Ho un pio
desiderio: leggere articoli sugli scrittori dove effettivamente si
parli di cosa scrivano e non ci si limiti a postare una frase di circostanza, due paroline sulla sua vita privata e una marea di fotografie fotogeniche. Scrivo questo perchè tale è il caso di Alyssa Wong, autrice horror filippina di cui tutte le
anteprime italiane si limitavano a menzionare le origini “esotiche”,
sottolineate dall'altrettanto esotica apparenza (in realtà, a
riprova dello stereotipo, io pensavo fosse koreana).
Siamo qui in
presenza della stessa tattica adoperata per Sapkowski e gli
scrittori dell'Est Europa; quanto costituisce una caratteristica
personale dello scrittore, una sua virtù di persona, diventa invece
attributo di un popolo intero. Sapkowski scrive in quel modo pertanto
non perchè scrittore, ma perchè polacco; Alyssa Wong scrive quel
tipo di horror non perchè sia originale, ma perchè filippina... e
si potrebbe andare avanti a lungo, specie con gli orientali. Proprio
ieri leggevo sulla bacheca facebookiana di un amico definire gli
abitanti di Tokyo “tokyoites”, con una descrizione tale da
rivaleggiare con gli alieni della fantascienza. Eppure le
caratteristiche rimproverate a Tokyo non erano minimamente originali,
si trattava di semplici attributi di ogni metropoli, come può essere
New York, Parigi, Berlino. Usare però l'espressione “tokyoites”
permette di isolare il soggetto, rinchiuderlo dentro un'aura esotica.
Nel caso in
questione non c'è assoluto bisogno di rinchiudere Alyssa Wong,
perché i due racconti qui trattati sono narrativa di alto livello,
superbo delicatessen horror come non ne leggevo da parecchio.
Si tratta di una traduzione della nuova Independent Legions,
uscite a settembre 2016.
Il primo
racconto, Figlie fameliche di madri affamate, ha vinto il
Nebula Award 2015, risultando poi quadruplo finalista al World
Fantasy Award 2016, al Locus Award 2016, allo Shirley Jackson Award
2015, al Bram Stoker Award 2015.
Il secondo
racconto, La Regina dei Pescatori, pubblicato sul Magazine of
Fantasy&Science Fiction 2014 è arrivato tra i finalisti del
Nebula Award 2014, del World Fantasy Award 2015, dello Shirley
Jackson Award 2014. Un'impressionante infornata di premi, pur con
tutto il mio scetticismo per le medaglie e le decorazioni.
Figlie
fameliche ha come protagonista una giovane ragazza, Jen,
capace per via ereditaria dalla madre di sentire i pensieri altrui e
a tutti gli effetti di divorare e trangugiare le altre
persone, gustando i loro pensieri e la loro identità come altri
mangerebbero un buon piatto di pasta. E' difficile definire il genere
di mostro creato dalla Wang, in primo luogo per la scelta di usare la
prima persona, in secondo luogo perchè al lettore non viene
mai razionalmente idea di definirla mostro.
Jen è una
giovane come tante, con l'eccezione che divora i ragazzi con cui
flirta, nutrendosi nel momento in cui li mangia dei loro pensieri e
dei loro sentimenti. Una versione letterale di una mangiatrice di
uomini (pensanti), con il bonus di poter rivestire le loro
fattezze e “indossare” la loro pelle e voce per un breve periodo
di tempo. La svolta avviene già nel prologo, quando Jen, in un
invito al ristorante, scopre che la sua prossima vittima è un serial
killer: il “gusto” dell'uomo d'improvviso le toglie ogni
sapore per le sue precedenti vittime. E' una mente troppo intensa,
troppo anormale per tornare a smangiucchiare “artisti di strada e
studenti che popolano i bar hipster”.
Questa prima
instabilità per la giovane/mostro Jen è poi esacerbata dall'amore
verso la sua compagna di stanza Aiko e dal legame con la madre,
anch'essa maledetta dalla stessa fame di viventi. La situazione
precipiterà presto in una girandola di rivelazioni e colpi di scena,
fino a un finale assolutamente allucinato, raro caso di crescendo
perfetto dall'inizio alla fine.
Alyssa Wong
è ovviamente una brava scrittrice perchè applica tutti quegli
elementi che i malvagi manuali di scrittura predicano per immergere
il lettore: una prima persona condotta in modo magistrale, fin dentro
al profondo dei sentimenti di Jen; dialoghi realistici, frammentati;
descrizioni precise e puntuali. All'inizio, nella prima pagina, si
riscontrano un paio di frasi un po' contorte, ma di lì in poi il
racconto scorre con meccanismi ben oliati. Fondamentale, con una
creatura come Jen, saper descrivere i sentimenti in dettaglio,
tratteggiando le sfumature più incerte di grigio.
Ho anche
apprezzato come l'universo di Figlie fameliche, per quanto contenuto
in poche pagine, sia anche autosufficiente, con una serie di piccoli
tocchi di worldbuilding (i barattoli, la trasmissione ereditaria).
Nonostante il racconto faccia in sé paura, o quantomeno incuta una
certa inquietudine, la Wong si mantiene dentro parametri pienamente
accettabili, senza splatter o grottesco. In effetti, tendo a
considerare Figlie fameliche una versione su carta dell'horror
cerebrale del Babadook.
Un'emozionata Alyssa Wong alla premiazione degli Alfie Awards, con George R. R. Martin |
La vita di
una famiglia di pescatori sul delta del Mekong: Lily,
la figlia maggiore, che aiuta il padre sul peschereccio; May che
vorrebbe sposare un ragazzo del villaggio e Iris che vorrebbe
diventare biologa marina. Non sanno chi sia la loro madre, anche se
una volta il padre, scherzando, ha detto che era una sirena.
Effettivamente la loro sarebbe una vita di stenti se non fosse per i
guadagni che derivano dal pescare le sirene. Sono pesci pericolosi,
furbi e pieni di malattie. Il morbido petto, così simile a quello
umano, è venduto a buon prezzo ai giapponesi avidi di questa
delicatezza culinaria. La famiglia di Lily prospera grazie alla
caccia alle sirene selvatiche e più ne trovano, più le loro
condizioni migliorano. Ovviamente, rimane quell'atroce dubbio:
scherzava, il padre, dicendo che sono da parte di madre, figlie di un
sirena?
La Regina
dei Pescatori è a un livello inferiore rispetto alle Figlie
fameliche, principalmente per la costruzione banale della trama.
Intuiamo già dall'inizio dove andrà a parare l'autrice, mentre in
Figlie fameliche la sorpresa era continua, pagina dopo pagina.
Ritroviamo tuttavia l'abilità della Wong nei personaggi e nei
sentimenti, stavolta arricchita dall'ambientazione: mentre Jen
si muoveva in un mondo impalpabile di grattacieli e Starbucks, Lily
agisce dentro un setting molto più dettagliato, dove si può
sentire il fango del delta e lo scoppiettio del motore del
peschereccio.
Trasformare
le sirene dalla creatura antropomorfa della Disney a un mostro
medievale era già stato tentato in precedenza, ma con risultati
spesso comici. La Wong invece riesce a tratteggiare una razza marina
inquietante, abbozzata scientificamente, ma con quel tanto di umano
da farci capire di trovarci ancora dentro una fiaba horror con
le sue regole. Abbiamo pertanto una classificazione delle diverse
sirene, due righe di spiegazione sulle loro abitudini alimentari; nel
contempo però l'occhio del “nativo”, di Lily, è conscio come
siano animali magici, imperscrutabili.
Un esempio
tra i tanti la seguente descrizione:
La maggior parte delle sirene impigliate nelle reti è pallida, con la coda argentea e il corpo sottile. Ma questa invece è marrone scuro, con la parte inferiore del corpo grossa, gonfia e goffa, che si conclude con una punta arrotondata invece che con una singola pinna. L'intero corpo è coperto da uno strato lucido e viscido, e da spine e appendici simili a rami. Dei baccelli rotondi e scheletrici le pendono dalla vita, ciascuno grosso quanto un neonato.
Peggio ancora, questo pesce ha un volto spaventosamente umano, con tanto di mento e collo ben definiti. Mentre tutte le sirene viste fino a quel momento avevano occhi distanti, posti ai lati della testa, quelli di questa creatura – enormi e bianchi come quei ricci di mare che chiamiamo dollari della sabbia – sono decisamente frontali. E, al contrario delle altre sirene, che boccheggiano, si dibattono e strillano sul ponte – e ci sono poche cose al mondo peggiori delle urla di una sirena – questa se ne sta distesa immobile, con le branchie che ancora pulsano.
La spada di
damocle inoltre della possibile discendenza matrilineare da questi
autentici mostri rende il rapporto con gli stessi morboso,
continuamente teso. Gli uomini sfruttano le sirene, le pescano, le
stuprano, le vendono ai giapponesi che le fanno a pezzi come con le
balene: eppure non riusciamo ad avere pietà per queste creature,
anzi proviamo solo il disgusto misto a fascinazione che sperimenta
Lily. Ad esempio, nel cinema Guillermo Del Toro ha spesso dato un
tono dark alle fiabe tradizionali, vedasi Il Labirinto del
Fauno, o lo stesso Hellboy. Tuttavia, i mostri di Del Toro restano
preferibili agli umani, causano compassione; non è così invece con
le sirene della Wong, che suscitano genuina inquietudine. Questa,
volendo, è anche la differenza tra fantasy (Del Toro) e
horror (Wong).
Il paragone
con le fiabe rimane comunque calzante, perchè a differenza delle
Figlie fameliche il racconto mantiene una morale e un certo
distacco dalle vicende. Mentre nel primo racconto Jen raccontava in
diretta agli eventi narrati, nel secondo Lily sta raccontando una
storia ormai passata, abbandonandosi persino a riflessioni e
occasionali divagazioni. Non a caso Figlie fameliche cattura molto
più de La Regina dei Pescatori, proprio per una pura questione di
tecnica e di stile di scrittura. Anzi, nella
costruzione delle vicende La Regina è anche superiore, ma quel tono
da “storia attorno al fuoco” lo svaluta fin da subito.
Anche così
entrambi i racconti restano due buoni esempi di horror raffinato e
inquietante, senza ricorrere ai bau bau gotici o ai rigurgiti verbali
che vanno tanto di moda dalle nostre parti.
2 commenti:
Nonostante l'horror non sia il mio genere, ho trovato tutto molto interessante.
Sopratutto sulla descrizione delle sirene, che ho letto poco delle loro versioni mostruose. Alyssa Wong me la segno
@Marco Grande Arbitro
Non è certo la sirenetta della Disney, puoi starne certo! ;)
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