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martedì 27 ottobre 2015

I miei due cent su Disney, Star Wars e il risveglio del merchandising


Qualche giorno fa, mi accorgevo distratto che i tovagliolini della colazione avevano una bizzarra macchia al centro. Mezz'ora dopo, riportato a nuova vita da quell'incredibile bevanda altrimenti nota come caffè, osservavo distratto che era uno dei servitori di un recente film d'animazione, Minions.
Non a caso, al di sotto di quello sgorbio color giallo verso cui avrei dovuto provare qualche simpatia, c'era una scritta a caratteri cubitali:

One in a Minions.

Ah. Ah. Ah.
Quante risate. In a Minions/Millions, capite? Come siamo originali, come siamo divertenti.

Era riflettevo qualche ora più tardi, in una pausa dallo studio e col secondo caffè in mano, solo la minuscola parte di una gigantesca macchina pubblicitaria che in occasione del film si era messa in moto. 
Preparando il terreno. 
Infiltrando la mente di grandi e piccini (adulti ormai rimbambiti e bambini ormai adulti). 
Lanciando sui social campagne, meme, cross over, scritte, immagini, merchandising... 
Estendendosi persino ai tovaglioli con cui mi ero pulito il mio barbuto muso quella mattina.

Ovviamente, perchè sorprendersi. Minions non è comunque un film della Disney - è prodotto da una casa di più piccole dimensioni, e non ho nulla da obiettare che si facciano pubblicità - semplicemente, stavano usando gli stessi, identici metodi che usano i fratelloni più grandi, dai film "ufficiali" della Disney alla patina hipster della Pixar. Bombardamento pubblicitario a tappeto.
Il che ci porta al vero argomento di questo rant e cioè la malefica Multinazionale di Topolino... 

La Disney è la Disney – una Multinazionale che non sarebbe una Multinazionale se il suo scopo fosse altro che il profitto. Un utile realizzato in una grottesca area grigia di prodotti in apparenza destinati ai bambini, ma in realtà ampiamente riservati agli adulti. Per alcuni un'area meravigliosa, generosa, piena di nobili ideali; per altri, me compreso, molto più banalmente la Disney fa quanto fa la Apple. Vende sentimenti sotto forma di oggetti. O nel nostro caso di film. Ci si illude di comprare un sentimento, si compra il film. Nulla di nuovo.

Al terzo caffè della mattina, osservavo però inquieto che a fronte della campagna pubblicitaria e degli oggetti a essa correlati, il film era ben poca cosa. In altre parole, certo, il fine della pubblicità era vendere il film, ma era probabile che persino un'IP di nicchia come i Minions generasse maggiori introiti con pupazzi e magliette che con i biglietti sold out.
Gli spettatori e l'affluenza al cinema sarebbero stati un chiaro indice del successo o meno del film, ma era altamente improbabile che il grosso dei profitti venisse da lì. Anche così, la campagna pubblicitaria restava impressionante, e cos'è peggio invasiva al punto da impedire persino una semplice indifferenza.

Dopotutto, sapete qual'è il film dove Tim Burton ha incassato di più? 
Alice nel Paese delle Meraviglie. Esatto, proprio quel film. Quell'orrore benpensante, terribilmente lucido per essere un film di Alice, rigonfio come un bubbone molesto di effetti speciali, infedele al libro (non che a me importi, dell'esattezza della trasposizione, ma per sommare difetto a difetto...), con una protagonista insopportabile e un Johnny Depp pronto alla decapitazione per incapacità attoriale.
Eppure, tra i tanti piccoli gioielli di Tim Burton disprezzati&ignorati, la pellicola di Alice rimane la più redditizia. Perchè, vi domanderete. Perchè a finanziare l'intera operazione c'era la Disney.
E qualunque cosa tocchi la Disney nell'ultimo decennio, diventa oro puro.

lunedì 15 settembre 2014

Le sta a pennello, Signore! Un'intervista al movimento Chap.


Tengo d'occhio il movimento Chap da un bel po', sebbene non abbia ancora messo le grinfie sul suo cuore pulsante, il loro giornale “The Chap”.

Difficile definire cosa sia il movimento Chap. Non è un club o un'associazione sul modello britannico, perchè non segue logiche di tesseramento e classificazione, né pone effettivi pregiudizi di sesso o età. Chiunque può essere Chap. 
Si potrebbe definire il movimento come una subcultura sartoriale, perchè effettivamente sei Chap se vesti seguendo una moda sorpassata, ponendo un'attenzione ai limiti del maniacale alle pieghe dei vestiti, del cappello, della posa. In tal senso il movimento Chap può sembrare, e per certi versi è, un movimento di Dandy. Di fronte alla becera realtà di politici in maniche di camicia, dirigenti Apple col maglioncino e imprenditori sbracati, il movimento Chap si riappropria del vestito elegante per ricondurlo a tutta la sua magnificenza. Lungi dall'essere "grigi" e borghesi, i dandy del movimento sono elegantissimi, ma coloratissimi, alla continua, estenuante ricerca di un aspetto tanto formale, tanto perfetto da risultare stravagante.

Non è un effetto così difficile da raggiungere. Dal secondo dopoguerra in poi, sotto l'influsso americano si è a tal punto sbugiardato, sbeffeggiato e distrutto il tre pezzi tradizionale che riappropriarsene appare ormai (quasi) un atto rivoluzionario. Nel momento in cui il Capitale ha assimilato completamente ogni eversione giovanile, dai jeans, alla minigonna, alle giacche di cuoio, ritornare ai vestiti dei propri bisnonni, trisnonni, al Tweed di un secolo fa dà molto più fastidio che l'ennesimo tatuaggio. Ormai tutti prediligono lo sbracato, il rutto, la camicia stracciata, il Suck me sulla magliettina firmata... E allora perché diamine non tornare a vestirsi decentemente, e farlo anzi con tanto esagerato vecchiume da risultare grotteschi, più formali dell'attuale borghesuccia alta? 
E dopotutto, non è un ritorno alle origini, in quest'ambito, anche fumare la pipa? La pipa attualmente è associata, a differenza del sigaro, all'elitè. Il vecchio bambogio fuma la pipa, esattamente come la borghesia alta, il padre di famiglia, il vecchio. Ma in origine non era così: la pipa nell'ottocento la fumavano le classi basse, dal quella in pannocchia dei contadini, alle pipette e pipe che nei romanzi di Dickens compaiono nelle bocche sdentate dei pescatori, dei venditori all'ingrosso, degli operai nella pausa pranzo. Ormai dà più fastidio fumare tabacco che fumare marijuana, e incontro nella gente un odio acceso, verso il tabacco, che lascia perplessi.Non voglio costruire chissà quale apologia verso la pipa, ma solo evidenziare il controsenso di città inquinatissime, dove bambini soffocano nello smog, ma dove l'unico fumo che "uccide" stranamente è il tabacco. 
Siate almeno coerenti: se odiate il fumo, siate anche ambientalisti. Il movimento Chap è così irritante: si veste troppo bene per l'egualitarismo americano che vuole "tutti trendy", fuma aggeggi sorpassati quali la pipa, e predica una cura (maschile) della persona odiato dall'attuale massa di consumatori in t-shirt sporche di nutella.


Per certi versi, ma questa è solo una mia illazione, il movimento Chap ricorda il miglior socialismo degli esordi, quello utopista: l'attenzione alle classi lavoratrici non appare disgiunto dal culto della gentilezza, della cortesia, della tradizione; la felicità della società si raggiunge non attraverso il distruttivo edonismo Thatcheriano, ma favorendo condizioni più umane, personali e rispettose. Il nemico è giustamente individuato nella Tecnica, in quella tecnologia che “non pensa” (cit Heidegger) ma che appare solo al servizio di un consumo esagerato, gargantuesco. Non c'è qui quel culto del progresso che rende insopportabili molte sinistre e che le traduce spesso nell'ennesima marionetta del Capitale di turno.

L'intervista che ho preso in analisi è vecchia, del 2004, condotta dalla giornalista Isabel Taylor all'attuale leader (informale) del Movimento Chap, Gustav Temple. Squisito maestro di estetica, dandy raffinato e conversatore pungente, Gustav riassume bene alcuni concetti cardine del movimento.

La traduzione è mia, del tutto artigianale e del tutto a-professionale, per cui se ve la cavate coll'inglese consiglio l'intervista in originale. Eventuali errori sono tutti dovuti alla mia incapacità.
Nonostante sia vecchia, l'intervista rimane attuale: l'unico puntiglio che mi sento di fare è relativo alle controparti femminili del Chap, le “chapette”. Nonostante la nostalgia verso il Settecento e l'Ottocento, il movimento non è maschilista e specie negli ultimi anni ha spesso dato risalto a elementi femminili. Per altro, sotto l'aspetto del vestiario le Chapette hanno decisamente più libertà dei maschi, passando dal vestiario tradizionale del 40' femminile al preferire il “tre pezzi maschile”.
Non si confondano gli ideali: questo è Anarco-Dandismo, non qualche sozzo Conservatorismo!


Le sta a pennello, Signore: un'intervista con Gustav Temple della rivista The Chap


mercoledì 26 settembre 2012

Il movimento Chap: anarco dandismo in panni di tweed


Princess Crocodile

Mi sono per la prima volta imbattuto nel movimento Chap cercando adeguate immagini per futuri articoli dedicati a pipa&affini. A prima vista il movimento Chap può sembrare una versione seriosa del tradizionale cosplay, in questo caso rovesciato all'età vittoriana o spaziando, in particolare nel caso delle donne, all'età del jazz degli anni 20. Gente che si veste come raffinati gentlemen, fumando la pipa e atteggiando sguardi altezzosi; ma già nelle immagini si nota un pizzico di follia tutta inglese, un eccesso che lascia trasparire qualcosa di più serio della semplice rievocazione.

non so voi, ma lo trovo inquietante ^^

venerdì 20 gennaio 2012

Sopa

Come sopprimere la pirateria uccidendo Internet

Forse per diretta conseguenza del traumatico naufragio del traslatlantico Costa Concordia,
in Italia il provvedimento Sopa sta passando inosservato se non per qualche sporadico blog internazionalista.

Sopa, acronimo di Stop Online Piracy Act, è un provvedimento americano che lascia ampia carta bianca ai titolari di copyright e della giurisdizione americana nell'oscurare e bloccare i siti ritenuti colpevoli di pirateria. Principali sostenitori la compatta falange delle industrie farmaceutiche, cinematografiche e musicali, che lo definiscono come unico reale provvedimento capace di fermare la pirateria, che stimano causi migliaia di licenziamenti in America ogni anno.

Di fatto Sopa è uno dei tanti casi in cui la cura si rivelerebbe peggio della malattia, estirpando non tanto il male della pirateria, quanto il corpo stesso che lo ospita, Internet.