pantagruelica che era il primo Witcher, rpg ancora una volta dalle meccaniche che spesso ai giocatori impazienti sembrano "datate", ma che rivela un finale in cui la sensazione di crescita di personaggio (e del giocatore!) resta davvero insuperata. Tutto ha una fine, affermava Neo, ma aggiungerei: pochi sanno ben orchestrarla.

Sarebbe una fatica inutile tentare di recensire il titolo; mi limiterò fatta questa breve premessa a elencare alcuni elementi che mi hanno colpito e che costituiscono, a mio giudizio, l'anima del titolo.
  • Partiamo con quanto Ken Levine sa meglio fare, ovvero "le scenette". Le scenette non sono né cutscene né tanto meno porzioni fondamentali di trama&gameplay; tuttavia aggiungono quel "qualcosa" che davvero ti fornisce l'impressione di calarti in un altro mondo, un altro universo con le sue regole... E i suoi pericoli.

    Ecco una coppia americana seguace di Padre Comstock che discute sugli ultimi attentati della Vox populi; ecco due bambini che giocano a schizzarsi con l'acqua di un idrante rotto; ecco una fanciulla che ti offre un biglietto per un'estrazione a sorte, col tuo avatar che scioccamente subito accetta...

    Columbia diventa con Levine un "Teatro vivente" che a ogni sguardo, 
    ogni occhiata svela carattere (e cattiveria) dei suoi abitanti.
    Spesso, infatti, la funzione delle scenette è un asciutto Show don't tell di natura morale,
    dove vediamo i soprusi del potere consumarsi sulle carni degli innocenti.
    Nel capitolo dove il protagonista Dewitt scende nelle viscere industriali della città,
    Levine offre i migliori esempi di questo "teatro morale" con lancinanti scene dal sapore Dickensiano.

    Anche se in effetti le condizioni lavorative Americane erano
    un filino peggiori di quelle inglesi...

lunedì 1 aprile 2013

Cuore dell'Impero (Bryan Talbot)


Cuore dell'impero è quel genere di fumetto che può venire classificato con difficoltà.
Le più vecchie recensioni si calano con sicurezza nell'etichetta di fantascienza, nella wikipedia più recente viene classificata come ucronia vittoriana, nostalgico controverso inno all'impero britannico.

Io, dal mio canto, definirei Cuore dell'Impero come un'opera Storica, che richiede al lettore un'attenzione e una conoscenza della storia inglese notevoli, a partire dalle premesse, imperniate sulla reggenza di Cromwell, verso la metà del seicento.
Impaludate le vesti di lord Protettore, iniziò una dittatura precocemente spenta dalla sua morte, che permise l'instaurarsi della dinastia Stuart. L'abolizione della dittatura cromwelliana coincise con un esodo di massa di puritani e oppositori, che andranno a costituire il nucleo essenziale degli Stati Uniti. E' forse ardito, ma si può dire che senza quella linfa vitale e messianica dei padri missionari e dei puritani difficilmente il continente americano sarebbe stato colonizzato con tanta rapidità e pragmatica efficienza.

Nell'ucronia di Bryan Talbot succede il contrario: Cromwell riesce a trasmettere il potere ai figli, ed è solo diversi secoli più tardi che una rivoluzione monarchica riporta sul trono i suoi legittimi eredi.
Il danno intanto, è fatto; gli Stati Uniti sono ancora piccole colonie oltreoceano, mentre l'impero britannico si è allargato a occupare Europa e Asia, giungendo a competere come macropotenza solo con una Russia "comunarda" che rimane sullo sfondo e con diversi staterelli frammentati.

Londra, intanto è diventata una metropoli steampunk ipertrofica e gigante, dove una moda neo-vittoriana-elisabettiana-restauratrice si accompagna a braccetto con odii razziali, patriottistimo idiota e sorde proteste di masse di poveri.

Alan Moore- sì di nuovo lui- consiglia Cuore dell'impero definendolo un'opera ancora al passo con i tempi, che anzi li supera, sia nella storia che nell'uso dell'inquadrature, impressione che confermo: sembra di leggere un fumetto all'avanguardia, quasi sperimentale.

I dialoghi affilati come rasoi arredano una complicata struttura a chiocciola di rimandi e flash back, che vengono a costruire un'opera ipertrofica, che propone una storia che non concede al lettore stanchezze o esitazioni. I diversi piani temporali vengono volutamente confusi, incrociati in complicati arabeschi di citazioni e riferimenti alla cultura britannica, al New age, alle religioni orientali. C'è anche un bel po' di brutalità, di sesso (nei fumetti consigliati da Moore è una costante, lol) e qualche tocco splatter.

Di fronte alla merda superoistica che invade gli scaffali librari, ravvivata nei migliori dei casi da qualche esperimento di crossover- ma sempre all'interno dei canoni "facili" di Marvel & DC- l'opera di Bryan Talbot spicca per dinamismo e coraggio.

E' triste che un fumetto degli anni novanta "osi" più dei fumetti odierni, dove se non cacci in gola la pappa pronta al lettore sei automaticamente "fuori". Dove se non tratti strisce umoristiche e/o con il solito Uber Mensch che salva il sacro potere capitalista americano, non ricevi ne fondi, ne lettori.

Ma diamo un'occhiata ai personaggi.

venerdì 30 novembre 2012

Pipe of the week (6)



" I hated Tobacco. I could have almost lent my support to any institution that had for its object the putting of Tobacco smokers to death... I now feel that smoking in moderation is a confortable and laudable practice, and is productive of good. There is no more harm in a pipe than in a cup of tea. You may poison yourself by drinking too much green tea, and kill yourself by eating too many beefsteacks. For my part, I consider that tobacco, in moderation, is a sweetener and equalizer of the temper."
- Thomas Henry Huxley