Sono sempre stato molto critico verso
gli anni Ottanta e chi li ama, consegnando un duro giudizio specie
nell'articolo Vomito ergo sum del primo anno del blog.
Questo perché
ritengo che l'amore verso gli anni Ottanta stia rappresentando per
molti un grottesco impasse, che immobilizza la produzione culturale e
la costringe alla stanca replica di formule già viste. Non è la
nostalgia verso epoche passate che critico, tanto più che studio
storia; è piuttosto il nauseante immobilismo di chi ricorda "i bei
vecchi anni passati" e li usa come autentico passepartout per
rigettare quanto di buono viene pubblicato attualmente. Siano musica,
film o fumetti gli anni in cui viviamo sono tutt'altro che brutti
periodi, anzi; nelle file Indie spuntano progetti interessanti e non
mancano opere ben al di sopra della sufficienza. Una persona con un
minimo di discernimento vede chiaramente i molti prodotti culturali
che oggi disprezzati un tempo sarebbero stati premiati anche solo per
l'eccellente profilo tecnico. E' indubbio che questa mitica cosa
chiamata “originalità” cui si dà tanta importanza quanto più è
morta da un pezzo, funziona spesso da paraocchi, impedendo di vedere
con un minimo di ottimismo quanto viene proposto. Proprio negli anni
Ottanta, si fecero molti ottimi remake di film degli anni Cinquanta;
ricordiamo brevemente La Cosa e Terrore dallo spazio profondo. Il regista era
il simpatico Carpenter nel primo caso, Philip Kaufman nel secondo. Dunque non proprio gli ultimi incompetenti. Si tratta di pellicole che coniugano bene il tema
orrifico nato nella Guerra fredda con il nuovo pessimismo della "cura
dimagrante" Thatcheriana e Raeganiana. Il grigiore di queste
pellicole è un grigiore sociale e incastona l'elemento
sovrannaturale molto meglio di quanto facesse l'ottimismo della
Golden Age.
Si tratta di remake! Remake che
oggigiorno verrebbero azzoppati e ricoperti d'insulti ancora prima
che esca non il film, ma il teaser trailer! Nei tanto osannati anni
Ottanta i remake c'erano, eccome. Con buona pace dell'aura di
“originalità” che si vorrebbe loro appioppare.
Quindi è stato con malcelato
pregiudizio che mi sono accostato a questo "Ufo Robot Goldrake:
Storia di un'eroe nell'Italia degli anni Ottanta", di Alessandro
Montosi.
Anni Ottanta?
Ufo Robot?
Rischiavamo
parecchio.
Tuttavia, fin dall'inizio della
lettura, mi sono dovuto ricredere.
Innanzitutto, Ufo Robot si colloca a
fine anni Settanta, inizio anni Ottanta.
Siamo dunque all'inizio di
questa "magica" era che gli appassionati vorrebbero rivivere.
Secondariamente, Montosi non pecca di arroganza a chiamare saggio
universitario la sua opera; fin dall'inizio chiaro e conciso, riesce
a fornire una panoramica generale della serie senza sfociare nella
parlantina fine a sé stessa, o nella strizzata d'occhio del fan.
La passione per l'argomento si sente, questo è indubbio. Ma non
abbiamo qui un libro di memorie mascherato da saggino per la laurea,
oppure quelle noiosissime carrellate di riferimenti meta-nerd che
massaggiano il membro di chi "negli anni ottanta ha vissuto per
davvero" (qualunque cosa questa espressione voglia dire!).
Giunto in Italia la sera del 4 aprile
1978 sul secondo Programma della Rai (Attuale Rai2) Atlas Ufo Robot
diede la stura all'invasione nipponica sugli schermi televisivi,
dando una sana concorrenza al non sense del cartone animato
Disneyano, avulso dal realismo e dalla costruzione di storie
complesse. C'era già stata come anime, è vero, Heidi, che per
quanto sembri strano, rappresentava all'epoca un autentica
rivoluzione, nell'ambito dei cartoni per bambini. Goldrake, dalla
leva dell'innocente Heidi giunse a scalzare totalmente l'avversario
occidentale presentando verso fine anni Settanta un ritmo e
un'accuratezza di Worldbuilding cui non si poteva, più che sperare,
nemmeno proprio immaginare.
Il nome originale di Goldrake è Ufo
Robot Grendizer, e coincide in realtà con il terzo capitolo della
serie animata Mazinsaga, che parte con Mazinga Z e prosegue con Il
Grande Mazinga.
Go Nagai presenta Mazinga Z fin
dall'inizio come un robot realistico, nel senso che anziché
onnipotente Dio, ha bisogno di essere aggiornato e riparato per
combattere contro i suoi sempre più agguerriti antagonisti. Non
costituisce dunque il classico oggetto magico e invisibile delle fiabe occidentali, ma piuttosto una macchina, che come un'auto
dev'essere oliata e aggiustata. E' una caratteristica di questa prima
serie evidente nel modo con cui le "ali" di Mazinga vengono
contestualizzate sia dal punto di vista della "meccanica" che
narrativamente parlando.
Conclusi con successo i 92 episodi
della serie, parte immediatamente Il Grande Mazinga (Gureto Majinga).
A differenza del supereroe americano, soggetto a uno sfibrante
riciclo di costumi e idee, nell'anime giapponese raramente avviene il
riutilizzo di un personaggio; nel nostro caso Mazinga Z è tecnologia
sorpassata e il ruolo di protagonista passa a Il Grande Mazinga. Il
protagonista Tetsuya Tsurugi era inoltre già comparso nell'anime di
Mazinga Z, nell'ultimo capitolo: è un caso da manuale sia di spin
off che di serialità: il nuovo
robot è migliore del precedente (da cui Grande!) sia mantiene un
forte rapporto di continuità narrativa colla serie precedente,
trasformandone uno dei personaggi secondari in protagonista.
Attualmente è cosa di tutti i giorni; all'epoca era una mossa
tutt'altro che banale.
Curioso come sia in
Giappone che in America la frustrazione dall'essere imbottigliati nel
traffico instradi (è proprio il caso di dirlo!) verso improvvisi
lampi di genialità: Go Nagai ebbe la prima intuizione per Mazinga Z
in un ingorgo a Tokyo, mentre sempre negli stessi anni Alan McNeil
partoriva Berzerk, violentissimo videogioco a scorrimento dell'epoca,
dopo essere rimasto bloccato per ore in coda verso Chicago.
Ero così
esasperato che avrei voluto avere un cannone laser per uscire
dall'ingorgo
Se
volete diventare famosi, compratevi dunque un'auto di seconda mano
del dopoguerra e ficcatevi nella più lunga e frustrante coda di
automobili che riuscite a immaginare. Se fa caldo e siete
programmatori o disegnatori dilettanti, le chances
aumentano!
 |
Goldrake su Tv Sorrisi e canzoni! :-D |
Al di là della
genesi nipponica, quanto interessa il testo è Goldrake, dunque l'Ufo
Robot Grendizer.
E' a questo punto del saggio che Montosi analizza il
passaggio dal doppiaggio francese al doppiaggio italiano. E' un
passaggio fondamentale.
Sia in Francia che
in Italia è impressionante analizzare quanto la trasposizione di Ufo
Robot si debba in realtà a una manciata scarsa di arditi, avversati
in ogni modo sia da chi temeva un flop commerciale, sia dai
conservatori meno tolleranti verso produzioni diverse dal made in
Usa.
In Francia è
Jacques Canestrier a svolgere un ruolo fondamentale.
La scelta di Ufo
Robot è in stretta correlazione con due diversi fattori, l'uno
culturale, l'altro economico. L'anime avrebbe permesso di variare il
programma aggiungendovi un genere completamente inedito, quello della
fantascienza avventurosa.
Contemporaneamente, trasmettere un cartone
animato nipponico costava diecimila franchi al minuto, trasmetterne
uno francese, quarantamila. Una differenza di soldi non da poco.
Canestrier
incontra la consueta xenofobia venata di buonismo, da chi lo boccia
semplicemente perché non-disneyano a chi reputa troppo patriottica
la sigla d'inizio Le prince de l'espace. Quel
genere d'ipocrisia di chi poi ha come inno nazionale sanguinari versi come "Marciamo! Marciamo! Che un sangue impuro imbeva i nostri solchi! (sic!)" Ahh, la rivoluzione francese! <3 <3
Canestrier alla
fine la spunta.
Avendo puntato tutto su Atlas Ufo Robot, si vuole
ridurre i rischi al minimo; il team francese attua così una radicale
pulizia dell'anime. Si tagliano tutti i riferimenti alla cultura
giapponese e considerando che ambientarla in Francia sarebbe stato
impossibile, si sceglie di collocare le vicende in un "limbo" imprecisato, pur di nascondere che l'anime è ovviamente ambientato
in Giappone.
Ogni ideogramma viene tagliato dalla pellicola, e
lavorando di forbice si ottengono invece siparietti cattolici, dove i
personaggi pregano tutti assieme o ringraziano Dio.
Il cambiamento
maggiore, tuttavia, è nei nomi. E' indubbio che il cast francese
abbia stavolta svolto un lavoro particolarmente raffinato: ogni nome,
come sapranno sicuramente i fan, deriva da un astro, o dalla
mitologia. Duke Fleed diventa così Actarus, dalla stella rossa
Arcturus, la più luminosa della costellazione del Pastore. Actaurs è
così il messia, un nuovo Gesù che deve proteggere il suo vasto
gregge, l'umanità, appunto. Contemporaneamente, Actarus
dall'episodio 30 comincia a soffrire un'inguaribile ferita al
braccio, che ricorda le stigmate. Non a caso, Arcturus è una stella
rossa, dunque morente. Il lavoro diventa tanto certosino che persino
i più piccoli nemici vengono “adattati”: i dischi mostro privi
di un pilota si chiamano Golgoth, dal Golgota cristiano. Anche
attraverso il doppiaggio, questi mostri sembrano voler portare
sofferenza e dolore.
Prima dell'uscita
nessun adulto tranne gli arditi scommette su questa serie animata.
Poi, come sempre
succede quando il prodotto è buono e la storia avvincente, parte il
successo.
Il fenomeno,
rapidamente di massa, ai contemporanei "adulti" doveva sembrare
senza dubbio straniante. Delle citazioni che riporta Montosi, questa
è tra le più gustose:
Dal primo mese,
tutti i bambini e gli adolescenti francesi riconobbero in lui il loro
nuovo Messia Protettore. Dal secondo mese, tutti gli eroi che avevano
fatto sognare le quattro generazioni precedenti caddero nel
dimenticatoio. Dal terzo mese, l'indice di ascolto della rete
televisiva rivale, in quella fascia oraria, precipitò allo 0%. Dal
quarto mese, i genitori ebbero l'impressione di essere scomparsi
dalla sfera affettiva dei loro bambini. Dal quinto mese (per fare
buon viso a cattiva sorte) i genitori cominciarono ad affannarsi per
comprare la riproduzione di Goldorak... Al punto che, venticinque
giorni prima delle feste natalizie, i negozi furono al limite delle
loro scorte. Ci si iscriveva nelle liste d'attesa e, se si avevano
dei contatti, si tentava di cercarlo al mercato nero. Una cosa
inaudita! La Signora Coquelin, responsabile delle vendite dei diritti
di sfruttamento commerciale di Antenne 2, non ha mai visto niente di
simile in quindici anni di lavoro: dall'inizio del mese di dicembre
400000 dischi, 150000 poster, 300000 copie del periodico a fumetti,
delle caramelle, delle liquirizie, delle sedie a sdraio, dei
bicchieri, delle maschere, dei puzzle, dei vestiti... ogni cosa in
cui è raffigurato Goldorak va a ruba. Quanto al gioco rappresentante
il "Dio" … una follia. La società Mattel che lo fabbrica è
stata sommersa di richieste... In alcuni grandi magazzini si assumono
dei commessi unicamente destinati a rispondere: << Per Goldorak,
bisogna attendere >>. Stesso successo in Spagna (in realtà, in
Spagna, il Robot che ottiene un successo strepitoso è Mazinga Z,
n.d.a.), in Italia, in Belgio e in Canada dove una squadra
professionale di calcio ha scelto di chiamarsi Goldorak. (…) Una
follia, vi dico, un uragano, un tifone.
Come sempre
avviene, grandi fenomeni attirano grandi critiche.
Nei tempi di
Internet 2.0, questo è un fenomeno tanto ricorrente da non suscitare
neppure meraviglia. Tre critici su cinque non aspirano veramente a
demolire il film/fumetto/videogioco in questione, piuttosto vogliono
conquistarne una fetta di fama, reclamare un po' di celebrità
alzando a volumi esagerati il volume della critica. La cara, vecchia
polemica.
Con il successo di
Goldrake, pardon Goldorak, piovono le critiche.
Accademici.
Professorini. Giornalisti-scarafaggi, maestre, psicologhe
dell'infanzia, sociologi e filosofi. Montosi svolge un buon lavoro a
smontare le diverse critiche, motivate oltre che dalla già citata
fame di gloria, da un letale cocktail d'ignoranza e xenofobia.
Metodicamente smontati compaiono sia il saggio "A cinque anni con
Goldorak" di Lilliane Lurcat, sia “Un'estetica industriale” di
Jacques Aumont. Testi pionieri di un atteggiamento, anche italiano,
di buonismo lancinante e disprezzo piccolo-borghese. Non smette mai
di colpirmi quanto questi esperti dell'infanzia, che dovrebbero
essere i primi a valorizzare il bambino, lo ritengano invece un mezzo
idiota incapace di gusti propri. Un bambino dell'elementare diventa
così un demente, un bambolotto che assorbe il medium
incondizionatamente. La cura ovviamente è il ritornello assurdo
dell'aria aperta, di quel "limbo primitivo" di girotondi sui
prati, nascondino e allegre scampagnate dentro una natura
buona&incontaminata mai esistita. Nessuno mai che si chieda cosa
ne pensa invece il bambino! Tant'è; le polemiche che accompagnarono
Goldorak saranno destinate a ripetersi con i Pokemon, con i
videogiochi (Gta, Mafia, ecc), con Facebook, con Dragonball... Conta
ergersi a cavaliere del bene; poco importa se dopo con la tua
armatura di polemiche e saggini universitari fai più male che
bene...
Un esempio di come questo rigurgito continui a ripetersi, è l'inconsistente video dello Youtuber Croix89 che, sebbene geniale nel montaggio, riprende il razzismo xenofobo che America in testa si vomita contro l'Estremo Oriente dagli anni Cinquanta in poi.
Mentre Goldorak
viene bombardato di prodotti promozionali e polemiche in Francia, qui
in Italia si valuta se acquistare Ufo Robot per trasmetterlo in
televisione.
Se Canestrier è
l'ardito della Francia, Nicoletta Artom è l'ardita in Italia.
E' Nicoletta Artom
a “scoprire” la serie dal suo adattamento in Francia, rimanendo
colpita dalla qualità dell'impianto tecnico-artistico.
E' Nicoletta Artom
a premere perché la serie venga trasmessa in televisione, secondo
paese europeo a importare un prodotto nipponico, totalmente inedito
per l'epoca.
E' Nicoletta Artom
a difendere Ufo Robot Goldrake nel peggio del maccartismo, quando la
serie verrà accusata dalle solite cricche di reazionari sociologi e
psicologi, senza dimenticare la consueta cloaca del giornalismo. Una
posizione controcorrente all'epoca, che le costerà carriera e
lavoro.
Sergio, ho visto dei cartoni animati
giapponesi... Incredibili... Una cosa nuovissima... Mai vista... Non
si può dire nemmeno che siano di fantascienza! E' un mondo di robot,
pilotati da esseri umani. Che si trasformano. Volano. Uomini che
diventano macchine... Si dividono in due...
Nicoletta Artom (responsabile dei
programmi per ragazzi della Rai nel 1978).
L'adattamento dal
francese all'italiano dev'essere completato in tempi brevissimi e
italianizza le scelte già compiute in Francia, con qualche
eccezione. La più interessante è forse il nome stesso Goldrake, dal "Goldorak" francese. S'ignora dove sia spuntato fuori. C'è chi
punta a una fusione tra Goldfinger e Mandrake, chi preferisce
riferirsi all'elemento “dragonesco”, il “drago d'oro” che
voleva richiamare l'Estremo oriente cui veniva. Forse. E' difficile
stabilire il perché della traduzione, senza dubbio azzeccato colpo
di genio.
Il doppiaggio
supera in maestria quanto fatto dai francesi. Sia nella fedeltà
della trasposizione, che mantiene ideogrammi e riferimenti al
Giappone, sia nell'uso di attori teatrali di lunga esperienza. Largo spazio nell'opera di Montosi è giustamente riservata alla voce di
Actarus/Goldrake, mirabilmente impersonata da Romano Malaspina.
Come in Francia,
l'anime è attorniato prima della definitiva messa in onda da uno
palpabile scetticismo. Il fenomeno Goldrake tuttavia dopo aver
digerito la Francia, attraversa le Alpi.
La cura psicologica
(per l'epoca) dei personaggi, il meccanismo della serialità, la
fascia oraria serale e il passaparola alle scuole generano a tutti
gli effetti un fenomeno di massa. Quanto sfugge a chi lo critica, è
che per la prima volta abbiamo un cartone animato che segue una vera
sceneggiatura, con tanto di colpi di scena senza limitarsi al far
ridere. Un altro aspetto curioso, che osserva Montosi, è il
confronto tra i personaggi femminili in Ufo Robot Goldrake e
Superman. Nell'uomo d'acciaio americano, Lois Lane, la segretaria, è
una bambola utile solo per mostrare la stupidità femminile a
confronto col potente ingegno di Superman. Sia nei fumetti che nei
cartoni, è un personaggio passivo, oltre che piatto
caratterialmente. In Ufo Robot Goldrake, al contrario, Venusia e
Maria evolvono in personaggi femminili, se non a tutto tondo
quantomeno indipendenti, che partecipano con ruolo attivo nelle
battaglie robotiche.
Come venivano
demolite le critiche francesi, così Montosi smonta quelle
italiane.
Sottolineerei in
particolare due piccoli aspetti su cui spesso si continua a battere
in fatto di anime: i guadagni dei cartoni giapponesi all'estero e la
questione degli "occhi giganti".
Spesso oggigiorno
si sottolinea come l'anime sia un genere pianificato a tavolino per
la massa, un mondo alternativo lontano dalla realtà e costruito
appositamente per soddisfare tutti, che siano cinesi, africani o
americani. Gli "occhi grandi", i vestiti appariscenti, le trame
piene di cliché servono a piacere a tutti, a sfondare ovunque sul
botteghino. Gli anime sarebbero insomma un freddo prodotto
commerciale escogitato per vendere, vendere il più possibile. Ci
sarebbe anche un fondo di verità in queste affermazioni, anche se
maliziosamente le attribuirei più alle attuali produzioni
Marvelliane statunitensi che agli anime!
Uno stralcio di
un'intervista di Colpi a Huramoto in tal senso è rivelatrice:
Colpi: Quando
vendete una serie all'estero, quanto ottenete in diritti dalla ditta
che la distribuisce?
Huramoto: 6 o
8%, giù di lì...
E la vendita
all'estero dei vostri prodotti, che percentuali occupa nel totale
delle entrate di una serie?
Dubito che
raggiunga il 10%. D'altronde,
noi produciamo solo per il mercato giapponese.
Se poi la serie va all'estero, tanto meglio.
Vuol dire che proprio non vi interessa fare serie che vendano bene
all'estero? –
Per il mercato estero, di solito, prima mandiamo la serie in
Francia. S va bene in Francia, la passiamo anche in Italia e in
altri paesi. Però, quando ideiamo una serie, all'estero proprio non
ci pensiamo. Almeno fino a poco tempo fa... (intervista del 1991).
L'intervista non è di fine anni settanta. E' degli anni Novanta!
(Relativamente) vicina a noi.
Eppure Huramoto rimarca continuamente quanto poco gliene freghi di
esportare il prodotto fuori dai confini nazionali. Dieci per cento
sono percentuali microscopiche. Tutt'ora gli Otaku guardano gli anime
scaricati e coi sottotitoli, rigorosamente in originale.
L'eventualità che il prodotto venga doppiato o generi vendite
all'estero è persino più scarsa di vent'anni fa.
Eppure, l'azione diffamatoria continua, implacabile: gli anime sono
prodotti il più possibile generici, rivolti a tutti.
Un discorso simile vale per le dimensioni degli occhi.
Per il periodo preso in esame, gli occhi giganti non servivano
per "mascherare un senso d'inferiorità giapponese" né per
accattivarsi gli spettatori. Al contrario, rispondevano a un'esigenza
squisitamente pragmatica: quando Actarus ha tutto il volto coperto
dalla maschera, risaltano solo le pupille e solo attraverso quelle è
possibile esprimere emozioni. E' innanzitutto un mezzo stilistico.
Tuttavia, tra la
critica e la difesa dalla critica, la prima vince sempre.
Nella primavera del
1980, solo Nicoletta Artom, e pochi sparuti sostenitori emergono in
difesa di Goldrake. L'Artom riassume meglio del sottoscritto le mie confuse opinioni su come trattare i bambini:
In realtà i
bambini tutti questi problemi non se li pongono. Loro accettano o
rifiutano i programmi secondo i loro gusti, a volte dimostrandosi più
adulti e più "ragionevoli" di coloro che vogliono o possono
amministrare i loro spettacoli. (…) Fiducia nei bambini, invece.
Sono intelligenti.
(Nicoletta Artom,
“Chi ha paura di Goldrake cattivo?”, TV Sorrisi e canzoni).
La dissertazione
sulle polemiche della serie non costituisce il nucleo del libro di
Montosi, ma senza dubbio occupa un bel po' di spazio. La ragione è
evidente nella grande disponibilità di materiali che è rimasta;
settimanali e quotidiani, sopratutto. Il quadro è a dir poco
delirante, tra un'interpellanza parlamentare, esposti pubblici,
raccolte di firme fino a culminare nell'accusa che Atlas Ufo Robot
sia una serie demoniaca che incita al satanismo.
Topolino è
lettura sana, ma Goldrake è il diavolo (da “Il Resto del
Carlino”).
E' interessante
proporre un parallelismo in questo caso tra i Videogiochi, Atlas Ufo
Robot e i Pokemon. Tutti e tre hanno in comune l'essere capi
d'accusa, e tutti e tre sono stati soggetti a pesantissime polemiche.
Nel caso dei
videogiochi, la morte di Peter Burkowski.
Il buon Peter era
un ragazzino con forte cardiopatia, che il 3 aprile 1982 si mise a
giocare a Berzerk, picchiaduro a scorrimento già per l'epoca
violentemente frenetico. Il caldo, l'emozione: secco sul colpo. Sui
giornali, il rapporto del coroner che faceva notare la debolezza del
cuore venne ignorata e la polemica si appuntò presto sul malefico
videogioco che ne aveva molto teoricamente causato il decesso. La
morte di un ragazzo venne a tutti gli effetti pubblicizzata e
manipolata dai vecchi media (televisione, radio e giornali) verso i
nuovi (i videogiochi). Il semplice elemento umano – un cuore debole
– viene totalmente ignorato.
Nel caso di Atlas
Ufo Robot la morte di un un bambino, di
undici anni, morto per soffocamento.
Un incidente fatale; ma dalla
stampa parte un uragano. Quando infatti il bambino muore, indossava
una maschera (per di più auto fabbricata!) di Goldrake. La shitstorm desidera così tanto
ostracizzare il cartone, che gli eventi, magicamente cambiano: il
bambino non muore più per mancanza d'aria, ma addirittura si getta
dal balcone! Fatto del tutto inventato, pianificato
giornalisticamente a sangue freddo. Ci si chiede con quale coscienza
si possa lucrare sulla memoria di un morto, cambiando perfino i fatti
pur d'alimentare la crociata xenofoba.
Nel caso dei
Pokemon, la morte di un bambino di quattro anni, gettatosi dal balcone mentre ne trasmettevano il cartone. In realtà la storia è poco convincente: non si capì bene perché si fosse gettato o cosa stesse facendo o quale effettivo ruolo giocassero i Pokemon.
L'aspetto che
trovo più inquietante dell'intera faccenda è quanto da piccolo,
alle elementari, ricordo distintamente la maestra che raccontava di
un bambino che si gettò dal terrazzo perché "credeva di essere un
pokemon". E ovviamente le credevamo ciecamente! D'altronde ero già
nel periodo di fissa per il fantasy con Elfi&Nani, quindi
comprenderete che senza nulla togliere ai Pokemon, la notizia mi
confermava nella fede Tolkeniana!
- Peggio per lui - ricordo dicevamo coi compagni, - Noi non siamo mica così stupidi!-.
Verso l'inizio degli anni Novanta Atlas Ufo Robot verrà ritrasmesso in televisione, nel respiro ormai libero dall'attenzione dell'opinione pubblica, rivolta verso nuove e (per loro) più spaventose minacce. La serie in
questo riesce nel raro passaggio generazionale, costruendo de facto
una continuità a livello d'immaginario. Un fenomeno tutt'altro che
consueto, e come conclude Montosi da non sottovalutare nelle sue
implicazioni più serie, dall'ecologia – Ufo Robot è nettamente anti-nucleare - al più vasto campo della morale.
Le citazioni
videoludiche, da Berzerk al primo morto "per i videogiochi" sono
tratte dall'opera
L'innovazione
tecnoludica. L'era dei videogiochi simbolici, di Matteo Bittanti.
Dietro permesso di
Mr Bit stesso, è stata scannerizzata e resa disponibile gratuitamente. In formato cartaceo
la trovate spesso nelle rigatterie e sulla E-Baia.
Sui Pokemon ho fatto riferimento ad Anatomia di Pokemon. Cultura di massa ed estetica dell'effimero fra pedagogia e globalizzazione, di Marco Pellitteri.
Per la povera Lois Lane in Superman ho fatto riferimento a Scrivere fumetti e graphic novel, di Peter David, dove l'autore evidenzia bene la sua funzione di vittima del fumetto anni Cinquanta/ Sessanta.