martedì 13 ottobre 2015

Il tramonto del Sol Levante: il Giappone negli anni Novanta (National Geographic)


Lo scorso autunno avevo tratto da un vecchio numero del National Geographic un breve articolo sul Giappone durante le Olimpiadi del 1964, cercando di trasmettere almeno un pizzico della grandiosità del boom economico nipponico.
Un anno dopo, ritorniamo sull'argomento con un brusco salto temporale: per un bizzarro colpo di fortuna, la mia rigatteria preferita ha ricevuto un nuovo carico di National Geographic, stavolta squisitamente anni novanta.

“Il sole del Giappone sorge sul Pacifico” costituisce un lungo reportage sull'espansione culturale e commerciale giapponese attraverso l'intero Sud Est asiatico, la Cina, la Corea, fin fine all'Australia e alla costa occidentale degli Stati Uniti.
Il giornalista, Arthur Zich, è un fedele facsimile di quel William Graves che nel 1964 esplorava Tokyo: fortemente critico, preoccupato, altresì parecchio razzista.
Come nel 64' il giornalista guardava al Giappone in bilico tra l'ammirazione e la sensazione eccentrica di vedere uno distorto specchio della società americana, così nel 91' un incredulo americano intervista boccheggiante un'espansione che non sembra conoscere né morale, né limiti.
Dalla ricostruzione negli anni cinquanta, allo slancio industriale nel sessanta, dall'Olimpiadi di Tokyo, alla costruzione del treno-proiettile Shinkansen, dall'eccezionale crescita in un periodo di crisi quale gli anni Settanta, al boom mostruoso dell'elettronica e dei chip nei reaganiani anni ottanta... 
Il Giappone approdava nel 1991 colmo di benessere, e mai così squilibrato tra il suo effettivo possesso territoriale di poche isolette e il suo mostruoso potere finanziario.

Dalla rassegna, non è difficile capire perchè per un osservatore di allora il Giappone sembrasse tra le maggiori potenze leader. C'erano tutte le ragioni, esposte nei decenni precedenti, per continuare a credere che il Giappone costituisse il Futuro, con la F maiuscola.
Un futuro intrecciato a incomprensibili tradizioni che nessun gaijin avrebbe mai compreso, un futuro di suicidi e drogati di straordinari, di Corporazioni e monopolii, di inquinamento e cementificazione; ma pur sempre il futuro.
Non a caso, Blade Runner ripropone proprio questa mescolanza di vecchio e nuovo, nel suo vero protagonista, la città: vecchie usanze, aggeggi vintage e tecnologie da urlo si fondono per descrivere più che il futuro, un retrofuturo per come allora lo immaginavano.

Logicamente, per noi storici e uomini del duemila, il tracollo economico del Giappone dalla seconda metà degli anni novanta risulta qualcosa di ovvio, di inevitabile: si capisce senza difficoltà, come il Giappone campasse in realtà di rendita dagli anni sessanta e ottanta.
L'esercito di impiegati che aveva permesso la ricostruzione aveva prodotto una generazione meno masochista, meno indotta al sacrificio. Una generazione che pretendeva finalmente del tempo libero, e turni meno massacranti.
Il sistema patriarcale cedeva a un disperato edonismo, che sfilacciava relazioni e amicizie, mentre le donne giapponesi cercavano di sfuggire alla trappola di un matrimonio precoce e i giovani preferivano una gratificazione immediata alle prospettive di una lunga&estenuante carriera.
Lo yen, pompato oltre i suoi normali standard, si sarebbe sommato a una crisi nel sistema immobiliare e tutti questi sintomi sarebbero scoppiati in un bubbone di povertà.

Le condizioni di un meritato crollo, per un effetto congiunto sia di motivazioni finanziarie che sociali abbondavano: tuttavia, se tralasciamo l'efficace descrizione dell'edonismo giapponese nato negli anni ottanta, il reporter non avverte alcun tremore del terremoto economico che minacciava la società giapponese.


Così Arthur Zich descrive le conseguenze dell'accordo del 1985, che propose assieme a diverse nazioni di svalutare il dollaro e rinforzare le valute stranire, per aiutare gli Stati Uniti a ridurre un cospicuo deficit.
Tra le diverse valute straniere, lo yen divenne straordinariamente potente:
Il potere di acquisto dello yen raddoppiò.
Il guadagno pro capite dello yen arrivò a 17500 dollari all'anno – tra i più alti al mondo.
Il valore della terra schizzò alle stelle.
Un metro quadrato di terreno nel centro di Tokyo si vendeva a 2000 dollari; una semplice casetta in legno per 1 milione e mezzo di dollari.
L'agenzia di Pianificazione Economica del Giappone calcolava che il valore della nazione in se, della grandezza approssimativa della California, intero arcipelago compreso, era quattro volte maggiore che quella degli Stati Uniti.
Lo Yen uscì dal Giappone con la forza di uno Tsunami - verso gli Usa, l'Europa e il resto dell'Asia. Il Giappone divenne la più grande agenzia di credito.
E poi la più grande donatrice di aiuti umanitari.
E poi tra le più grandi investitrici straniere.
Nel 1986 gli investitori giapponesi hanno pompato 21 bilioni di dollari in possedimenti oltremare; nel 1988, hanno investito altri 47 milioni. Nel 1989 gli investimenti diretti oltremare del Giappone sono aumentati, ancora, di altri 67,5 bilioni di dollari - rendendola terza tra i più grandi investitori mondiali.
Oggi, il Giappone, con una popolazione inferiore alla metà degli Stati Uniti, gestisce un'economia di due terzi più grande, e ancora in crescita.

Possiamo notare, nell'estratto tradotto, l'identico feticismo per numeri e statistiche che pervadeva il reportage del 1964. L'espansione è inarrestabile, mamma aiuto aiuto, sono arrivati i musi gialli.
Una trionfale dichiarazione di un economista e scienziato politico Daniel. I. Okimoto della Stanford University conferma il trend:
La vecchia immagine delle fabbriche asiatiche che producono prodotti convenienti e di cattiva qualità è ormai scomparsa (...) L'Asia è diventata tra i leader nella manifatturazione – e il Giappone è la locomotiva che la traina nel futuro.

Quando il reporter viaggia in Asia per documentare di prima mano questa incredibile ascesa economica, non può che partire dalla capitale mondo, Tokyo.
Un amico giapponese gli descrive l'attuale situazione con lo stesso orgoglio che riscontriamo nell'articolo del 1964:
Tokyo è come una pila nucleare. L'esterno continua a premere per entrare. Il centro cresce invece sempre più denso, densissimo. Si crea così un calore e un'energia straordinari – e il risultato sono soldi. I giapponesi hanno compresso un'economia delle dimensioni della Francia in sole 783 miglia quadrate (2027 chilometri quadrati). E' come ficcare tutte le funzioni di Washington D. C., Los Angeles e New York in un'unica città americana.

La foto di un abbacchiato impiegato occupa a questo punto dell'articolo un'intera pagina. Le spalle sono cascanti, una sigaretta gli pende dalle labbra. Fissa con le sopracciglia depresse quanto possiamo intravedere come lo schermo di un computer. Si chiama Michiro Urano, della Daiwa Securities: come molti altri è stato gravemente danneggiato da un calo delle azioni legato a una catena di corruzioni e “maneggi” da poco scoperti nella Borsa giapponese.
Era in questo frangente, che Arthur Zich avrebbe potuto intuire quale disastro aspettasse il popolo giapponese. Ma il reporter liquida l'avvenimento con una didascalia scarna, e muove avanti, considerando l'evento marginale.


Se la finanza viene ignorata, Arthur Zich comprende se non altro il dilemma generazionale che affronta il popolo giapponese. Se la generazione degli anni cinquanta si era gettata animo e corpo nella ricostruzione dello Stato distrutto, e se la generazione degli anni sessanta s'era ammalata di superlavoro, la nuova generazione appare invece bulimica, intenta per la prima volta nella storia del Giappone a ricercare un edonismo personale e individuale, piuttosto che un sacrificio al servizio della comunità.
A questo proposito l'autore cita una dichiarazione di Hidehiko Sekizawa, direttore esecutivo dell'Istituto della Vita e del Vivere, un importante pensatore delle nuove tendenze:
La generazione del dopoguerra – la generazione dei Beatles – erano drogati di lavoro, ma si stanno chiedendo perchè. I giovani? Sono i shinjinrui – la nuova razza umana. Non sanno cosa voglia dire essere poveri. E sono la più ricca generazione nella storia del Giappone.

New human race... Suona decisamente nietzschiano, per una generazione che al di fuori dei videogiochi e di un piacere nato dagli anni ottanta ha offerto ben poco alla storia dell'uomo.

On passant, mentre lo yen inondava i mercati occidentali, l'autore annota divertito in una didascalia una strana superstizione: un'auto nuova fiammante viene benedetta da un prete shintoista per assicurare al possessore “un'assicurazione divina”. Pratiche diffuse fin nel cuore delle multinazionali giapponesi, e considerate fondamentali sia dai dirigenti che contrattavano con le potenze occidentali, sia dai più poveri abitanti delle province settentrionali.

A voler infierire, il reporter si sofferma sui nuovi parchi giochi costruiti in quegli anni a Ginza. Frequentati più da singoli adulti che dalle famiglie, offrono all'affamato cittadino giapponese sensazioni ed esperienze simulate a buon mercato.
Commenta con un sorrisetto Kyoichi Iwahori, uno dei responsabili:
Noi giapponesi vogliamo tutto e lo vogliamo ora. Ma non abbiamo nè il tempo, nè lo spazio.

Sovraffollati sulle isole e sempre più in difficoltà a trovare lavori “umili” a buon mercato, le imprese giapponesi cominciano dagli anni ottanta ciclopici investimenti all'estero, rilocandosi nel Sud est Asiatico. 

“Un uomo d'affari giapponese si lascia andare cantando una canzone in un bar di Bangokok specializzato nella novità del Karaoke. La moda di cantare una musica registrata è l'ultima, ma certo non la prima delle tantissime mode giapponesi adottate da una Thailandia entusiasta.”
Con tono paternalista, Mamoru Tabuchi, uno dei responsabili della Mitsui&Company in Thailandia, commenta:
Considero le nazioni del Sud Est Asiatico a quei vari stadi a cui si trovava il Giappone nel momento in cui uscì dalla guerra (...) Una nazione che cerca d'industrializzarsi deve avere una popolazione piuttosto grande, stabilità politica, gente disposta a lavorare duro e a migliorare i loro standard di vita. La Thailandia lo fa. E mi aspetto che quant'è successo in Giappone, succederà in Thailandia.

Eccetto che non è successo, osserva caustico Arthur Zich. E io aggiungerei: non è nemmeno successo nella seconda metà degli anni novanta, così come non è successo nel duemila.
Condivido con il reporter le paure nei confronti dell'invasione giapponese del Sud Asiatico. Una cartina sottomano, possiamo seguire la rilocalizzazione delle aziende giapponesi, constatando stupiti come ricalchi nei dettagli il piano di espansione coloniale attuato con tale ferrea determinazione nella seconda guerra mondiale. Mentre i ricordi dell'occupazione nipponica svanivano con le ultime anziane generazioni, i giapponesi tornavano: ma stavolta con televisori, auto e posti di lavoro, anziché fucili e assalti kamikaze.
Massicce esportazioni verso l'Australia, Nuova Zelanda, la Nuova Guinea, le Filippine, l'Indonesia tutta, la Thailandia, la Cina, Singapore, Sud Corea, Taiwan, Cambogia, Vietnam, Bangladesh, Burma, Hong Kong, Oceania, Shangai, Laos, Cambogia, Malesia...
Nulla di male! Semplicemente, i giapponesi applicavano quell'identica tattica di colonizzazione culturale ed economica che avevano imparato loro malgrado dall'americanizzazione subita dagli Usa nel 50'. Ma come sempre, se a farlo sono gli americani, tutto è lecito; se a farlo sono un piccolo popolo asiatico, si tratta di una malvagia operazione di distruzione dell'identità locale.

Tra le diverse nazioni minacciate dall'aggressività nipponica, l'Australia merita un capitolo a parte.
Un'identità nazionale per alcuni versi ancora immatura, legata più alla prima guerra mondiale che agli novanta si unisce a una fase stagnante dell'economia. 
Chiaramente gli australiani odiavano i giapponesi, ma nel tempo stesso le offerte di aiuto e contratti che proponevano risultavano irresistibili.

Per certi versi, e gli esperti mi perdoneranno il paragone, l'Australia di quegli anni ricorda la Russia contemporanea: un'economia disastrata sopravvive però grazie a immense risorse naturali, che le permettono di “galleggiare” nello scenario economico mondiale, senza però produrre alcunché. Carbone, petrolio e gas sono fantastiche basi per l'economia, fino a quando non terminano.

Se non altro, il ministro per l'Industria, Economia e Commercio dell'Australia, il senatore John Button, non ha peli sulla lingua, nel parlare della sua gente:
Siamo una nazione con ambizioni da Primo Mondo e un economia da Terzo Mondo. Per vent'anni gli stati asiatici hanno lavorato sulle loro economie, e ora stanno iniziando ad avere un loro stile di vita. Durante tutto quel tempo noi abbiamo lavorato sul nostro stile di vita – e appena adesso abbiamo iniziato a lavorare sulla nostra economia.

Se dapprima negli anni sessanta le esportazioni dell'Australia verso il Giappone constano del tradizionale commercio del bestiame, dagli anni ottanta irresistibili offerte commerciali portano l'Australia a vendere metà della sua intera produzione di carbone annuale al Giappone.
Se ciò permette all'Australia profitti sul breve termine, dall'altro c'è un limite a cui le infrastrutture australiane possono esser spinte: prima che subentrino aziende giapponesi e “colonizzino” l'intero apparato minerario.
Chris Rawling , uno dei direttori dei consorzi di miniere australiane, dichiara infatti:
Siamo il più efficace distributore di carbone al mondo. Ma i giapponesi dicono, dovete diventare più efficienti e passare a noi i profitti. Andranno da una miniera in difficoltà e gli diranno che aumenteranno le tonnellate d'acquistare se abbassano il prezzo. Ma altrimenti, ti mostreranno l'altra faccia della moneta e ti avvertiranno che se non abbassiamo i prezzi ridurranno le tonnellate preventivate per l'acquisto. Possiamo diventare più efficienti, ma siamo stretti con gli utili. I costi aumentano, ma non i profitti. (…) Cosa dovremmo fare? Se non fosse per i giapponesi non saremmo nemmeno qui.

La rilocalizzazione, gli investimenti e l'influenza giapponese continuano per il resto dell'articolo, indagando in particolare la Malesia e la già nominata Thailandia.
Come ammette Arthur Zich stesso, accanto all'industrializzazione rampante, sono anche giapponesi i principali progetti ambientalisti, in particolare riforestazioni e strade più efficienti.
Tuttavia, nonostante queste note positive, la conclusione dell'articolo è talmente lugubre che merita una traduzione integrale:
All'improvviso, da sopra il baccano, venne un suono acuto, un beep beep a cui seguì un urlato “Moshi moshi!” - l'equivalente giapponese per “Pronto!”. Per un istante sedetti meravigliato e incredulo. Quindi curvandomi verso il sedile di fronte, vidi le mie paure e le mie angosce confermate. Un mercante giapponese di alberi di legname, in un golfino e jeans Calvin Klein, stava chiamando il suo ufficio da un telefono cellulare.

“Questa canzone è per te, Thailandia. Mentre una cantante inizia un nuovo brano, una compagnia giapponese mostra una tv a colori in una cittadina di recente passata all'elettricità. Con milioni di potenziali clienti da soddisfare, gli imprenditori giapponesi seguono la (lucrosa e illuminata) strada dei kilowatt...”
Fonti:
Per le parti tradotte vale come sempre il buon senso di quanto avverto nella biografia.

National Geographic, vol. 180, no. 5, november 1991, Japan's Sun rises over the Pacific. Articolo di Arthur Zich e fotografie di Karen Kasmauski.  

2 commenti:

Marco Grande Arbitro ha detto...

Sono giorni che provo a commentare questo post, ma per un motivo o un altro non riesco.
E' stato molto interessante leggere questa analisi. Penso a tutti noi ragazzini di quegli anni che sognavamo il Giappone leggendo manga e guardando film... Proprio quel Giappone in decadenza.

Coscienza ha detto...

@Marco Grande Arbitro
Beh, non è sempre obbligatorio commentare un post... A volte basta la condivisione! :-D

Dipende molto da cosa intendi per "decadenza".
Erano prossimi a una crisi finanziaria, il che non vuol dire che dal punto di vista culturale il Giappone fosse stagnante.