Si continua a ripetere
che l'E3 ha perso il suo smalto, che è ormai superfluo, che altre
fiere e altre occasioni sono le vere occasioni per le anteprime
videoludiche più succose.
Sarà pur vero, ma il semplice numero di
visitatori e di hype che ammanta ogni anno la fiera contraddice
questo fatto: l'E3 continua a contare. Non quanto il passato, certo,
ma se per due settimane il coverage dei siti e dei giornali
copre l'evento... well, forse un motivo ci sarà.
Forse è il caso di
dirlo: l'E3 è morto, lunga vita all'E3.
Nel caso dell'E3 2016
ho scelto di analizzare solo alcuni dei giochi presentati, preferendo
approfondire i singoli casi piuttosto che regalarvi l'ennesima
carrellata-plagio dai siti generalisti.
Nonostante alcune
cospicue assenze – ci speravo davvero in Cyberpunk 2020, ma niente
da fare – non manca certo materiale di cui discutere.
Incominciamo da un
classico di questo blog, la prima guerra mondiale...
L'esaltazione della
modernità: Battlefield 1
Il nuovo Battlefield
aveva catturato la mia attenzione già in quel lontano maggio in cui
era stato rilasciato il primo trailer e il gameplay e la presentazione di questo E3 2016 non hanno che confermato le prime,
buone impressioni.
Sembra davvero un gran
gioco, anzi un grandissimo gioco. L'aspetto che certamente affascina
è il modo con cui hanno trasformato un conflitto “statico” per
eccellenza in un gameplay estremamente veloce. Guardate i trailer,
seguite i gameplay: non esiste un singolo momento di pausa, un
singolo stacco di calma. Endless violence.
Ovviamente, i Dice
Studios hanno giocato delle carte truccate: anziché dispiegare la
fanteria di trincea del 1914-15 si sono spostati agli ultimi anni,
dando pieno dispiego della tecnologizzazione del 1917-18.
Female and Male Tank?
Tankette? Renault F17? A7V? Biplani? Triplani? Zeppellin? Blimp?
Treni? Treni corazzati? Assalti di cavalleria? Oh yeah!
Una guerra di
posizione, lenta e statica, viene trasformata dai trailer di
Battlefield in una guerra di velocità, in quell'elaine, quel
turbine di acciaio e carne così magnificamente descritto da Ernst
Junger. Siamo nell'esaltazione della modernità, in un vortice di
turbine di avviamento, di eliche in fiamme, di autoblindo
all'attacco.
Spaesati? Confusi?
Senza dubbio vi contribuisce il variare dell'ambientazione: accanto
al fango francese cui tutti associamo la prima guerra mondiale ci
ritroviamo a volare tra le Alpi, a sorvolare il mare del nord, ad
arrancare caviglie nella sabbia del Medio Oriente.
Solo un'estrema
ignoranza dei fronti della grande guerra potrebbe far pensare che
tutto ciò sia una forzatura: tra Gallipoli, l'attuale Iran e gli
scontri aero-navali tra Inghilterra e Germania ritroviamo materiale
sia storico, che giocabile. In effetti, se citiamo il fronte
orientale al collasso, le manovre nei Balcani e in Grecia, come la
guerriglia in Africa... ci rendiamo subito conto che abbiamo appena
scalfito la cresta dell'iceberg.
Quest'aspetto – la
velocità – non sembra finora in contraddizione con un'altra
caratteristica presentata dai trailer, ovvero il feeling di armi e
armature: grezzo, spesso, pesante. Forse è questa, la seconda
caratteristica più evidente, dalle anteprime: la “pesantezza”
dell'equipaggiamento. Dai caschi con visiera medievale, alla
diversità delle armi a seconda di esercito e reparto, allo spessore
delle corazze e dei proiettili. Ogni elemento sembra proiettare lo
spettatore/giocatore in un universo brutale, dove armi ancora in via
di sperimentazione sono gettate nella mischia a terrificante
velocità. Si veda l'impatto dell'artiglieria, il design (im)pratico
di molte armi, la carica alla baionetta.
Alla “velocità” e
alla “pesantezza”, paradossalmente paralleli tra loro, gli
sviluppatori citavano a ragione la scarsa visibilità: sia nella
protezioni personali che a bordo dei tank la visuale sarà
bassissima, a rigore coll'epoca.
Questo certo non per
sottolineare chissà quale valore artistico o storico di Battlefield,
che rimane uno sparatutto, il cui focus è il multiplayer (con
zeppellin che ti esplodono sulla testa!) e la cui campagna single
player, di cui ancora non sappiamo nulla, sarà probabilmente breve,
senza carattere: sei missioni, sei ore di gioco o anche meno. Non mi
faccio illusioni, nonostante sia proprio l'avventura in solitaria che
mi potrebbe interessare in un titolo del genere.
Tanto fumo, niente
arrosto: Mass Effect Andromeda
Allo scorso E3, il
nuovo Mass Effect della Bioware era pressoché inesistente, un cumulo
di vaghe promesse pronunciate – sommo dell'ironia – da una casa
di produzione che ha fatto proprio delle promesse mendaci il suo
marchio di fabbrica. C'è chi ha perdonato i tre finali di tre colori
diversi di Mass Effect 3, come le promesse dell'orrido bambino
paranormale, alias abbiamo-finito-le-idee.
Beh, non sono tra quei
giocatori. Il modo con cui la Bioware pompa i suoi videogiochi fino a
farli detonare come il summenzionato zeppellin di Battlefield 1 è
estremamente ridicolo.
Perchè, quando si
tratta della Bioware, ogni promessa non è debito: è DLC.
Cosa sappiamo, per
davvero, di questo nuovo Mass Effect Andromeda?
Niente, non sappiamo
un'Asari di niente. Tornerà il Mako, uno dei tanti elementi
ruolistici depennati dalla rovinosa svolta action di Mass Effect 2.
Tornerà si presume la Cittadella. Girano voci che la tematica del nuovo Mass Effect sarà il colonialismo. Ovviamente noi europei
sappiamo che per colonialismo si intende piantare una colonia in un
territorio, usanza di origine romana che non deve per forza
presupporre razzismo, genocidio, espropriazioni di terre dei nativi
ecc ecc Colonialismo, in questo caso, nel senso di esplorare nuovi
pianeti, stabilire nuove civilizzazioni, intrattenere rapporti –
non sempre amichevoli – con gli autoctoni. Ma ovviamente gli
americani, al sentire “colonialismo” si sono subito gettati nelle
polemiche, con il risultato che la Bioware ha fatto marcia indietro
sul termine e sembra, anche sulla storia in sé. Possiamo quanto meno
presumere che il nuovo Mass Effect tornerà all'esplorazione del
primo capitolo della trilogia, nello stile di quello Star Trek da cui
plagia personaggi, ambientazione e tecnologia. Non fate quella
faccia, sarebbe un plagio palese se non fosse che chi gioca Mass
Effect è troppo giovane per conoscere le vecchie serie tv (non i
film) cui la Bioware si ispira, mentre chi conosce le serie ha
superato in abbondanza il target dei videogiocatori.
Qualcuno ha seguito il
battage pubblicitario seguito a Dragon Age: Inquisition? Io sì. Un
mondo liberamente esplorabile, conseguenze a lungo termine, non rami
di soluzioni possibili, ma intere foreste di finali alternativi e
scelte morali. Promettente, se non fosse che l'attuale Dragon Age è
una sequenza di corridoi e stanze con nemici da combattere: l'unico
suo vanto è la pura quantità di cose da fare, tutte parimenti
noiose.
Mantenere, almeno in minima parte, le proprie promesse? Roba
da polacchi idealisti come i CD Projekt.
Mass Effect Andromeda è
questo: un bel mucchio fumante di promesse.
La nobile arte
dell'assassinio: Dishonored 2
Dishonored si presenta
solido, costruendo sulle basi del suo già robusto predecessore. La
nuova città in cui si muoveranno Corvo e la figlia dell'Imperatrice, Emily, è una città italiana, dal clima mediterraneo, un immaginario
porto ottocentesco del sud Italia, o volendo della Libia coloniale
(vedete? Gira rigira finiamo sempre a parlare dei soliti
argomenti...).
E' una città dominata da un'oligarchia religiosa,
come la precedente Dunwall, infestata non da topi, ma da zanzare
portatrici della pestilenza. Dishonored affascina, perché anarchico:
chiaramente i designer e gli sviluppatori hanno studiato diversi
periodi storici, ma anziché riprodurli pedissequamente, alla
“assassin's creed” per intenderci, hanno preferito mescolarli e
centrifugarli come più gli pareva. C'è un'indole anarchica, -punk,
nel sporcare così la propria tavolozza.
Il seguito sembra
inoltre accentuare quell'aspetto di enigma/puzzle già presente nel
primo: il giocatore non è un tagliagole allo sbaraglio, o uno
spadaccino che deve farsi strada in ranghi su ranghi di nemici.
Piuttosto, è un maestro nell'arte dell'assassinio, un tecnico che
deve bilanciare il corretto uso di poteri, elementi ambientali e
tempismo per eliminare il suo bersaglio. Come raggiungere il proprio
target e come farlo nella maniera più raffinata possibile è una
questione di logica, alla stregua di un problema di matematica o
della ricerca di un tassello di un puzzle.
Sembra quasi un gioco
cerebrale, in tal senso, immerso in una strana realtà alternativa.
Non so, dal quel che si
è visto, se definirlo un sequel, piuttosto un Dishonored 2.5, una
sua versione migliorata. Non ho intenzione di scriverne, perchè non
c'è molto di cui discutere, ma anche il nuovo Deus Ex: Mankind Divided va in una direzione simile, innovando su fondamenta già
forti di loro.
L'epidemia causata dal
vampiro, o il vampiro causato dall'epidemia?
Vampyr è il nuovo
gioco della Dontnod Entertainment, i responsabili del fortunato Life
is Strange. Avevo apprezzato il loro precedente lavoro proprio perché
non era un videogioco che sentivo “mio”: era evidente come
l'avessero immaginato per un target e un genere di
videogiocatori trici diverso dal solito. La protagonista
adolescente, il tono diaristico, l'elemento soprannaturale (quasi)
anni '90: un “esperimento” interessante, che sarebbe la norma se
avessimo una ripartizione di generi (e di genere?) narrativi
normale, che affianchi all'action e
all'horror anche il sentimentale e il mainstream.
Vampyr, presentato in
un paio di segmenti di gameplay che si possono trovare sul canale di
Ign, trafficando tra i video, cambia totalmente setting e toni. Siamo
infatti nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale (vedete?
Giriamo in tondo ai soliti argomenti...) nella Londra duramente
colpita dall'epidemia spagnola. Come realmente successe – e come i
libri di storia generalista relegano ai margini – la spagnola
imperversò per tutto il continente, mietendo un raccolto di morte
tranquillamente superiore ai caduti in guerra.
La Londra del periodo
è la capitale di un impero sulla via del declino: dalla gioventù
falciata dalle mitragliatrici, ai conflitti sociali, alle colonie in
fermento, ai reduci di estrema destra e estrema sinistra. Con
così tanti morti, come sul continente, il discorso politico si
radicalizza, gli animi si scaldano. Una metropoli putrescente,
immersa nelle tenebre.
Il protagonista è un medico, un uomo
facoltoso di ritorno dal fronte occidentale, che durante il suo
lavoro di assistenza contro l'influenza contrae il morbo del vampiro.
La storia ruota attorno
ai tentativi del “buon” medico di scoprire la causa del suo male,
sostentandosi nel frattempo con il sangue di chi incontriamo per le
vie nebbiose di Londra. Facile indovinare come il gameplay preveda un
sistema di dialoghi e di scelte che permettono di “nutrirsi” su
chi riteniamo pericoloso per la società, giocando perciò il ruolo
di un “garante sociale” o se preferiamo, abbeverandoci al sangue
dei più giovani e dei più sani, perseguendo una scelta egoista.
Al di là del combat
system coi diversi poteri, affascina che il medico sia in grado di
“vedere” chi è malato e chi no, approfondendo questo ruolo di globulo bianco del sistema sociale.
Sembrerò come sempre
troppo enfatico, ma adoro l'ambientazione! Non avrei mai considerato
l'epidemia spagnola come il setting per un film, tanto meno per un
videogioco e un videogioco tanto complesso. Speriamo consegnino
grande cura ai fatti storici e all'atmosfera del periodo: potremmo
mescolare in quest'ambito le poesie sepolcrali, il gusto del gotico e
le società occulte già presenti nell'ottocento. Un giovane che
declama dei versi su una tomba scavata di recente, come si vede nel
gameplay, lascia buone speranze in tal senso...
La povertà del
giornalismo videoludico: Death Stranding
Kojima, in un trailer
live action, ha finalmente svelato la sua nuova IP: Death
Stranding.
Il progetto è ancora
allo stadio di abbozzo, non sappiamo molto altro al di là della
presenza di Norman Reedus, dell'atmosfera horrorifica e per
confessione stessa di Kojima, di un gameplay molto “action”. Il
trailer, che merita per il suo valore artistico, quasi surrealista,
mostra un Norman Reedus nudo, disteso su una spiaggia del nord, con
una manetta fantascientifica al polso. Sta cullando un neonato, prima
che una serie di impronte di mani e piedi chiazzate di petrolio (un
fantasma? Un uomo invisibile?) glielo sottraggano all'improvviso.
Norman si alza – nudo, tenete a mente questo particolare – e vede
cinque uomini che si librano nel cielo, su di uno sfondo
apocalittico, in un'atmosfera che definire “sospesa” è un
eufemismo.
Vediamo nel frattempo
come la spiaggia sia ricoperta da pesci e balene spiaggiate, ognuna
delle quali collegata con un cavo ombelicale. Anche Reedus ha un
identico cavo ombelicale, come un feto artificiale. Come le manette,
anche il cavo ha una luminosità azzurrina, un chiaro riferimento a
una tecnologia avanzata.
I seguaci di Koijma
hanno anche analizzato il trailer fotogramma per fotogramma,
scoprendo che le tag che ha Reedus al collo siano in realtà incise
con le equazioni della quantistica relative ai buchi neri.
Vi sembrerà assurdo e
chiaramente Kojima mirava a essere assurdo, a suscitare dibattito,
pubblicità e insomma... sano gossip. A livello del tutto personale,
trovo il trailer inaspettato e come detto, “carico”
artisticamente.
Ovviamente, il giornalismo videoludico l'ha presa
male: in primo luogo, c'è Reedus nudo, che Cthulhu solo sa perché,
è considerato qualcosa di terribilmente offensivo. Nel modo con cui
Death Stranding è girato, non c'è nulla di osceno nell'attore: si
tratta della nudità di un film surreale, con un suo scopo nascosto.
Superato quest'ostacolo per molti insuperabile, il trailer è stato
giudicato all'unanimità “strano, anche per Kojima”.
Ma è
davvero poi così strano? Per chi è un giornalista di videogiochi e
non ha una formazione su più campi, sembrerà bizzarro. Per chi
invece conosce il cinema e nello specifico conosce il cinema
giapponese, Death Stranding non è nulla di così eccezionale, anzi è
quasi “normale” se comparato a certe opere schizzate di molti
registi orientali. Death Stranding potrebbe inserirsi senza troppi
problemi nella categoria del film apocalittico giapponese classico o nel filone surrealista, o nel filone orrifico
più bizzarro. Se riusciamo ad avere, anche solo per un secondo, una
visione un minimo più ampia dei soli videogiochi, ci renderemmo
conto che Death Stranding è un'opera giapponese al cento per cento,
come tale comprensibilissima.
Al di là di questa
requisitoria, la mia opinione è che Death Stranding sia ambientato
in una dimensione alternativa – da qui le “equazioni” – dove
né Reedus, né gli animali sono “veri” esseri viventi: quanto
abbiamo identificato come “cordone ombelicale” è in realtà il
cavo di una marionetta, o un cavo di alimentazione. Si tratta di
animali “finti”, che non impediscono, come allo stesso Reedus, di
ribellarsi ai loro padroni: gli uomini nel cielo.
Happy People Have No
History – We Happy Few
Prima o poi comprenderò
perché i videogiochi, che fra tutti medium sono i più difficili da
realizzare, ricevano così tanta attenzione su Kickstarter e
parimenti una così brutale critica dai giornalisti. Un gioco
“brutto” prodotto su Kickstarter viene demolito in modo spietato;
un gioco “brutto” prodotto normalmente riceve una spunta
d'incoraggiamento, un 5/6, una mezza sufficienza.
Eppure, davvero
sorprende così tanto che numerosi progetti su Kickstarter falliscano
o si perdano per strada? Hanno la minima idea, giornalisti e critici,
dell'incredibile difficoltà di produrre una simulazione di un mondo
– perchè questo è un videogioco – partendo da una manciata di
dollari ricevuta da Kickstarter? I problemi in sede di
programmazione, di insufficiente preparazione, di tempistiche
disattese... è umano che così tanti videogiochi amatoriali su
Kickstarter falliscano.
Piuttosto, sorprende
quante piccole case di produzione, quanti developers riescano
a produrre e consegnare ai propri backers, spesso in ambiti
che altrimenti il mainstream avrebbe snobbato.
We Happy Few rientra
pienamente in quest'ambito, è una dimostrazione di un gioco che non
avremmo altrimenti avuto: chi critica e cerca di “affondare” una
campagna Kickstarter deve rendersi conto che sta “privando” una
fetta di giocatori di un gioco che non avranno in altro modo – per
ideologia e coraggio di investire (assente!) dalle grandi Ip.
We Happy Few è una
distopia anni '60, inserita in quella pop art caratteristica di Arancia
Meccanica, di The Prisoner, di quanto più astratto abbia prodotto
l'arredamento di quegli anni.
In un'Inghilterra
congelata dalla guerra contro degli immaginari “comunisti”, il
regime ha prodotto una droga che rende felici, al limite del
parossismo: il cielo grigio diventa color arcobaleno, gli abiti
stracciati una giacca firmata, il pezzo di pane una torta candita. E'
una droga la cui assunzione produce un'istantanea felicità e la cui
assunzione è legiferata come obbligatoria dal governo, perché base
di una società al collasso.
A tutti gli effetti, come vediamo nel
gameplay trailer, siamo dentro due diverse realtà, a seconda che la
droga venga assunta o meno. Il riferimento, assai poco sottile, è al
Mondo Nuovo di Aldous Huxley, ma nei conti fatti, per come sembra
strutturato il gioco, siamo nel territorio di Essi Vivono di
Carpenter. Anziché indossare degli occhiali, smettiamo di assumere
la happy pill.
Il passaggio visivo tra il mondo “drogato” e il
mondo reale è molto più profondo della solita distopia dove il
“singolo” scopre di essere oppresso e manipolato. Anzi, ci
ritroviamo in questo caso a tutti gli effetti pochi anni prima di una
post-apocalisse: la gente, senza happy pill, si rende conto che vive
tra i rifiuti e lo sporco, in un'Inghilterra rurale totalmente
degenerata.
L'immagine di un
impiegato inglese armato di bastone appuntito che vaga tra ebeti
convinti di vivere nel miglior mondo possibile è un'immagine forte –
tanto più se derivata dal gameplay di un videogioco.
Fra tutti i
giochi nominati, probabilmente tornerò a scrivere di We Happy Few,
perchè rientra in una mia vecchia idea di “recupero” della
fantascienza più eccentrica del '60 in chiave -punk.
3 commenti:
Quanti ricordi.
A suo tempo seguivo i videogiochi e l’E3 per una rivista online. Poi per vari motivi avevo smesso di farlo: altri impegni, un pc troppo vecchio… O forse sono diventato troppo vecchio io.
We Happy Few sembra interessante, se non ricordo male già in Haze si giocava sulla differenza tra mondo reale e mondo percepito dal giocatore.
Gli altri titoli, quasi tutti sequel, non mi ispirano.
A proposito di sequel, se non sbaglio all’E3 è stato presentato anche Quake Champions. Ecco: avrei preferito un sequel del primo Quake, quello più lovecraftiano, invece che del multiplayeroso Quake 3.
Non avevo mai sentito parlare di Haze. Merita? Essendo del 2006 sicuramente girerà sul mio pc :D
Io sono rimasto indietro col cambio generazionale delle nuove console, cui è seguita la "moda" dell'open world. Giustissimo per carità, la situazione altrimenti stava diventando stagnante, considerando come il pc sia sempre "frenato" nella sua crescita hardware dall'impossibilità di aggiornare le console...
Sai che Quake non mi ha mai ispirato? Non sono mai riuscito ad appassionarmi ai multiplayer sportivi, mi hanno sempre dato quelle identiche sensazioni sgradevoli degli sport competitivi "all'aria aperta" (non mi viene in mente definizione migliore >.< ).
Haze in realtà non merita. Hanno messo da parte quel che di interessante si poteva fare con l'idea di soldati drogati per non fargli vedere la realtà per avere un semplice sparatutto simil-distopico.
Di Quake invece meritano il primo, quello lovecraftiano, e il secondo, più tecnologico. Sono entrambi validi come singleplayer (il primo di più), il multiplayer non mi ha mai interessato molto.
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