lunedì 1 agosto 2016

Ventitré cose che non vi dicono sul capitalismo secondo Ha-Joon Chang


Il saggio di economia di Ha-Joon Chang, sud koreano insegnante all'Università, si presenta col peggiore titolo possibile: 23 Things They Don't Tell You About Capitalism.
Quel “ventitré” sembra richiamare certi articoli di giornale e certe catene di sant'antonio – 10 cose che rivoluzioneranno la tua vita! 5 semplici passi per diventare ricco sfondato! – mentre dall'altro quel “non vi racconteranno” sembra alludere a chissà quale conoscenza esoterica.
Scelta infelice o meno, è il genere di titoli che va di moda col mondo anglosassone, il saggio di Ha-Joon Chang è invece un testo pacato e misurato, davvero un buon saggio a favore dell'intervento dello stato nell'economia e di contro alle misure più pesanti del neoliberalismo inaugurato dagli anni '80 e gonfiatosi nei '90 delle diverse bolle finanziarie che continuano a scoppiarci in faccia.
Si vede che Ha-Joon Chang è un insegnante, perchè l'inglese è semplice, fluente, capace di spiegare in tanti passaggi operazioni altrimenti facilmente incomprensibili, specie in un mondo quale la finanza internazionale, che proprio di questa incomprensibilità si avvantaggia.

Il saggio vede 23 capitoli, che corrispondono a 23miti” neoliberali.
Il mito è descritto nel primo paragrafo – What they tell you – dove l'argomento è descritto adottando il punto di vista di un suo sostenitore, con particolare enfasi. Ad esempio, la necessità di tagliare le tasse alla classe dei milionari e dei miliardari, perchè possano investire e creare lavoro, generando ricchezza “a cascata”, la voodoo economics di Reagan. Oppure, la convinzione che le industrie manifatturiere nel mondo post industriale non contino più, prevalendo i “servizi”. O ancora: i paesi del terzo mondo sono tali perchè pigri, poveri, in climi inadatti e senza politiche di apertura al mercato... ecc ecc
Il secondo paragrafo – What they don't tell you – controbatte e demolisce argomento dopo argomento il “mito” sostenuto nella prima parte, proseguendo poi a fornire degli approfondimenti e alcune possibili soluzioni. La struttura, semplicissima e agile, si presta sia essere sfogliata che alla rapida consultazione, con l'autore stesso che fa riferimento a 14 Thing o 5 Thing come rimando e collegamento al testo. La successione dopo la 10 Thing diventa martellante e nonostante l'autore debba essere una persona affabile, il sarcasmo è davvero graffiante.

L'aspetto più importante che va tenuto bene in mente è come Ha-Joon Chang non sia un comunista, o un tradizionalista, o uno stalinista: accetta il capitalismo come il minore dei mali, ma ne rifiuta l'incarnazione attuale neoliberale. L'ammirazione verso i paesi del Sud Oriente asiatico, Taiwan, Singapore, la Corea del Sud, la stessa Cina (con qualche riserva) e sopratutto il modello per eccellenza, il Giappone, traspare chiaramente. Sul versante europeo, ossessivo è il riferimento ai paesi nordici e in parte del centro Europa, con le ironiche comparazioni alla situazione americana.
Molti recensori lo accusano di avere un debole per le industrie pesanti e il modello nipponico: può essere, ma sono posizioni sempre argomentate e sempre caute.
A me interessa quanto Ha-Joon Chang sostiene nel testo, non di quale colore sia la sua casacca. Che poi la casacca capitalista ne esca ovviamente insozzata di merda ci rende felici, ma non è questo un saggio di politica o di discussione filosofica.

Il fine ultimo del saggio è chiaro già nel preambolo:
Tuttavia, per noi non è necessario comprendere tutti i dettagli tecnici per poter comprendere cosa sta succedendo nel mondo e poter esercitare quanto chiamo “un'attiva cittadinanza economica”, per esigere il giusto corso d'azione da coloro che sono nelle posizioni di potere.

Cui segue una breve digressione che è stata uno dei motivi che mi ha portato a leggere il saggio:
Dopotutto, formuliamo giudizi su ogni genere di problema senza averne le competenze tecniche. Non occorre essere esperti epidemiologi per capire che dovrebbero esserci degli standard di igiene nelle fabbriche di alimentari, nei macelli e nei ristoranti. Giudicare l'economia non è affatto diverso: una volta che si conoscono i principi chiave e i fatti base, si può formulare un giudizio anche duro senza conoscerne i dettagli tecnici. L'unico prerequisito è che siate disposti a togliervi quegli occhiali dalle lenti colorate di rosa che l'ideologia neo-liberale vuole che indossiate ogni giorno. Gli occhiali fanno sembrare il mondo un luogo semplice e carino. Ma toglieteli e vi ritroverete a fissare la luce aspra della realtà.

(...)
95 per cento dell'economia è semplice buon senso reso complicato, e anche per quel 5 per cento restante, il ragionamento base, se non i dettagli tecnici, può essere spiegato con semplici parole.

Ha-Joon Chang
Amen. Se c'è un materia verso cui ho sempre avuto un vero rigetto, ritenendola incomprensibile, è l'economia “alta”, del mondo della finanza e simili. Forse solo alcuni ambiti dell'ingegneria mi spaventano altrettanto, con l'eccezione che nel loro caso il metodo scientifico garantisce risultati, non propaganda. Quindi leggere un passaggio simile, nella versione poi inglese, non la mia mediocre traduzione... è stato davvero un sollievo. Certo, conosco molti studenti di umanistica che criticano “l'economia” (ammesso che abbia senso un termine così vago) ma la prospettiva che offrono è un rigetto misto all'ignoranza, è un non-so-cos'è = cattivo. Non è possibile comportarsi così e scamparla, c'è bisogno di aver studiato almeno un minimo l'argomento. 
In tal senso, sia Chomsky, che Alain de Benoist (filosofi lontanissimi, in ideologia) hanno compiuto operazioni simili a Ha-Joon Chang, criticando aspetti che ritenevano criticabili anche senza una perfetta conoscenza dell'economia.


Ovviamente, l'aspetto più interessante sono le diverse comparazioni storiche sfruttate dall'autore per smentire le tesi neoliberali.
Nell'ambito del miracolo giapponese troviamo ad esempio il discorso del leader dell'Acciaio Kobe, a metà anni '90, quando al sentire gli economisti in aula che definivano l'uomo un essere egoista che ragiona solo in termini di mezzi-fini, calcolo-guadagno si alzò in piedi a fare un discorsetto alquanto pungente:
(ovviamente, lo sto parafrasando): “Mi dispiace dovervelo dire, ma voi economisti non capite come funziona il mondo reale. Ho un PhD in metallurgia e tre decenni di lavoro nel settore con l'Acciaio Kobe, per cui credo di sapere una cosa o due su come si fa l'acciaio.
Tuttavia, la mia azienda è diventata così grande e complessa che nemmeno io capisco più della metà delle cose che vi stanno succedendo. Per quanto riguarda gli altri manager – con background nel settore contabilità e vendite – non ne hanno davvero idea, tanto quanto me. Nonostante ciò, la nostra Camera dei direttori approva periodicamente la maggior parte dei progetti presentati dai nostri sottoposti, perché crediamo che i nostri sottoposti lavorino per il bene dell'azienda. Se ipotizzassimo che siano tutti interessati solo a promuovere i propri fini e mettessimo in discussione i reali motivi dei nostri impiegati tutto il tempo, l'azienda resterebbe ferma, perché spenderemmo tutto il nostro tempo ad analizzare progetti che veramente non comprendiamo. Non puoi gestire una vasta organizzazione burocratica come l'Acciaio Kobe o il tuo governo, se dai per scontato che sono tutti egoisti.”
I riferimenti alla Gran Bretagna come colosso non tanto industriale quanto manifatturiero del XIX secolo sono da leggere con particolare attenzione.
E' significativo come l'Inghilterra abbia adottato il “libero mercato” solo dal 1860, quando il suo apparato industriale era completamente sviluppato. La sua età dell'oro, dal 1720 al 1850, vede rigide politiche doganali, a tutti gli effetti una potente forma di protezionismo. Per altro, osservazione personale, anche nel secolo successivo il carattere coloniale dell'economia inglese impedisce di parlare di un vero libero mercato, perchè le crisi di sovrapproduzione possono essere riversate in India o in Africa. E' facile essere liberali con alle spalle delle discariche umane in cui riversare i prodotti in eccedenza o da cui trarre materie prime a prezzo zero.
Anche così, la crescita industriale nei decenni successivi al free trade diminuisce sensibilmente.

L'Inghilterra vittoriana offre buoni argomenti anche nel campo dell'industria. E' un luogo comune che viviamo in un'epoca post moderna dove prevale il settore dei servizi rispetto alle fabbriche. E' vero che l'Europa e gli Stati Uniti si sono spostati in quella direzione, ma è altrettanto vero che “vendere” un servizio o una competenza si sta rivelando molto più arduo (potremmo dire impossibile) rispetto alla semplice produzione di un manufatto da esportare.
In linea generale le politiche che consideravano obsoleto l'apparato industriale rispetto al terziario hanno causato e continuano a causare un'inflazione nelle lauree e nei titoli di studio (non mi interessa studiare, ma senza una laurea, ormai... ecc ecc) oltre a causare elevati tassi di disoccupazione (la Gran Bretagna degli yuppies degli anni '80 è una Gran Bretagna che rinuncia a produrre beni a favore di un'economia “virtuale” devastante per la gente comune).
Tutti i paesi che si citano spesso come “modelli” di crescita economica, da Singapore, alla Svizzera, alla Finlandia, alla Svezia, per quanto diversi condividono un'altissima produzione industriale di qualità. La Svizzera ad esempio, impiega una buon totalità dei suoi 7 milioni di abitanti per produrre macchinari e agenti chimici fortemente richiesti dalle aziende di tutto il mondo. Non esiste solo il bene di consumo, esistono anche altri prodotti usati nei più svariati ambiti che non devono per forza essere cinesi. Il motivo per cui tutto sembra fabbricato in Cina è che tutto quello che consumiamo è lì fabbricato (con rilevanti eccezioni), ma questo non vuol dire che non vi siano altri beni che vengono prodotti altrove e risultano altrettanto importanti.
Questa sensazione che la Cina sia diventata la “fabbrica del mondo” oltre a confermare che una crescita economica è legata all'industria manifatturiera, è anche sbagliata.
Nel XIX secolo l'appellativo “workshop of the world” apparteneva all'Inghilterra. Nel 1860, le fabbriche britanniche producevano il 60 per cento dei manufatti mondiali, nel 1870, su scala globale, il 46 per cento. Attualmente la Cina produce solo il 17 per cento della produzione mondiale di beni (stando al 2007), una percentuale ridicola se contrapposta all'egemonia inglese nell'Ottocento.


La convinzione che Internet e i progressi nelle comunicazioni dei diversi mass media abbiano causato cambiamenti irreversibili ed epocali è altrettanto sbagliata.
In termini di cambiamenti nella struttura della famiglia e della società, gli elettrodomestici d'inizio '900 hanno causato cambiamenti molto più radicali. La servitù in età moderna e nell'ottocento era dovuta anche all'oggettivo bisogno di un gran numero di attività che il “signore” non avrebbe potuto svolgere senza perdere l'intera giornata. La servitù era così capillarmente diffusa proprio perchè necessaria alla “vita oziosa” del gentleman o alla gestione da scrivania dell'azienda (nel caso degli imprenditori vittoriani, ad esempio). Avete idea di quanto tempo consumi lavare degli indumenti senza una lavatrice? Senza parlare del risparmio di tempo consentito da un allacciamento al gas, o dalla lavastoviglie, o dall'aspirapolvere.
Probabilmente non verrà mai accettato dalle femministe che nella sua primissima fase l'elettrodomestico abbia permesso l'emancipazione molto più del diritto di voto. Più tempo si traduce in maggiore libertà, più libertà nella possibilità di lavorare per proprio conto senza “dipendere” da altri, avere un lavoro vuol dire avere maggiore autonomia ecc ecc
E' ovvio che ad esempio negli anni '50 l'elettrodomestico aveva perso la sua carica “eversiva” e accompagnava la segregazione della donna in famiglia.
Stando a un censimento del 1945 della US Rural Electrification Authority, i tempi per lavare 38 libbre (17 chili) di vestiti si riducevano di sei volte con la lavatrice passando da quattro ore di lavaggi a mano a 41 minuti (e stiamo usando dati relativi agli elettrodomestici degli anni '40, non esattamente dei modelli di risparmio...). Il ferro da stiro del '45 fa risparmiare più della metà del tempo, passando da quattro ore e mezza a un'ora e tre quarti. Non male, no? Senza considerare i vantaggi dell'alfabetizzazione derivanti dall'illuminazione elettrica (più tempo per leggere, almeno una volta), o dell'acqua da rubinetto, o della doccia ecc ecc
Questo genere di invenzioni che piace considerare volgari ci hanno cambiato la vita molto più di Internet, Google & Company. Nel 1906, l'impiegato statale Mr I. M. Rubinow osservava correttamente che la lavastoviglie di sua invenzione sarebbe stata “una vera benefattrice dell'umanità”, profezia per una volta correttissima.

Anche nel campo delle telecomunicazioni Internet risulta battuta, persino dall'umile telegrafo.
Ci volevano tre settimane per trasmettere un messaggio attraverso l'Oceano Atlantico prima del cavo trans-atlantico del 1866. A bordo di un piroscafo, due settimane forse.
Con il telegrafo si trasmettono 40 parole al minuto, anche meno con degli addetti esperti. In media, per trasmettere un messaggio di 300 parole ci vogliono 7 minuti e 30 secondi.
Passare da due settimane a 7 minuti e trenta si traduce in un risparmio di tempo 2500 volte minore.
Con Internet per trasmettere un messaggio di 300 parole si passa dai 10 secondi del Fax ai 2 secondi dell'email. Il tempo di trasmissione è solo 5 volte minore. Certo, Internet è preferibile per i lunghi messaggi (ma c'è poi qualcuno che li legge? E se Twitter fosse in realtà nata per il telegrafo? ^__^) senza ovviamente contare i social e la possibilità d'inviare immagini.
Ma per quanto riguarda l'accelerazione di trasmissione e la portata rivoluzionaria, la trasmissione via cavo del telegrafo conta molto più di tutte le app e le Reti del mondo.
Ovviamente, è innegabile che Internet apra nuove prospettive, nuove occasioni di lavoro. Dobbiamo però anche renderci conto che è tipico di ogni generazione esaltare le ultime novità come “rivoluzionarie”, indifferenti quali siano.

Il problema è quando i governi, esaltati dal babble neoliberale di Internet “rivoluzionario” trascurano e cancellano investimenti in settori magari meno “chic” ma certo più importanti.
   

2 commenti:

Marco Grande Arbitro ha detto...

Ancora una volta rimango a bocca aperta dinanzi i tuoi post.
Sei un blogger con "due palle così", ti ammiro un casino :D

Coscienza ha detto...

Insomma, Arbitro non esageriamo... E' più merito dell'autore che mio. ^^