Lo scorso autunno avevo tratto da un
vecchio numero del National Geographic un breve articolo sul Giappone durante le Olimpiadi del 1964, cercando di trasmettere almeno un
pizzico della grandiosità del boom economico nipponico.
Un anno dopo, ritorniamo sull'argomento
con un brusco salto temporale: per un bizzarro colpo di fortuna, la
mia rigatteria preferita ha ricevuto un nuovo carico di National
Geographic, stavolta squisitamente anni novanta.
“Il sole del Giappone sorge sul
Pacifico” costituisce un lungo reportage sull'espansione culturale
e commerciale giapponese attraverso l'intero Sud Est asiatico, la
Cina, la Corea, fin fine all'Australia e alla costa occidentale degli
Stati Uniti.
Il giornalista, Arthur Zich, è un
fedele facsimile di quel William Graves che nel 1964 esplorava Tokyo:
fortemente critico, preoccupato, altresì parecchio razzista.
Come nel 64' il giornalista guardava al
Giappone in bilico tra l'ammirazione e la sensazione eccentrica di
vedere uno distorto specchio della società americana, così nel 91'
un incredulo americano intervista boccheggiante un'espansione che non
sembra conoscere né morale, né limiti.
Dalla ricostruzione negli anni
cinquanta, allo slancio industriale nel sessanta, dall'Olimpiadi di
Tokyo, alla costruzione del treno-proiettile Shinkansen,
dall'eccezionale crescita in un periodo di crisi quale gli anni
Settanta, al boom mostruoso dell'elettronica e dei chip nei
reaganiani anni ottanta...
Il Giappone approdava nel 1991 colmo di
benessere, e mai così squilibrato tra il suo effettivo possesso
territoriale di poche isolette e il suo mostruoso potere finanziario.
Dalla rassegna, non è difficile capire
perchè per un osservatore di allora il Giappone sembrasse tra le maggiori potenze leader. C'erano tutte le ragioni, esposte nei
decenni precedenti, per continuare a credere che il Giappone
costituisse il Futuro, con la F maiuscola.
Un futuro intrecciato a incomprensibili
tradizioni che nessun gaijin avrebbe mai compreso, un futuro di
suicidi e drogati di straordinari, di Corporazioni e monopolii, di
inquinamento e cementificazione; ma pur sempre il futuro.
Non a caso, Blade Runner ripropone
proprio questa mescolanza di vecchio e nuovo, nel suo vero
protagonista, la città: vecchie usanze, aggeggi vintage e
tecnologie da urlo si fondono per descrivere più che il futuro, un
retrofuturo per come allora lo immaginavano.
Logicamente, per noi storici e uomini
del duemila, il tracollo economico del Giappone dalla seconda metà
degli anni novanta risulta qualcosa di ovvio, di inevitabile: si
capisce senza difficoltà, come il Giappone campasse in realtà di
rendita dagli anni sessanta e ottanta.
L'esercito di impiegati che aveva
permesso la ricostruzione aveva prodotto una generazione meno
masochista, meno indotta al sacrificio. Una generazione che
pretendeva finalmente del tempo libero, e turni meno massacranti.
Il sistema patriarcale cedeva a un
disperato edonismo, che sfilacciava relazioni e amicizie, mentre le
donne giapponesi cercavano di sfuggire alla trappola di un matrimonio
precoce e i giovani preferivano una gratificazione immediata alle
prospettive di una lunga&estenuante carriera.
Lo yen, pompato oltre i suoi normali
standard, si sarebbe sommato a una crisi nel sistema immobiliare e
tutti questi sintomi sarebbero scoppiati in un bubbone di povertà.
Le condizioni di un meritato crollo,
per un effetto congiunto sia di motivazioni finanziarie che sociali
abbondavano: tuttavia, se tralasciamo l'efficace descrizione
dell'edonismo giapponese nato negli anni ottanta, il reporter non
avverte alcun tremore del terremoto economico che minacciava la
società giapponese.
Così Arthur Zich descrive le
conseguenze dell'accordo del 1985, che propose assieme a diverse
nazioni di svalutare il dollaro e rinforzare le valute stranire, per
aiutare gli Stati Uniti a ridurre un cospicuo deficit.
Tra le diverse valute straniere, lo yen
divenne straordinariamente potente:
Il potere di acquisto dello yen raddoppiò.
Il guadagno pro capite dello yen arrivò a 17500 dollari all'anno – tra i più alti al mondo.
Il valore della terra schizzò alle stelle.
Un metro quadrato di terreno nel centro di Tokyo si vendeva a 2000 dollari; una semplice casetta in legno per 1 milione e mezzo di dollari.
L'agenzia di Pianificazione Economica del Giappone calcolava che il valore della nazione in se, della grandezza approssimativa della California, intero arcipelago compreso, era quattro volte maggiore che quella degli Stati Uniti.
Lo Yen uscì dal Giappone con la forza di uno Tsunami - verso gli Usa, l'Europa e il resto dell'Asia. Il Giappone divenne la più grande agenzia di credito.
E poi la più grande donatrice di aiuti umanitari.
E poi tra le più grandi investitrici straniere.
Nel 1986 gli investitori giapponesi hanno pompato 21 bilioni di dollari in possedimenti oltremare; nel 1988, hanno investito altri 47 milioni. Nel 1989 gli investimenti diretti oltremare del Giappone sono aumentati, ancora, di altri 67,5 bilioni di dollari - rendendola terza tra i più grandi investitori mondiali.
Oggi, il Giappone, con una popolazione inferiore alla metà degli Stati Uniti, gestisce un'economia di due terzi più grande, e ancora in crescita.
Possiamo notare, nell'estratto
tradotto, l'identico feticismo per numeri e statistiche che pervadeva
il reportage del 1964. L'espansione è inarrestabile, mamma aiuto
aiuto, sono arrivati i musi gialli.
Una trionfale dichiarazione di un
economista e scienziato politico Daniel. I. Okimoto della Stanford
University conferma il trend:
La vecchia immagine delle fabbriche asiatiche che producono prodotti convenienti e di cattiva qualità è ormai scomparsa (...) L'Asia è diventata tra i leader nella manifatturazione – e il Giappone è la locomotiva che la traina nel futuro.
Quando il reporter viaggia in Asia per
documentare di prima mano questa incredibile ascesa economica, non
può che partire dalla capitale mondo, Tokyo.
Un amico giapponese gli descrive
l'attuale situazione con lo stesso orgoglio che riscontriamo
nell'articolo del 1964:
Tokyo è come una pila nucleare. L'esterno continua a premere per entrare. Il centro cresce invece sempre più denso, densissimo. Si crea così un calore e un'energia straordinari – e il risultato sono soldi. I giapponesi hanno compresso un'economia delle dimensioni della Francia in sole 783 miglia quadrate (2027 chilometri quadrati). E' come ficcare tutte le funzioni di Washington D. C., Los Angeles e New York in un'unica città americana.
La foto di un abbacchiato impiegato
occupa a questo punto dell'articolo un'intera pagina. Le spalle sono
cascanti, una sigaretta gli pende dalle labbra. Fissa con le
sopracciglia depresse quanto possiamo intravedere come lo schermo di
un computer. Si chiama Michiro Urano, della Daiwa Securities: come
molti altri è stato gravemente danneggiato da un calo delle azioni
legato a una catena di corruzioni e “maneggi” da poco scoperti
nella Borsa giapponese.
Era in questo frangente, che Arthur
Zich avrebbe potuto intuire quale disastro aspettasse il popolo
giapponese. Ma il reporter liquida l'avvenimento
con una didascalia scarna, e muove avanti, considerando l'evento
marginale.
Se la finanza viene ignorata, Arthur
Zich comprende se non altro il dilemma generazionale che affronta il
popolo giapponese. Se la generazione degli anni cinquanta si era
gettata animo e corpo nella ricostruzione dello Stato distrutto, e se
la generazione degli anni sessanta s'era ammalata di superlavoro, la
nuova generazione appare invece bulimica, intenta per la prima volta
nella storia del Giappone a ricercare un edonismo personale e
individuale, piuttosto che un sacrificio al servizio della comunità.
A questo proposito l'autore cita una
dichiarazione di Hidehiko Sekizawa, direttore esecutivo dell'Istituto
della Vita e del Vivere, un importante pensatore delle nuove
tendenze:
La generazione del dopoguerra – la generazione dei Beatles – erano drogati di lavoro, ma si stanno chiedendo perchè. I giovani? Sono i shinjinrui – la nuova razza umana. Non sanno cosa voglia dire essere poveri. E sono la più ricca generazione nella storia del Giappone.
New human race... Suona
decisamente nietzschiano, per una generazione che al di fuori dei
videogiochi e di un piacere nato dagli anni ottanta ha offerto ben
poco alla storia dell'uomo.
On passant, mentre lo yen
inondava i mercati occidentali, l'autore annota divertito in una
didascalia una strana superstizione: un'auto nuova fiammante viene
benedetta da un prete shintoista per assicurare al possessore
“un'assicurazione divina”. Pratiche diffuse fin nel cuore delle
multinazionali giapponesi, e considerate fondamentali sia dai
dirigenti che contrattavano con le potenze occidentali, sia dai più
poveri abitanti delle province settentrionali.
A voler infierire, il reporter si
sofferma sui nuovi parchi giochi costruiti in quegli anni a Ginza.
Frequentati più da singoli adulti che dalle famiglie, offrono
all'affamato cittadino giapponese sensazioni ed esperienze simulate a
buon mercato.
Commenta con un sorrisetto Kyoichi
Iwahori, uno dei responsabili:
Noi giapponesi vogliamo tutto e lo vogliamo ora. Ma non abbiamo nè il tempo, nè lo spazio.
Sovraffollati sulle isole e sempre più
in difficoltà a trovare lavori “umili” a buon mercato, le
imprese giapponesi cominciano dagli anni ottanta ciclopici
investimenti all'estero, rilocandosi nel Sud est Asiatico.
Con tono
paternalista, Mamoru Tabuchi, uno dei responsabili della
Mitsui&Company in Thailandia, commenta:
Considero le nazioni del Sud Est Asiatico a quei vari stadi a cui si trovava il Giappone nel momento in cui uscì dalla guerra (...) Una nazione che cerca d'industrializzarsi deve avere una popolazione piuttosto grande, stabilità politica, gente disposta a lavorare duro e a migliorare i loro standard di vita. La Thailandia lo fa. E mi aspetto che quant'è successo in Giappone, succederà in Thailandia.
Eccetto che non è successo, osserva
caustico Arthur Zich. E io aggiungerei: non è nemmeno successo nella
seconda metà degli anni novanta, così come non è successo nel
duemila.
Condivido con il reporter le paure nei
confronti dell'invasione giapponese del Sud Asiatico. Una cartina
sottomano, possiamo seguire la rilocalizzazione delle aziende
giapponesi, constatando stupiti come ricalchi nei dettagli il piano
di espansione coloniale attuato con tale ferrea determinazione nella
seconda guerra mondiale. Mentre i ricordi dell'occupazione nipponica
svanivano con le ultime anziane generazioni, i giapponesi tornavano:
ma stavolta con televisori, auto e posti di lavoro, anziché fucili e
assalti kamikaze.
Massicce esportazioni verso
l'Australia, Nuova Zelanda, la Nuova Guinea, le Filippine,
l'Indonesia tutta, la Thailandia, la Cina, Singapore, Sud Corea,
Taiwan, Cambogia, Vietnam, Bangladesh, Burma, Hong Kong, Oceania,
Shangai, Laos, Cambogia, Malesia...
Nulla di male! Semplicemente, i
giapponesi applicavano quell'identica tattica di colonizzazione
culturale ed economica che avevano imparato loro malgrado
dall'americanizzazione subita dagli Usa nel 50'. Ma come sempre, se a
farlo sono gli americani, tutto è lecito; se a farlo sono un piccolo
popolo asiatico, si tratta di una malvagia operazione di distruzione
dell'identità locale.
Tra le diverse nazioni minacciate
dall'aggressività nipponica, l'Australia merita un capitolo a parte.
Un'identità nazionale per alcuni versi
ancora immatura, legata più alla prima guerra mondiale che agli
novanta si unisce a una fase stagnante dell'economia.
Chiaramente gli
australiani odiavano i giapponesi, ma nel tempo stesso le offerte di
aiuto e contratti che proponevano risultavano irresistibili.
Per certi versi, e gli esperti mi
perdoneranno il paragone, l'Australia di quegli anni ricorda la
Russia contemporanea: un'economia disastrata sopravvive però grazie
a immense risorse naturali, che le permettono di “galleggiare”
nello scenario economico mondiale, senza però produrre alcunché.
Carbone, petrolio e gas sono fantastiche basi per l'economia, fino a
quando non terminano.
Se non altro, il ministro per
l'Industria, Economia e Commercio dell'Australia, il senatore John
Button, non ha peli sulla lingua, nel parlare della sua gente:
Siamo una nazione con ambizioni da Primo Mondo e un economia da Terzo Mondo. Per vent'anni gli stati asiatici hanno lavorato sulle loro economie, e ora stanno iniziando ad avere un loro stile di vita. Durante tutto quel tempo noi abbiamo lavorato sul nostro stile di vita – e appena adesso abbiamo iniziato a lavorare sulla nostra economia.
Se dapprima negli anni sessanta le
esportazioni dell'Australia verso il Giappone constano del
tradizionale commercio del bestiame, dagli anni ottanta irresistibili
offerte commerciali portano l'Australia a vendere metà della sua
intera produzione di carbone annuale al Giappone.
Se ciò permette all'Australia profitti
sul breve termine, dall'altro c'è un limite a cui le infrastrutture
australiane possono esser spinte: prima che subentrino aziende
giapponesi e “colonizzino” l'intero apparato minerario.
Chris Rawling , uno dei direttori dei
consorzi di miniere australiane, dichiara infatti:
Siamo il più efficace distributore di carbone al mondo. Ma i giapponesi dicono, dovete diventare più efficienti e passare a noi i profitti. Andranno da una miniera in difficoltà e gli diranno che aumenteranno le tonnellate d'acquistare se abbassano il prezzo. Ma altrimenti, ti mostreranno l'altra faccia della moneta e ti avvertiranno che se non abbassiamo i prezzi ridurranno le tonnellate preventivate per l'acquisto. Possiamo diventare più efficienti, ma siamo stretti con gli utili. I costi aumentano, ma non i profitti. (…) Cosa dovremmo fare? Se non fosse per i giapponesi non saremmo nemmeno qui.
La rilocalizzazione, gli investimenti e
l'influenza giapponese continuano per il resto dell'articolo,
indagando in particolare la Malesia e la già nominata Thailandia.
Come ammette Arthur Zich stesso,
accanto all'industrializzazione rampante, sono anche giapponesi i
principali progetti ambientalisti, in particolare riforestazioni e
strade più efficienti.
Tuttavia, nonostante queste note
positive, la conclusione dell'articolo è talmente lugubre che merita
una traduzione integrale:
All'improvviso, da sopra il baccano, venne un suono acuto, un beep beep a cui seguì un urlato “Moshi moshi!” - l'equivalente giapponese per “Pronto!”. Per un istante sedetti meravigliato e incredulo. Quindi curvandomi verso il sedile di fronte, vidi le mie paure e le mie angosce confermate. Un mercante giapponese di alberi di legname, in un golfino e jeans Calvin Klein, stava chiamando il suo ufficio da un telefono cellulare.
Fonti:
Per le parti tradotte vale come sempre
il buon senso di quanto avverto nella biografia.
National Geographic, vol. 180, no. 5,
november 1991, Japan's Sun rises over the Pacific. Articolo di Arthur
Zich e fotografie di Karen Kasmauski.
2 commenti:
Sono giorni che provo a commentare questo post, ma per un motivo o un altro non riesco.
E' stato molto interessante leggere questa analisi. Penso a tutti noi ragazzini di quegli anni che sognavamo il Giappone leggendo manga e guardando film... Proprio quel Giappone in decadenza.
@Marco Grande Arbitro
Beh, non è sempre obbligatorio commentare un post... A volte basta la condivisione! :-D
Dipende molto da cosa intendi per "decadenza".
Erano prossimi a una crisi finanziaria, il che non vuol dire che dal punto di vista culturale il Giappone fosse stagnante.
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