La classe
intellettuale (la lobby intellettuale?) possiede sempre un set fisso
di eroi e personaggi che vorrebbe che il “popolo” studiasse e idolatrasse, che variano a seconda del periodo storico e della classe dirigente.
Attualmente, la storia sembra partire dal secondo
dopoguerra e concentrare ogni suo eroe nei movimenti di emancipazione
e lotta civile tra i '60 e i '70. La parola eroe viene rimpiazzata
dall'attivista per i diritti umani e la gallery di eroi, pardon attivisti, si colora di personaggi passivi che s'immolano per i diritti di ristrette minoranze.
Durante la
Restaurazione, la storia proiettava un raggio glorioso sull'ancient
regime e sulle monarchie, contrapposte al terrore giacobino e
alla tirannia di Napoleone. Gli eroi erano i martiri passivi
trucidati dalla Rivoluzione e i generali e i re che avevano sconfitto
Napoleone, principalmente inglesi come Wellington e Nelson.
Ovviamente,
quanto gli intellettuali vogliono e il popolo desidera, è tutt'altra
cosa. Nessuno ricorda per davvero gli eroi in salsa liberal del '60,
come nessuno ricordava per davvero nel 1820 Napoleone come un
“tiranno”. Al contrario, fin dai primissimi anni, il personaggio
di Bonaparte conobbe un'immensa popolarità, una fama che resiste
tutt'ora caparbia ai revisionisti, ai monarchici, ai liberali, ai
pacifisti: Napoleone è, piaccia o meno, ancora un personaggio
storico positivo.
Se si
domanda a un ragazzino chi è Wellington, difficilmente saprà
rispondere.
Ma il Bonaparte? Egli mantiene un'aura grandiosa,
impossibile da dissipare.
E' quella
che chiamo la “vitalità” dei personaggi storici: alcuni sembrano
destinati a scomparire, altri riemergono nei modi e nelle finalità
più inaspettate. E ovviamente c'è uno scontro (odio?) tra chi i
giornalisti e i demagoghi della classe dirigente vorrebbero “famosi”
e chi invece ricorda e preferisce la gente. I sondaggi in Russia che
rivalutano Stalin e Breznev tra larghe fasce della popolazione, o
l'attaccamento verso eroi, pardon attivisti, come Snowden o Manning,
ritenuti pirati, “pericolosi” idealisti, ladri di informazioni
“segrete”.
E Radetzky?
L'austriaco generale è un esempio di strategia di sopravvivenza al
suo massimo livello, l'equivalente di un trilobita nel campo della
storia. Un uomo dalla parte dell'Austria, un generale, corpacciuto e
conservatore, che combatté in un anno, come il 1848, che vedo
dimenticato persino dagli insegnanti delle Superiori. Eppure il
trilobita Radetzky si fa ancora strada non sui libri, non sui
giornali, ma sulla televisione: il primo dell'anno è La Marcia di
Radetzky a erompere dallo schermo, in un inno che non ha nulla,
assolutamente nulla di moderno.
E' Radetzky,
cazzuto e semplice.
Certo, è
Strauss, è Vienna... eppure non sarebbe così strano che di tempi
così progressisti, tecnologici, fissati col nuovo si scegliesse
qualcosa di più “chic”, più adatto.
La bibliografia base: Radetzky: Imperial Victor and Military Genius by Alan Sked |
Dopotutto,
non è una fama immeritata.
In seguito
al disastro della campagna in Russia, fu l'esercito austriaco sotto
la guida di Radetzky a sconfiggere un Napoleone ancora molto forte.
Il genio diplomatico di Metternich e quello militare di Radetzky
strapparono una vittoria che se affidata all'irruenza di inglesi e
prussiani sarebbe risultata impossibile.
Durante la
Restaurazione, l'esercito di Radetzky nel Lombardo-Veneto era il
vanto d'Europa, uno dei pochi luoghi dove tra il 1815 e il 1848 si
sperimentavano nuove tattiche e manovre. Radetzky trasformò un
contingente prossimo alla sedizione in una macchina da guerra
vettovagliata, istruita e dall'alto morale. Lo stesso Radetzky
accoglieva di buon grado ambasciatori inglesi e francesi, interessati
alle sue ultime strategie, specie nell'uso della cavalleria.
La campagna
del 1848, dal suo canto, resta tutt'ora un capolavoro di
testardaggine.
Radetzky si
trovò a fronteggiare una diplomazia a Vienna disposta alla pace, una
Lombardia in fiamme, un isolamento totale da ogni aiuto militare
dall'Austria, un popolo insorto e un Piemonte all'attacco. Eppure, la
campagna del 1848 sconfisse tutti, sia piemontesi, che lombardi, che
liberali, che patrioti, che burocrati: fu un assoluto trionfo che
virtualmente da solo impedì la dissoluzione dell'Impero Austriaco.
Ponendo
sulla bilancia sconfitte e vittorie, Radetzky risulta un generale
alla pari di Moltke (entrambi vinsero due guerre su scala europea)
pari a Eisenhower (che non vinse mai un'intera campagna di guerra da
solo, cosa che riuscì a Radetzky nel 1848) superiore certo a tanti
generali inglesi troppo strombazzati, da Wellington a Montgomery.
Quando si
ritirò a novant'anni suonati, era per gli Asburgo un santo vivente,
un icona da invitare a ricevimenti e feste per intimidire
ambasciatori e ospiti con la sua sola (panciuta) presenza.
In altre
parole, un eroe per gli Asburgo e un incubo per i suoi nemici.
L'infanzia
di Radetzky è ricca di rifiuti. Di fisico malaticcio, provò a
entrare nell'Accademia Militare Teresiana, venendo rifiutato. Spedito
al Collegium Nobilium a Brunn, nella Moravia, rientrò nell'Accademia
nel 1782, quando l'antiquato Collegium fu chiuso da Giuseppe II.
Al terzo
tentativo, entrò nel corpo dei corazzieri in Ungheria come cadetto
pagante (un ex-propriis). Sperduto in un posto di guardia degno del
deserto dei tartari, il giovine Radetzky non risparmiava il fiele sui
suoi superiori:
“Lo vero scopo della nostra professione, allenarsi per la guerra, rimane sconosciuto ai nostri subalterni e forse anche al nostro colonnello.”
Le prime
esperienze di guerra risalgono alla guerra turca del 1787-90.
Radetzky operava nella cavalleria, un ruolo cui resterà affezionato
anche nei decenni a seguire, sia nella cura del cavallo che nello
sviluppo di nuove formazioni d'attacco. Una guerra d'altri tempi, per
molti aspetti: quasi un terzo dell'esercito austriaco era all'epoca
composto da corpi di cavalleria leggera e pesante, mentre la
percentuale scenderà a un risibile 16% nella campagna del 1848 in
Italia.
La guerra
contro la Francia rivoluzionaria (1792), con le prime armate di leva
in campo, confermarono a Radetzky l'incompetenza dell'esercito
austriaco. Il morale buono, il coraggio dei soldati non bastavano a
fronte di una gerarchia incompetente. Scrive a proposito Radetzky
come “difensivo, e incapace anche in questo, era quasi sempre il
principio guida adottato (dai generali)”.
In realtà
l'esperienza provava che nelle scaramucce (Detailgefechten)
gli austriaci avessero sempre la meglio, quando finalmente
attaccavano e “andavano per il nemico corpo a corpo con freddo
acciaio (mit blanker waffe)”.
Nel
frattempo, nel 1797, Radetzky era diventato comandante fisso del
corpo dei pionieri dell'esercito, che sotto la sua guida era stato
ingrandito a 10 compagnie per un totale di 1723 soldati.
L'infuriare
delle guerre napoleoniche nel nord Italia (la battaglia di Marengo,
ad esempio) vede Radetzky salire di grado e di onori nella tortuosa
gerarchia militare.
Sconfitte
per gli austriaci spesso, ma vittorie per Radetzky, che riesce sempre
a strappare un elogio, una nota a piè pagina, una parolina nella
lettera all'Imperatore per il suo zelo e il suo acume nel valutare
terreno e forze nemiche.
La battaglia
di Hohenlinden del 3 dicembre 1800 ne è un buon esempio.
Le diverse
colonne che avrebbero dovuto attaccare erano scoordinate, non c'erano
soldati sui fianchi, l'artiglieria si trovava sulla strada principale
senza scorta. L'arciduca Giovanni, supremo generale, fu trovato
addormentato nell'accampamento mentre le truppe già si muovevano per
la battaglia. Con 17000 tra morti e prigionieri rappresenta
l'ennesima batosta per gli Asburgo... e tuttavia, in tutto questo
Radetzky non era rimasto inattivo.
Come soleva
fare, aveva ispezionato di persona il terreno per la battaglia,
scoprendo che il bosco tutto intorno a Hohenlinden era già stato
occupato dai francesi.
Quando aveva avvertito l'alto comando, gli
avevano riso in faccia.
Quando aveva avvertito il Generale Kollowrat,
“mi risero in faccia, di nuovo”.
Quando effettivamente si scoprì
che il bosco era pieno di nemici, fu ovviamente Radetzky a doverlo
stanare, con neanche mezzo squadrone di cavalleria. Nella mischia
perse tre ufficiali, metà dei suoi uomini e il suo cavallo. Il suo
squadrone combatté senza sosta per il bosco dalle 9 di mattina alle
3 del pomeriggio, ore nel corso delle quali, esauriti i pallini per
la pistola, la lanciò sulla testa di un ufficiale, tramortendolo. A
sera, si accorse che una pallottola di rimbalzo l'aveva beccato al
piede sinistro. Non riuscì a organizzare una ritirata delle truppe,
ma con il suo eroismo fu l'unico a distinguersi dalla camarilla di
incompetenti che aveva perso la battaglia.
Si può
certo vedere le guerre napoleoniche come un'ininterrotta serie di
sconfitte austriache, ma le si può anche vedere come la formazione
di un esercito di veterani preparato, con un quadro ufficiali
finalmente efficace – ufficiali tra i quali sicuramente figura
Radetzky.
Alla
formazione della Terza Coalizione (1805) Radetzky fu nominato General Maggiore e gli venne consegnato il comando della brigata leggera nel
nord Italia. L'acquisto di gradi non l'aveva ammorbidito: una volta
preso comando della brigata a Legnano, il suo primo ordine fu
un'incursione a nuoto attraverso il fiume Etsch, con la cattura di 50
prigionieri.
Le capacità
di Radetzky non erano solo militari, ma per larga parte organizzative
e burocratiche: a dicembre 1813, in attesa del ritorno del nano corso
dalla Russia, l'esercito asburgico era andato incontro a una
miracolosa metamorfosi.
In agosto le
truppe ammontavano a 470000 tra ufficiali e soldati, a fine dicembre
a 568000, con 13000 irregolari come rinforzi. I soldi per
l'artiglieria, gli stivali, le uniformi, i fucili, le munizioni
provenivano tutti da “condoni” da parte di Vienna. In pratica i
due milioni che ad esempio Budapest doveva a Vienna, erano stati
convertiti in spese militari, così come in Moravia e Boemia.
L'Austria chiudeva un occhio sui debiti delle sue province, purché
queste investissero su armamenti e truppe.
Metternich
intanto aveva spinto il Conte Wallis a concedere un prestito di 43
milioni di Gulden nella forma di “fondi anticipati” nell'aprile
del 1813, garantendo di risolvere la crisi finanziaria attraverso il
conflitto dell'anno successivo.
La campagna
finale del 1814-15 contro Napoleone vide, da parte austriaca, una
collaborazione inestricabile tra il generale supremo, Schwarzenberg,
e il comandante dello staff, Radetzky.
Appare
esagerato definire Schwarzenberg l'Eisenhower della Coalizione, ma
senza dubbio era un generale solido, non incline a crisi di nervi
come gran parte dei comandanti che si battevano contro il (presunto)
genio napoleonico. Il Principe ascoltava Radetzky e assieme a
Metternich era convinto della necessità della guerra contro
Napoleone, in opposizione al tiepido patriottismo dell'alta società
viennese. Senza dubbio fu Radetzky a formulare il piano Trachenberg,
che cercava di far leva proprio sulle tattiche preferite di Napoleone
per poterlo sconfiggere. Tre eserciti avrebbero costituito le forze
alleate, che avrebbero avanzato con cautela in Sassonia, cercando lo
scontro.
Eventuali
distaccamenti, eserciti minori comandati da “fidi” di Napoleone
sarebbero stati annientati, mentre al primo contatto con il generale
l'obiettivo era di ritirarsi, mantenendo però un “contatto” con
il nemico, un gancio con cui attirarlo. L'obiettivo di Radetzky era
di costringere Napoleone alla difensiva, di esaurire il morale delle
sue truppe, di tagliarne le vie di comunicazione, di provvigioni, di
appoggi “sicuri”. Una volta logorato a sufficienza, le tre armate
sarebbero converse in un unica battaglia contro il nemico ormai
demoralizzato.
Il piano può
ingannare nella sua semplicità, ma era un attento studio delle
capacità del generale corso: Radetzky aveva perfettamente intuito
come il segreto per la vittoria di Napoleone stava nell'attacco e
nella mobilità, un vantaggio che in ogni modo avrebbe cercato di
negargli.
La battaglia
di Lipsia (o di Leipzig, o delle nazioni) vedrà tutti queste note riunirsi in un unico spartito, un
concerto di tre eserciti che convergono in un unico, cataclismico
scontro. Raramente però si riconosce all'Austria, a Metternich e a
Radetzky alcun merito nella battaglia.
I conflitti
dell'età napoleonica e la stessa vittoria di Leipzig offrono buone
testimonianze su quanto questi nuovi conflitti, di massa e nazionali,
fossero sanguinosissime faccende.
Lord
Aberdeen, ad esempio:
“Per tre o quattro miglia il terreno era coperto di corpi di uomini e cavalli, molti ancora vivi. Carcasse, feriti e inabili a strisciare imploravano per dell'acqua tra i vapori dei cadaveri putrescenti. Le loro urla si sentivano a distanze immense e ancora risuonano nelle mie orecchie.”
Oppure,
dalle testimonianze di una giovane Lady Burghersh, da Weimar,
commentando la ritirata dei francesi dalla Germania:
“Nessuna lingua può descrivere l'orribile devastazione che questi francesi si sono lasciati indietro e senza vederla, nessuno può farsi un'idea della nazione attraverso cui hanno compiuto una simile ritirata. Ogni ponte fatto saltare, ogni villaggio bruciato al suolo o demolito, i campi completamente distrutti, le recinzioni ribaltate, e abbiamo rintracciato nei loro bivacchi ogni orrore che riesci a immaginare. Nessuno degli abitanti di questa nazione (la Germania) seppellirà loro o i loro cavalli, per cui rimarranno così, a giacere su tutti i campi e le strade, con milioni di corvi che festeggiano – ne abbiamo superato quantità, ossa di ogni tipo, cappelli, scarpe, sciarpe, una quantità sorprendete di lino e stracci – ogni genere di orrore.”
Senza
infognarsi in un articolo/saggio sul bonapartismo, si può affermare
che Napoleone iniziò a dominare l'Europa dal 1797. Fino al 1813 e
alla campagna in Russia solo l'Austria ad Aspern l'aveva sconfitto in
una regolare battaglia campale. Per quindici anni, Napoleone era
sembrato imbattibile. Eppure quest'irritante austriaco, questo
grassotto “Radetzky” lo sconfisse con una campagna militare di
soli sette mesi e mezzo, superando ostacoli burocratici (a Vienna),
diplomatici (l'incompetenza russa, le ingerenze prussiane) e non
ultimi, di Napoleone stesso.
Non sarebbe
forse ora di annoverarlo tra i “grandi” generali della storia?
Sconfiggere
Napoleone aveva mandato a pezzi uomini anche più robusti del giovane
Radetzky, che in seguito alla vittoria attraversò diversi anni di
cattiva salute. La moglie, senza senso del risparmio, l'aveva accolto
di ritorno dalle guerre con una montagna di debiti e lo stesso
generale fu messo in disparte, passate le doverose medaglie (con cui
tuttavia non si mangia).
In Italia,
nel frattempo, la Restaurazione procedeva verso i suoi primi cigolii
di ferraglia da rottamare. Il Lombardo-Veneto, amministrato fin
troppo bene dagli austriaci, al punto da creare quel ceto borghese
che sarà la loro rovina, cominciava a farsi irrespirabile. Con le
agitazioni e i confusi tentativi insurrezionali del 1830, Radetzky fu
subito richiamato in comando come Feld Maresciallo. Era acquartierato
a Milano, mentre l'esercito era diviso in due grossi contingenti, in
Lombardia e in Veneto. Lì, come
sua abitudine, ristrutturò e svecchiò il contingente austriaco,
trasformandolo da una massa di gendarmi a un'armata ben organizzata,
fedele non al sovrano o agli italiani, ma al “babbo” Radetzky,
esperta nelle manovre più complicate e astruse. Come detto
nell'introduzione, è in questo periodo di stagnazione tattica post
Napoleonica che Radetzky sperimenta nuove strategie.
Dobbiamo
considerare la situazione europea: ogni riforma militare era stata
bloccata. Wellington, il caso più promettente tra tutti, si era
ritirato a vita privata: un paio d'innovazioni furono introdotte nel
1850, in tempo per la Guerra di Crimea, ma questo fu tutto. La
Prussia sprofondò nell'immobilismo con la destituzione di Boyen come
Ministro della Guerra nel 1819. Nella Russia degli Zar, il Feld
Maresciallo Principe Paskievich associava i “riformisti”, anche
in campo militare, ai Decembristi della Rivolta del 1825.
Mai, mai
cadere nell'illusione retroattiva di considerare la storia alla luce
del presente.
La Prussia
diventerà sì potente nell'ultimo terzo dell'Ottocento.
Tuttavia, è
l'Austria asburgica a dominare, per forza militare e temporale (in
numero anche di semplici anni) il secolo decimonono.
E' l'Austria a
mantenere una cospicua forza militare per tutta la Restaurazione,
com'è l'Austria a dominare il concerto europeo nella prima metà.
Considerare la Prussia “dominante” nel primo Ottocento è
ragionare con gli occhi rivolti al futuro. Allo stesso modo era la
Russia, non la Germania, la potenza antagonista alla Gran Bretagna:
non bisogna valutare il diciannovesimo secolo con i canoni del
ventesimo; piuttosto con quelli del diciottesimo!
Per come
funziona, la storia si guarda sempre all'indietro, mai all'avanti.
Tra le tante
innovazioni di Radetzky ricordiamo la cavalleria, l'addestramento
“per gradi” della fanteria, le nuove esercitazioni di massa,
complesse e raffinate, l'importanza delle fortificazioni a basso
costo con le nuove torri massimiliane ecc ecc
Impressionante,
ad esempio, la gamma di attività che un ufficiale dello staff del
Feld Maresciallo doveva possedere: coraggio, sobrietà, buone
conoscenze geografiche, militari, politiche, topografiche,
cartografiche, memoria a lungo e breve termine, capacità di guidare
i soldati all'attacco in prima linea... Sicuramente eccessive, queste
liste di competenze evidenziano bene sia il carattere vulcanico di
Radetzky, sia quanto si aspettasse da suoi uomini, in un periodo
storico dove l'ufficiale era un aristocratico senza particolari
meriti e dove l'esercito era un alloggio per i nullafacenti (specie
dopo la sconfitta di Napoleone e “l'acquietarsi” della situazione
europea).
Tra il 1810
e il 1848 Radetzky fu uno dei generali che più sostenne,
sull'esempio della Francia napoleonica, la necessità del
cameratismo. C'è bisogno di una fratellanza tra soldati, di una
vicinanza tra ufficiali e soldati semplici, di una comunanza di gioie
e patimenti tra ogni quadro dell'esercito. Il cameratismo, valore
oggi dato per ovvio, trova in Radetzky il suo primo sostenitore.
L'idea non
era nuova, già infatti gli ufficiali asburgici si chiamavano l'un
l'altro du invece che Sie.
I soldati,
indifferente il grado, dovevano provare sempre una mutua dipendenza
l'uno verso l'altro, una completa fiducia: “istruirsi l'uno con
l'altro” (Aufeinander-angewiesen sein).
Non tratterò
qui quello che è forse il maggiore trionfo di Radetzky, ovvero la
vittoria a Custoza e il salvataggio in extremis dell'Impero nel 1848
dai rivoltosi ungheresi e italiani.
Se vi
interessa un mio parere e un veloce (well, sort of...)
riassunto degli eventi vi rimando al mio articolo sull'Austria-Ungheria, che per altro è dello stesso storico (Alan
Sked).
Ricordiamo
brevemente che il generale che rimase così a lungo in sella, per
giorni e giorni, dopo la fuga da Milano era ormai ottantenne; che
quando rientrò nella capitale, in seguito a Custoza, i contadini
italiani lo acclamano festanti e che alla notizia del suo rientro il
morale dei ribelli fu definitivamente spezzato.
Francamente,
trovo inammissibile che vi siano storici che dichiarano “cupo” e
“oppressivo” il governo Lombardo-Veneto in Italia. Si può certo
argomentare che era contrario allo spirito della popolazione che si
sentiva italiana, almeno nella fazione “lombarda” e che la
regione veniva drenata dalle tasse asburgiche (ampiamente restituite
però in infrastrutture e servizi sociali).
Ma non si
può certo definirlo “oscurantista”, almeno fino al 1848. Lo
erano invece il resto degli staterelli italiani, come, chessò, il
Vaticano (talmente pauroso dell'Illuminismo che l'energia elettrica
arrivò solo dopo Gregorio VI).
Alan Sked
cita questo passaggio di Bolton King (no, non è un personaggio di
Game of Thrones) dalla sua monumentale opera “Risorgimento”:
Nonostante l'emancipazione della Lombardia e del Veneto fosse il sogno di ogni patriota italiano, napoletani, romani e piemontesi avrebbero grandemente invidiato le istituzioni verso cui questi abitanti dipendevano. L'Impero Austriaco era troppo forte, troppo in mostra, per ridursi alla corruzione indecente di un ridicolo tiranno... c'era una puntualità e una robustezza nell'amministrazione, un'eguaglianza di fronte alla legge, una libertà sociale, che non aveva paragoni in Italia eccetto che in Toscana e a Parma.
Ho già
scritto a proposito del post 1848, con un'Austria che mirava a
ingraziarsi il favore del popolino – artigiani&contadini – di
contro a un'aristocrazia milanese che si riteneva ormai perduta.
Il
ragionamento non era malvagio e muoveva dai fatti avvenuti in
Galizia, dove i contadini inferociti avevano massacrato i possidenti
polacchi.
E' un dato
di fatto che la nobiltà italiana era l'unica nobiltà tra le diverse
nazionalità dell'Impero che non studiava il tedesco e si rifiutava
di competere in modo equo a Vienna. Mentre qualsiasi altra
aristocrazia austriaca dava per scontato l'apprendimento del tedesco
come seconda lingua, come condizione preliminare per avere impieghi a
corte o nel governo, i lombardi pretendevano di avere posti “gratis”
solo per il fatto d'essere nobili. Sapevano infatti bene come sotto
il Piemonte sabaudo avrebbero ricevuto direttamente quei lavori per
cui gli Asburgo pretendevano invece un notevole impegno.
Altra merda
che di solito si getta addosso a Radetzky era singola responsabilità
di altri generali: non ebbe mai alcuna responsabilità nell'eccidio di Haynau, la iena di Brescia e non amava le condanne a morte,
qualunque fosse il caso. L'ondata di condanne (e confische) fu voluta
fortemente dal giovane Francesco Giuseppe, appena salito al trono.
Radetzky, da bravo soldato, si limitava a obbedire.
Radetzky era
inoltre solo un singolo uomo, per quanto potente: non poteva
impicciarsi negli affari di ogni singola municipalità. A Venezia,
nel 1849, un ragazzo che vendeva patate chiamandole “arance
viennesi” vide il suo senso dell'humor ricompensato con la bellezza
di 25 frustrate (!). Nello stesso anno, in occasione del compleanno
dell'Imperatore, un gruppo di ufficiali dell'esercito brindava alla
sconfitta degli ungheresi a Villagos, al Caffè Mazza di fronte alla
cattedrale. Una giovane venditrice di guanti, dal balcone di fronte,
espose allora il grembiule, con il giallo e nero della bandiera
asburgica. La donna era infatti pro Austria. Gli ufficiali ovviamente
alzarono i boccali e si complimentarono con un applauso, il che
attrasse l'attenzione di diversi milanesi (abbruttiti). Questi si
misero a fischiare e urlare contro la donna, mentre gli ufficiali,
complici qualche bicchierino di troppo, si lanciavano a difenderla in
una confusa mischia. Risultato: 20 persone arrestate, 50 colpi di
frusta ciascuna, 14 al carcere duro. Questo genere di piccoli
incidenti, di reazioni esagerate, di continua tensione non c'era
nella Restaurazione, ma comparvero in massa dopo il 1848. Segnava
purtroppo un cambiamento di mentalità della popolazione, sempre meno
disposta a restare sotto il governo asburgico.
Il caso
forse più eclatante è quello di Mazzini. Dalla sede a Londra,
avendo bisogno di carta moneta per finanziare l'insurrezione, aveva
promosso una vendita di “azioni” mazziniane che sarebbero state
comprate dai patrioti fedeli alla causa: i “mazzini bonds”, come
li definisce Sked, conobbero un successo notevole, con vendite in
tutta Italia. In Lombardia il solo possesso di una quota azionaria di
Mazzini comportava l'alto tradimento e l'esecuzione a morte. Anche
così, c'erano almeno 3000 borghesi che nel Lombardo-Veneto ne
curavano lo smercio.
Nel 1852 una
“soffiata” portò alla condanna per impiccagione di 11 cittadini
di Mantova, con molti altri spediti a carcere duro.
A Milano
intanto, un'altra delazione svelava una contorta congiura con
presenza dei Mazzini bonds: se Radetzky avesse voluto seguire alla
lettera la legge, avrebbe dovuto condannare a morte ben 41 persone!
Tuttavia, per tradizione austriaca, 31 furono graziati, e della lista
finale, ancora per tradizione austriaca, un'altra metà furono
graziati. Alla fine, solo 5 cittadini milanesi furono condannati a
morte. Nel marzo 1853, di fronte ad altre 27 condanne, 23 furono
graziati all'ultimo e solo 3 impiccati. Insomma, certo, si trattava
pur sempre di condanne a morte; ma come vedete la giustizia asburgica
era molto meno dura di quanto la propaganda italiana desse a
indovinare.
Radetzky
certo non guardava di buon occhio, abituato com'era a scontri a viso
aperto e con chiare leggi, il genere invece di terrorismi e azioni
rivoluzionarie che venivano predilette dagli insorti di Mazzini. Ne
citerò come esempio su tutti l'insurrezione a Milano del 6 febbraio1853.
Il piano
prevedeva di catturare il Palazzo Reale, la Cittadella e i
quartiermastri dell'esercito a Milano. Una volta completati questi
primi obiettivi e con il governatore di Milano prigioniero, una
rivoluzione si sarebbe scatenata tra le vie della capitale e per
tutto il Lombardo-Veneto, causando l'intervento piemontese e
cacciando il perfido austriaco.
Un piano
tanto semplice quanto ingenuo: d'altronde Mazzini se ne stava bene al
calduccio a Londra, senza ragione di preoccuparsi se riuscisse o
meno.
Il
governatore, Michele Strassoldo (figlio di Radetzky), cenava di
solito alle 17.00 nel Palazzo Reale, con soli 25 soldati di scorta.
Il compito sarebbe spettato a un vecchio seguace di Garibaldi,
Fanfulla, assieme a 100 insorti armati fino ai denti.
La
Cittadella, con 120 soldati e tre howitzers, era poi l'obiettivo
successivo affidato a un “plebeo”, il cui nome Mazzini “mi
dispiace dirlo, ho dimenticato”. Dentro la Cittadella c'erano la
bellezza di 12000 moschetti, per cui era un passaggio fondamentale.
18 uomini con 18 pugnali avrebbero accoltellato le 18 sentinelle,
dando il via a un attacco di 300 insorti pronti a sopraffare la
guarnigione. Nel frattempo, sfruttando l'elemento sorpresa, Mazzini
aveva anche ordinato un attacco generalizzato a qualsiasi austriaco
si trovasse per strada:
“200 giovani uomini avrebbero corso a perdifiato per le vie, in gruppi di due o tre attraverso le strade della città e avrebbero pugnalato soldati e ufficiali... sarebbero stati i Vespri Siciliani, tutto di nuovo!”
Ovviamente,
nelle fantasie di Mazzini il contadino col forcone avrebbe facilmente
sopraffatto il corazziere austriaco, mentre i soldati ungheresi di
stanza si sarebbero subitaneamente uniti agli insorti. C'erano anche
piani per distruggere l'illuminazione a gas e contatti quantomai
labili con le città del centro Italia. Sempre dall'antro londinese,
Mazzini aveva anche mandato la pianta per un pugnale da fabbricare
“in casa”, 25000 franchi (con il suo sistema azionario) e diverse
bombe del tipo che proverà a usare Orsini per far fuori Napoleone
III.
Il piano in
realtà incontrò uno scarso interesse nella massa borghese, salvo
per qualche isolato intellettuale. La feccia di strada, invece, i
Barabba, aderirono subito:
avevano già ucciso i mesi precedenti due “traditori” e
progettato di avvelenare un banchetto di nobili austriaci. Alcuni dei
Barabba erano artigiani, bassa manovalanza esasperati dalle orribili
condizioni di lavoro; altri erano puri e semplici malviventi.
Il giorno dell'insurrezione delle favoleggiate masse in rivolta non
c'era traccia: Fanfulla si era dileguato, un altro leader, Fronti,
era fuggito con 10000 franchi (!).
I 100 uomini che avrebbero dovuto catturare il governatore si erano
ridotti a 20, che senza guida scelsero di tornare a casa per cena. In
cambio, piccoli gruppi di barabba e giovani esaltati si misero a
correre in strada, accoltellando tutti quelli che riconoscevano come
austriaci: 10 soldati morirono così, colpiti alla gola, altri 54
finirono in ospedale, leggermente feriti.
Radetzky senza "baffi della vittoria", due anni prima della morte. |
I giorni
successivi Strassoldo, infuriato, impiccò prigionieri a caso tra gli
insorti: in totale una quindicina di persone, ben pochi rispetto ai
10 accoltellati a tradimento e alla sessantina di feriti.
Come da
stile di Radetzky, le spese per i feriti, le loro pensioni e persino
per la corda da impiccagione furono inclusi nelle tasse dei milanesi,
una tattica pecuniaria che sembra dava molto più fastidio di
qualsiasi imposizione militare!
Cosa aveva
ottenuto Mazzini? Un piano buttato lì, che non aveva risolto nulla,
salvo spingere gli austriaci, riluttanti e disgustati, a odiare
ancora di più gli ingrati italiani. Di persona non aveva rischiato
nulla; a finire sul patibolo furono infatti solo poveri cittadini dei
bassi ceti, traviati da un pamphlet e due discorsi in croce. Stando
ai documenti dell'epoca, finirono impiccati: tre facchini, tre
carpentieri, un maestro di ginnastica, un cappellaio, un venditore di
liquori, un ciabattino, un fabbricante di pettini, un macellaio, un
cameriere di un caffè, un tipografo e un lattaio.
Avevano
davvero colpa, indottrinati com'erano dalle fantasie patriottiche di
Mazzini?
A me fanno
pena. E lo facevano anche a Radetzky, a cui tuttavia facevano ancora
più pena i soldati al suo comando ammazzati di nascosto, come cani
in un vicolo.
In una
lettera di famiglia del 19 marzo 1853 scriveva, scoraggiato:
Questo fiume di sentenze senza fine mi opprime, eppure non c'è molto altro da fare, al di fuori di fare la guardia ed essere sempre pronti. Davvero, una triste esistenza... noi uomini siamo in un conflitto costante gli uni con gli altri – e visto che non possiamo cambiare ciò, dobbiamo portare la nostra croce quanto più a lungo Dio lo vorrà.
(…)
Le guerre che ho combattuto per tutta la mia vita... le ho sempre combattute nei confini del rispetto dell'umanità! Se privi il nemico della sua umanità, lo porti alla disperazione e questa disperazione lo avvantaggia. Il diritto del disperato di fare di tutto; il coraggio del disperato che non indietreggia di fronte a nulla, perchè non ha più nulla da perdere; e il peculiare, ancora inspiegabile, potere della disperazione. In nessuna delle mie guerre ho permesso che si arrivasse a tanto. Questo non sarebbe nemmeno contro ogni diritto umano, ma anche contro ogni saggezza militare.
In un
proclama alla popolazione di Venezia sui fatti di Milano, nella
Gazzetta del 18 febbraio, definiva di sfuggita gli insorti di Mazzini
“assassini prezzolati”. Questo ci da un buon indizio di come,
dalla parte austriaca, si vedesse l'unificazione. Nello stesso
articolo, lodava invece la prudenza dei soldati, che si erano
trattenuti dallo sfogarsi sui civili:
“in tempo di pace (siete) i guardiani vigili della tranquillità interna e delle frontiere dell'Impero; in tempo di guerra, gli intrepidi difensori dell'Imperatore e dello stato, entrambi che guardano a voi con affetto e orgoglio”
Cinque anni
dopo, nel 1858, Radetzky sarebbe morto in seguito a una caduta. Le
testimonianze lo ricordano come un vecchio corpacciuto in sedia a
rotelle, che distribuisce monete ai mendicanti: difficilmente una
figura “sanguinaria”.
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