Il saggio di
economia di Ha-Joon Chang, sud koreano insegnante all'Università, si
presenta col peggiore titolo possibile: 23 Things They Don't Tell You
About Capitalism.
Quel
“ventitré” sembra richiamare certi articoli di giornale e certe
catene di sant'antonio – 10 cose che rivoluzioneranno la tua vita!
5 semplici passi per diventare ricco sfondato! – mentre dall'altro
quel “non vi racconteranno” sembra alludere a chissà quale
conoscenza esoterica.
Scelta
infelice o meno, è il genere di titoli che va di moda col mondo
anglosassone, il saggio di Ha-Joon Chang è invece un testo pacato e
misurato, davvero un buon saggio a favore dell'intervento dello stato
nell'economia e di contro alle misure più pesanti del neoliberalismo
inaugurato dagli anni '80 e gonfiatosi nei '90 delle diverse bolle
finanziarie che continuano a scoppiarci in faccia.
Si vede che
Ha-Joon Chang è un insegnante, perchè l'inglese è semplice,
fluente, capace di spiegare in tanti passaggi operazioni altrimenti
facilmente incomprensibili, specie in un mondo quale la finanza
internazionale, che proprio di questa incomprensibilità si
avvantaggia.
Il saggio
vede 23 capitoli, che corrispondono a 23 “miti” neoliberali.
Il mito è
descritto nel primo paragrafo – What they tell you – dove
l'argomento è descritto adottando il punto di vista di un suo
sostenitore, con particolare enfasi. Ad esempio, la necessità di
tagliare le tasse alla classe dei milionari e dei miliardari, perchè
possano investire e creare lavoro, generando ricchezza “a cascata”,
la voodoo economics di Reagan. Oppure, la convinzione che le industrie
manifatturiere nel mondo post industriale non contino più,
prevalendo i “servizi”. O ancora: i paesi del terzo mondo sono
tali perchè pigri, poveri, in climi inadatti e senza politiche di
apertura al mercato... ecc ecc
Il secondo
paragrafo – What they don't tell you – controbatte e demolisce
argomento dopo argomento il “mito” sostenuto nella prima parte,
proseguendo poi a fornire degli approfondimenti e alcune possibili
soluzioni. La struttura, semplicissima e agile, si presta sia essere
sfogliata che alla rapida consultazione, con l'autore stesso che fa
riferimento a 14 Thing o 5 Thing come rimando e collegamento al
testo. La successione dopo la 10 Thing diventa martellante e
nonostante l'autore debba essere una persona affabile, il sarcasmo è
davvero graffiante.
L'aspetto
più importante che va tenuto bene in mente è come Ha-Joon Chang non
sia un comunista, o un tradizionalista, o uno stalinista: accetta il
capitalismo come il minore dei mali, ma ne rifiuta l'incarnazione
attuale neoliberale. L'ammirazione verso i paesi del Sud Oriente
asiatico, Taiwan, Singapore, la Corea del Sud, la stessa Cina (con
qualche riserva) e sopratutto il modello per eccellenza, il Giappone,
traspare chiaramente. Sul versante europeo, ossessivo è il
riferimento ai paesi nordici e in parte del centro Europa, con le
ironiche comparazioni alla situazione americana.
Molti
recensori lo accusano di avere un debole per le industrie pesanti e
il modello nipponico: può essere, ma sono posizioni sempre
argomentate e sempre caute.
A me
interessa quanto Ha-Joon Chang sostiene nel testo, non di quale
colore sia la sua casacca. Che poi la casacca capitalista ne esca
ovviamente insozzata di merda ci rende felici, ma non è questo un
saggio di politica o di discussione filosofica.
Il fine
ultimo del saggio è chiaro già nel preambolo:
Tuttavia, per noi non è necessario comprendere tutti i dettagli tecnici per poter comprendere cosa sta succedendo nel mondo e poter esercitare quanto chiamo “un'attiva cittadinanza economica”, per esigere il giusto corso d'azione da coloro che sono nelle posizioni di potere.
Cui segue
una breve digressione che è stata uno dei motivi che mi ha portato a
leggere il saggio:
Dopotutto, formuliamo giudizi su ogni genere di problema senza averne le competenze tecniche. Non occorre essere esperti epidemiologi per capire che dovrebbero esserci degli standard di igiene nelle fabbriche di alimentari, nei macelli e nei ristoranti. Giudicare l'economia non è affatto diverso: una volta che si conoscono i principi chiave e i fatti base, si può formulare un giudizio anche duro senza conoscerne i dettagli tecnici. L'unico prerequisito è che siate disposti a togliervi quegli occhiali dalle lenti colorate di rosa che l'ideologia neo-liberale vuole che indossiate ogni giorno. Gli occhiali fanno sembrare il mondo un luogo semplice e carino. Ma toglieteli e vi ritroverete a fissare la luce aspra della realtà.
(...)
95 per cento dell'economia è semplice buon senso reso complicato, e anche per quel 5 per cento restante, il ragionamento base, se non i dettagli tecnici, può essere spiegato con semplici parole.
Ha-Joon Chang |
Amen. Se c'è
un materia verso cui ho sempre avuto un vero rigetto, ritenendola
incomprensibile, è l'economia “alta”, del mondo della finanza e
simili. Forse solo alcuni ambiti dell'ingegneria mi spaventano
altrettanto, con l'eccezione che nel loro caso il metodo scientifico
garantisce risultati, non propaganda. Quindi leggere un passaggio
simile, nella versione poi inglese, non la mia mediocre traduzione...
è stato davvero un sollievo. Certo, conosco molti studenti di
umanistica che criticano “l'economia” (ammesso che abbia senso un
termine così vago) ma la prospettiva che offrono è un rigetto misto
all'ignoranza, è un non-so-cos'è = cattivo. Non è possibile
comportarsi così e scamparla, c'è bisogno di aver studiato almeno
un minimo l'argomento.
In tal senso, sia Chomsky, che Alain de Benoist (filosofi lontanissimi, in ideologia) hanno compiuto operazioni simili a Ha-Joon Chang, criticando aspetti che ritenevano criticabili anche senza una perfetta conoscenza dell'economia.
Ovviamente,
l'aspetto più interessante sono le diverse comparazioni storiche
sfruttate dall'autore per smentire le tesi neoliberali.
Nell'ambito
del miracolo giapponese troviamo ad esempio il discorso del leader
dell'Acciaio Kobe, a metà anni '90, quando al sentire gli economisti
in aula che definivano l'uomo un essere egoista che ragiona solo in
termini di mezzi-fini, calcolo-guadagno si alzò in piedi a fare un
discorsetto alquanto pungente:
(ovviamente, lo sto parafrasando): “Mi dispiace dovervelo dire, ma voi economisti non capite come funziona il mondo reale. Ho un PhD in metallurgia e tre decenni di lavoro nel settore con l'Acciaio Kobe, per cui credo di sapere una cosa o due su come si fa l'acciaio.
Tuttavia, la mia azienda è diventata così grande e complessa che nemmeno io capisco più della metà delle cose che vi stanno succedendo. Per quanto riguarda gli altri manager – con background nel settore contabilità e vendite – non ne hanno davvero idea, tanto quanto me. Nonostante ciò, la nostra Camera dei direttori approva periodicamente la maggior parte dei progetti presentati dai nostri sottoposti, perché crediamo che i nostri sottoposti lavorino per il bene dell'azienda. Se ipotizzassimo che siano tutti interessati solo a promuovere i propri fini e mettessimo in discussione i reali motivi dei nostri impiegati tutto il tempo, l'azienda resterebbe ferma, perché spenderemmo tutto il nostro tempo ad analizzare progetti che veramente non comprendiamo. Non puoi gestire una vasta organizzazione burocratica come l'Acciaio Kobe o il tuo governo, se dai per scontato che sono tutti egoisti.”
I
riferimenti alla Gran Bretagna come colosso non tanto industriale
quanto manifatturiero del XIX secolo sono da leggere con particolare
attenzione.
E'
significativo come l'Inghilterra abbia adottato il “libero mercato”
solo dal 1860, quando il suo apparato industriale era completamente
sviluppato. La sua età dell'oro, dal 1720 al 1850, vede rigide
politiche doganali, a tutti gli effetti una potente forma di
protezionismo. Per altro, osservazione personale, anche nel secolo
successivo il carattere coloniale dell'economia inglese impedisce di
parlare di un vero libero mercato, perchè le crisi di
sovrapproduzione possono essere riversate in India o in Africa. E'
facile essere liberali con alle spalle delle discariche umane in cui
riversare i prodotti in eccedenza o da cui trarre materie prime a
prezzo zero.
Anche così,
la crescita industriale nei decenni successivi al free trade
diminuisce sensibilmente.
L'Inghilterra
vittoriana offre buoni argomenti anche nel campo dell'industria. E'
un luogo comune che viviamo in un'epoca post moderna dove prevale il
settore dei servizi rispetto alle fabbriche. E' vero che l'Europa e
gli Stati Uniti si sono spostati in quella direzione, ma è
altrettanto vero che “vendere” un servizio o una competenza si
sta rivelando molto più arduo (potremmo dire impossibile) rispetto
alla semplice produzione di un manufatto da esportare.
In linea
generale le politiche che consideravano obsoleto l'apparato
industriale rispetto al terziario hanno causato e continuano a
causare un'inflazione nelle lauree e nei titoli di studio (non mi
interessa studiare, ma senza una laurea, ormai... ecc ecc) oltre a
causare elevati tassi di disoccupazione (la Gran Bretagna degli
yuppies degli anni '80 è una Gran Bretagna che rinuncia a
produrre beni a favore di un'economia “virtuale” devastante per
la gente comune).
Tutti i
paesi che si citano spesso come “modelli” di crescita economica,
da Singapore, alla Svizzera, alla Finlandia, alla Svezia, per quanto
diversi condividono un'altissima produzione industriale di qualità.
La Svizzera ad esempio, impiega una buon totalità dei suoi 7 milioni
di abitanti per produrre macchinari e agenti chimici fortemente
richiesti dalle aziende di tutto il mondo. Non esiste solo il bene di
consumo, esistono anche altri prodotti usati nei più svariati ambiti
che non devono per forza essere cinesi. Il motivo per cui tutto
sembra fabbricato in Cina è che tutto quello che consumiamo è lì
fabbricato (con rilevanti eccezioni), ma questo non vuol dire che non
vi siano altri beni che vengono prodotti altrove e risultano
altrettanto importanti.
Questa
sensazione che la Cina sia diventata la “fabbrica del mondo”
oltre a confermare che una crescita economica è legata all'industria
manifatturiera, è anche sbagliata.
Nel XIX
secolo l'appellativo “workshop of the world” apparteneva
all'Inghilterra. Nel 1860, le fabbriche britanniche producevano il 60
per cento dei manufatti mondiali, nel 1870, su scala globale, il 46
per cento. Attualmente la Cina produce solo il 17 per cento della
produzione mondiale di beni (stando al 2007), una percentuale
ridicola se contrapposta all'egemonia inglese nell'Ottocento.
La
convinzione che Internet e i progressi nelle comunicazioni dei
diversi mass media abbiano causato cambiamenti irreversibili ed
epocali è altrettanto sbagliata.
In termini
di cambiamenti nella struttura della famiglia e della società, gli
elettrodomestici d'inizio '900 hanno causato cambiamenti molto più
radicali. La servitù in età moderna e nell'ottocento era dovuta
anche all'oggettivo bisogno di un gran numero di attività che il
“signore” non avrebbe potuto svolgere senza perdere l'intera
giornata. La servitù era così capillarmente diffusa proprio perchè
necessaria alla “vita oziosa” del gentleman o alla gestione da
scrivania dell'azienda (nel caso degli imprenditori vittoriani, ad
esempio). Avete idea di quanto tempo consumi lavare degli indumenti
senza una lavatrice? Senza parlare del risparmio di tempo consentito
da un allacciamento al gas, o dalla lavastoviglie, o
dall'aspirapolvere.
Probabilmente
non verrà mai accettato dalle femministe che nella sua primissima
fase l'elettrodomestico abbia permesso l'emancipazione molto più del
diritto di voto. Più tempo si traduce in maggiore libertà, più
libertà nella possibilità di lavorare per proprio conto senza
“dipendere” da altri, avere un lavoro vuol dire avere maggiore
autonomia ecc ecc
E' ovvio che
ad esempio negli anni '50 l'elettrodomestico aveva perso la sua
carica “eversiva” e accompagnava la segregazione della donna in
famiglia.
Stando a un
censimento del 1945 della US Rural Electrification Authority, i tempi
per lavare 38 libbre (17 chili) di vestiti si riducevano di sei volte con
la lavatrice passando da quattro ore di lavaggi a mano a 41 minuti (e
stiamo usando dati relativi agli elettrodomestici degli anni '40, non
esattamente dei modelli di risparmio...). Il ferro da stiro del '45
fa risparmiare più della metà del tempo, passando da quattro ore e
mezza a un'ora e tre quarti. Non male, no? Senza considerare i
vantaggi dell'alfabetizzazione derivanti dall'illuminazione elettrica
(più tempo per leggere, almeno una volta), o dell'acqua da
rubinetto, o della doccia ecc ecc
Questo
genere di invenzioni che piace considerare volgari ci hanno cambiato
la vita molto più di Internet, Google & Company. Nel 1906,
l'impiegato statale Mr I. M. Rubinow osservava correttamente che la
lavastoviglie di sua invenzione sarebbe stata “una vera
benefattrice dell'umanità”, profezia per una volta correttissima.
Anche nel
campo delle telecomunicazioni Internet risulta battuta, persino
dall'umile telegrafo.
Ci volevano
tre settimane per trasmettere un messaggio attraverso l'Oceano
Atlantico prima del cavo trans-atlantico del 1866. A bordo di un
piroscafo, due settimane forse.
Con il
telegrafo si trasmettono 40 parole al minuto, anche meno con degli
addetti esperti. In media, per trasmettere un messaggio di 300 parole
ci vogliono 7 minuti e 30 secondi.
Passare da
due settimane a 7 minuti e trenta si traduce in un risparmio di tempo
2500 volte minore.
Con Internet
per trasmettere un messaggio di 300 parole si passa dai 10 secondi
del Fax ai 2 secondi dell'email. Il tempo di trasmissione è solo 5
volte minore. Certo, Internet è preferibile per i lunghi messaggi
(ma c'è poi qualcuno che li legge? E se Twitter fosse in realtà
nata per il telegrafo? ^__^) senza ovviamente contare i social
e la possibilità d'inviare immagini.
Ma per
quanto riguarda l'accelerazione di trasmissione e la portata
rivoluzionaria, la trasmissione via cavo del telegrafo conta molto
più di tutte le app e le Reti del mondo.
Ovviamente,
è innegabile che Internet apra nuove prospettive, nuove occasioni di
lavoro. Dobbiamo però anche renderci conto che è tipico di ogni
generazione esaltare le ultime novità come “rivoluzionarie”,
indifferenti quali siano.
Il problema
è quando i governi, esaltati dal babble neoliberale di
Internet “rivoluzionario” trascurano e cancellano investimenti in
settori magari meno “chic” ma certo più importanti.
2 commenti:
Ancora una volta rimango a bocca aperta dinanzi i tuoi post.
Sei un blogger con "due palle così", ti ammiro un casino :D
Insomma, Arbitro non esageriamo... E' più merito dell'autore che mio. ^^
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