Nelle
librerie da discount, così come nelle bibliotechine per
intenditori.
Sugli
scaffali dei supermercati, così come accatastato sulle bancarelle
della domenica.
Gettato nei
reparti libri dei grandi centri commerciali; in agguato sulle scansie
della libreria dei parenti; presente persino in campagna, in
oratorio, a scuola.
Le biblioteche popolari?
Strapiene, scaffale dopo scaffale.
Le biblioteche popolari?
Strapiene, scaffale dopo scaffale.
Negli ultimi
anni, specie dall'uscita del nuovo “IT”, Stephen King è tornato
alla ribalta.
Difficile
immaginare un periodo di assenza, per il Re dell'Orrore: ogni anno,
ogni mese è una presenza fissa in libreria.
Difficile immaginare
di passare più di due anni in un negozio di libri senza dover
riempire lo scaffale della nuova uscita, la nuova ristampa, la nuova
antologia di racconti.
It's everywhere, come una piaga. A
partire dagli anni '2000 Stephen King ha diminuito il gettito di
libri, così come la devastazione cartacea della foresta amazzonica
causata dalla sua grafomania – ma anche così i libri si sono
succeduti implacabili, l'uno dopo l'altro.
Bombardamento
di un'artiglieria borghese e parolaia.
Siamo
ovviamente grati a King.
Immensamente,
irrimediabilmente grati.
La
gratitudine di chiunque sia un sincero ammiratore del fantasy e
dell'horror non può non riconoscere a King di aver trasformato un
genere di nicchia in una realtà bene affermata.
Forse non
tanto in Italia, dove il panorama di lettori horror è sconfortante,
per quanto siamo una sparuta (e incompresa) minoranza, ma nel mondo
anglo-americano l'horror con King è divenuto un genere di massa,
tanto nei romanzi quanto nei film.
E laddove il
mercato si allarga, aumentano le piccole case editrici, gli
autopubblicati, gli spazi per un horror diverso e interessante: King
ha fatto breccia per tanti altri autori, diversissimi nello stile e
nei contenuti, ma accomunati dalla possibilità di guadagnarsi uno
stipendio scrivendo horror.
In questo,
King ha avuto un ruolo “educativo” eccellente.
E tuttavia,
c'è una soglia superata la quale l'educazione diventa pedagogismo
fine a sé stesso, la ripetizione rincoglionisce invece che aiutare
la memoria e il mercato invece che assorbire i nuovi generi pretende
quel tipo di horror – l'horror kinghiano, con tutti i suoi difetti.
La nuova
ondata di adattamenti di Stephen King al cinema e alla tv ha superato
da tempo qualsiasi utilità “didattica”: nessun nuovo lettore
dopo aver visto “IT”, si avvicinerà all'horror di Ligotti, di
Lovecraft, di Barker. Si limiterà a King e solo a King e se anche
volesse provare qualcosa di nuovo non ne avrebbe in libreria i mezzi:
il genere horror è infatti ormai assimilato dal fantasy e dalla
fantascienza. Roba di genere, un tutt'uno.
La scelta di
riprende altre produzioni di King, di adattare altre delle sue storie
al grande schermo toglie ormai nel 2017 linfa vitale agli altri
autori horror: il vecchio Lovecraft, prima di tutto; il nuovo
Hellraiser; Ramsey Campbell; l'intero sottogenere weird.
A differenza
che negli anni '70/'80 abbiamo oggigiorno i mezzi tecnici, social(i)
e la libertà di andare al di là dell'horror di Stephen King, di
provare qualcosa di nuovo.
Sia con le
serie tv che in misura minore con i film, il pubblico è ormai pronto
a nuovi sapori, nuove pietanze. Un high budget movie basato
sulle Montagne della Follia, per citare il progetto scomparso di Del
Toro, non rappresenterebbe più come trent'anni fa un rischio
inaccettabile.
E invece no,
andiamo sul sicuro, sul melenso.
Adattiamo La
Torre Nera di King.
Adattiamo Il
gioco di Gerald.
Adattiamo
1922.
Adattiamo...
Mentre negli
anni Ottanta i critici letterari, pur nella loro cecità verso il
“genere”, provenivano da un background di studi classici e
inseguivano obiettivi “alti”, a partire dalla fine degli anni
Novanta la direzione degli studi universitari si è indirizzata alla
ricerca del “bizzarro”, della svolta coraggiosa, del “sociale”
nei generi più bistrattati. Lentamente, dal disprezzo motivato verso
King, si è passati a trasformarlo ideologicamente: un nuovo
“Dickens”, un autore “popolare”, addirittura “proletario”,
con tanto di studi sullo stile e sui significati nascosti.
Almeno nel
pregiudizio dei “vecchi” accademici del secondo dopoguerra c'era
un ampio insieme di motivazioni letterarie, supportate dalla
sincerità di fondo di chi davvero disprezza King.
Al
contrario, dal 1990 gli studi nell'ambito sono auto-referenziali.
E' il titolo
a contare; è l'idea di fondo; è l'immagine che si vuole
trasmettere.
Importa poco
che le fonti, le biografie e i contenuti non si allineino minimamente
alla Tesi proposta. Importa poco che siano studi basati sul cherry picking, sulla sicumera, sul citare quanto fa comodo e nient'altro.
Ma Stephen
King è davvero un grande autore?
E' davvero
questo genio dell'horror millantato da ormai mezzo secolo?
Proviamo a
darne un'analisi oggettiva, coll'aiuto di un critico coi controcazzi
come S. T. Joshi nel saggio di inizio '2000, “The Evolution of the Weird Tale”.
Ho letto
interamente Stephen King dalla biblioteca popolare a Trieste tra
secondo e quarto anno delle Superiori. All'epoca riuscii a leggere
“Carrie” (1974), “Le notti di Salem” (1979), “Shining”
(1977), “L'Ombra dello Scorpione” (1983), “La zona morta”
(1981), “Christine” (1984), “Pet Sematary” (1985), “Il
Talismano” (1986), “It” (1987), “Misery” (1988), “La metà
oscura” (1990), “Il gioco di Gerald” (1993), “Mucchio d'ossa”
(1999) e negli ultimi anni “Duma Key” (2008).
Ho ricordi
piuttosto altalenanti delle antologie, di cui ovviamente ci si
ricorda più dei singoli racconti che del titolo d'insieme:
sicuramente “Scheletri” (1990) e “Quattro dopo mezzanotte”
(1993); forse anche “Incubi&deliri” (2000).
“Danse
Macabre”, uno dei miei primi “saggi” di genere e “On
Writing”, che uso tutt'ora. E' un buon manuale, specie per levarsi
di testa certe romanticherie.
A questo va
aggiunta la serie della Torre Nera – un'intera scansia della
biblioteca! - e i romanzi scritti sotto pseudonimo, anche se
nell'edizione proposta erano già titolati come Stephen King: “La
lunga marcia” (1985) e “L'uomo in fuga” (1984).
Come con le illustrazioni interne della saga di Narnia, tendo a ricordare con
maggiore affetto le copertine che il loro contenuto: un dato che fa
già riflettere. Ad esempio, ricordo poco della Carrie “cartacea”.
Ci sono alcune mancanze – non ho idea se King muti radicalmente lo
stile a partire dal '2000 e non ho letto alcuni classici importanti:
“Dolores Claiborne”, “Cujo” e “Il Miglio Verde”.
Un primo
elemento a cui attribuire il successo di King è l'adattamento
cinematografico.
Stephen King
viene trasposto al cinema fin dagli esordi, con Carrie e Shining.
Non vi sono
ritrosie o tentennamenti in Stephen King: ogni volta che gli si
propone di trarre “qualcosa” dalle sue opere acconsente, con la
più totale indifferenza verso il regista, il budget e i cambiamenti
all'originale. Solo così ci si può spiegare l'estremo alternarsi di
capolavori come il film di Kubrick a epiche trashosità come la saga
dei Children of the Corn. Evidente a questo proposito come King non
comprenda il cinema: altrimenti non avrebbe criticato un capolavoro
come Shining, nel frattempo innalzando lodi all'immondo remake.
Il cinema
ama King, King non ama il cinema.
Senza dubbio
King, a differenza invece di Clive Barker, non sa pensare per
immagini, come comprovano i suoi disastrosi tentativi
cinematografici, redenti solo all'ultimo dall'amico Romero. I diversi
registi in sostanza prendono dall'opera di King un'idea di base,
un'intuizione sfolgorante: il prodotto finale ha tuttavia (quasi)
nulla in comune con l'originale. In effetti, risulta essere un
capolavoro quanto più si allontana dalla matrice letteraria.
Si realizza
a questo proposito un'incomprensione, perchè King riceve per
riflesso, grazie al nome appioppato sulle locandine, meriti che non
possiede. Se Shining è un capolavoro, lo è solo grazie al genio di
Kubrick. King fornisce qualche idea, un accenno di caratterizzazione,
ma il suo contributo si blocca alla fase iniziale. Quando invece il
Re dell'Orrore scrive una sceneggiatura, questa può funzionare
soltanto se adattata a un clima comico-demenziale-nostalgico,
altrimenti diventa involontariamente grottesca. Le storie
dell'antologia “Creepshow” funzionano perchè non si prendono sul
serio, perchè contestualizzate nella nostalgia verso gli anni '50 e
l'horror alla Hammer del periodo. Solo in tal senso, dentro un horror
che non è più horror, il King cinematografico “funziona”.
Altrimenti, in tutti gli altri casi, il successo del film ha permesso
a King di “rubare” meriti in realtà solo e soltanto del regista,
vivendo così di luce riflessa.
Cosa
sappiamo di Stephen King?
Cosa
sappiamo delle sue reali ambizioni letterarie?
Certo,
dall'alba dei social è molto attivo su Twitter e nelle ultime opere
sembra aver cambiato argomenti e stile letterario. Tuttavia dovremmo
ammettere che non conosciamo la “persona” King: conosciamo il
“brand” Stephen King. Sappiamo cosa aspettarci dalla Coca Cola,
dalla Disney, dalla McDonald... e allo stesso tempo sappiamo cosa
aspettarci da Stephen King. E' una firma, un marchio di fabbrica,
associato a un genere dell'horror e una data immagine, ormai
invecchiata.
Stephen King
ha beneficiato fin dagli anni '70 dalla tendenza degli editori a
scegliere un ristretto gruppo di autori su cui puntare tutte le loro
carte, tramite massicce campagne pubblicitarie, conferenze e
incontri, episodi “eclatanti” e/o scoop. Solo una persona
estremamente ingenua potrebbe pensare che il successo di King tra gli
anni '70 e '80 fosse dovuto solo all'inventiva e all'onestà
dell'autore: King è stato spinto, promosso e pubblicizzato dalle
case editrici. Ovviamente, se King fosse stato un incompetente,
qual'è il caso con gli autori italiani “pompati”, non avrebbe
sbancato il botteghino. C'è qualità in King, c'è perseveranza.
L'obiettivo
inseguito dagli editori e da King stesso di trasformarsi da scrittore
in “brand” non sarebbe stato possibile senza una continua
pubblicazione. Prima di esordire, King pubblicava già a
nastro, senza interruzione, sia su giornali specializzati come
Startling Mystery Stories, che su giornali mainstream, come
Playboy, Cavalier, Penthouse. E' una sequela di racconti sfornati
senza pause, un'autentica catena di montaggio. Dalla pubblicazione di
“Carrie”, King aumenta il ritmo: un romanzo all'anno,
praticamente senza pause fino al tardo 1990.
Il gioco
editoriale è anche un gioco d'attrito, che King ha vinto, a prezzo
di diventare sempre più noioso, sempre più logorroico. In seguito a
“Carrie” e “Shining”, diventa evidente nella prima metà
degli anni '80 come le idee horror scarseggino: “Cujo” parte da
un concetto di base adatto più a un racconto che a un romanzo, tenta
di metterci dentro elementi soprannaturali, ci infila jump scares
“tanto per”; “Silver Bullet” riprende il tema del lupo mannaro senza
rinnovarlo in alcun modo e “Talismano” è una collaborazione
fallita, dove lo stile raffinato di Straub è annegato nel mare di
parole comuni e mediocrità di King. Ma il Re dell'Orrore continua a
scrivere, continua a pubblicare e in questo modo la “firma” King
si auto-sostenta, magari si rilancia con l'occasionale trasposizione,
mantenendosi sempre sulla cresta dell'onda senza annegare
nell'anonimato.
Prima edizione paperback, si veda Too Much Horror |
Un altro
elemento che ha reso popolare King negli anni Ottanta è la
nostalgia.
I romanzi di
King, nonostante la categoria dell'horror, sono storie intrise di
rimpianto, di nostalgia verso un tempo scomparso. La golden age
dell'infanzia, il turbinio avventuroso dell'adolescenza. Il rimpianto
per le villette a schiera, la frontiera del West e la tranquilla vita
della famigliola borghese tra lavoro e figli. C'è sufficiente
nostalgia da filare dal dentista con più carie che denti,
strangolati da quell'identica melassa buonista che rende la visione
dei film di Wes Anderson insopportabili, un esercizio di
masturbatorio auto compiacimento.
Stephen King
infatti odia studiare.
Stephen King
in effetti odia le istituzioni educative e in senso lato, odia
doversi documentare.
In
quest'ignoranza, è un americano vero. Doversi documentare per una
storia, che sia un racconto o un romanzo, richiede tempo. E'
necessario svolgere un lavoro di ricerca in biblioteca, nell'era pre
Internet; leggere e/o studiare un saggio occupa almeno qualche
giorno. Nella mente di Stephen King, questa è un'eresia, perchè il
tempo speso nella documentazione è tempo rubato alla scrittura. E
bisogna scrivere: in continuazione, tanto e male. Uno scrittore che
non insulta l'intelligenza dei suoi lettori e sceglie di svolgere
qualche ricerca ad hoc non avrà il tempo materiale di
mettersi al tavolo a vergare ogni giorno le famose “tremila
parole”.
Il lavoro di
documentazione, assente (quasi) sempre, costringe King ad attingere
dall'horror più banale e comune: la sua cultura è infatti una
miscellanea di cultura pop degli anni '50 e '60. I fumetti dell'epoca
– “Creepshow”, appunto – i film horror “classici” di quei
decenni, gli shlock del cinema all'aperto, il romanticismo e
l'idealizzazione del secondo dopoguerra.
La genialità
di King sta nel prendere questi “classici”, come il vampiro, il
mannaro, il clown, il mostro “generico” e trasporli
nell'ambientazione contemporanea – solitamente i suburbs
della borghesia reaganiana. King si limita casomai ad aumentarne il
numero, come con i vampiri delle Notti di Salem o a mostrarne
la violenza, ma non c'è alcuna novità: è il solito
stereotipo ripetuto ad oltranza.
Come George
Lucas, Stephen King rielabora un'adolescenza nerd di fumetti, pulp e
romanzi d'avventura. Se il primo Star Wars (1977) centrifuga senza
particolari guizzi d'inventiva la fantascienza di Buck Rogers
degli anni '30 e '40, Stephen King si limita rielaborare l'horror
della Hammer inserendolo in un'ambientazione contemporanea. Wow,
sai che novità! Quanto meno con Lucas c'è uno studio accurato del
romanzo cavalleresco, dei canoni classici della crescita e della
maturazione dell'eroe, un tentativo riuscito di mescolare pulp a
studi di antropologia gonzo, senza prendersi troppo sul serio. In tal
senso, Lucas crea qualcosa di nuovo. King invece è un fallimento,
dove la reale rivoluzione nel genere – ammesso che ci sia –
andrebbe riconosciuta ai registi, non agli scrittori. Come
attualmente si cita e si rielabora la cultura degli anni Ottanta, in
quegli anni si citava e rielaborava la cultura degli anni Cinquanta.
Ovviamente, dall'attuale rielaborazione di una rielaborazione non può non uscire che merda, ma di questo abbiamo già discusso.
Se anche si
vuole creditare King con quest'innovazione – una trasposizione
dell'horror nel contemporaneo in realtà già presente con Richard
Matheson, Ray Bradbury e Shirley Jackson – non si può negare il
suo stile di scrittura sciatto e impersonale.
Con la
notevole eccezione dei romanzi scritti sotto pseudonimo, Stephen King
scrive con insopportabile pesantezza: ogni singola scena viene
descritta con esaurimento di dettagli del tutto superflui, inseguendo
fino all'ultimo le trame e gli obiettivi mondani dei diversi
protagonisti.
Lo stile di King suona familiare al lettore solo a
causa del suo utilizzo indiscriminato di loghi, marchi e brand degli
anni '80 e '90: invece di una lattina di bibita gassata, possiamo
leggere della “Pepsi” o della “Coca Cola Light” o invece del
pollo, i “Kentucky Fried Chicken”. Quando si tratta di descrivere
mobili, case, oggetti, giornali, ecc ecc King preferisce usare i nomi
propri, generando nel lettore un immediato riconoscimento.
“Ehi, man! E' come me! Scrive di cose che mangio/bevo/consumo/guido!”
Oltre a
essere una procedura volgare, non dissimile dalla pubblicità nei
film, è uno stile che invecchia facilmente: sfido le generazioni tra
venti, trent'anni a sapore cos'è un cordless, o nel campo dei
giornali, la pornografia dell'Hustler. Siamo lontani dal
citazionismo di Moore, perchè non c'è alcun tentativo da parte di
King di elevare il discorso o di collocarlo storicamente: si vuole
solo immergere il lettore nella storia con le tecniche più ovvie
immaginabili.
Mentre
scrittori come Lovecraft, Campbell e Ligotti ricercano una coerenza
interna all'incursione del soprannaturale che descrivono nelle
rispettive storie, Stephen King semplicemente si limita a eseguire un copia-incolla da
un manuale di mostri di D&d. Non si motiva mai il “perchè”
dell'horror in King: per quale motivo Christine è una macchina
infernale? E' in realtà un alieno? Il costruttore ha stretto un
patto demoniaco? Fornire una spiegazione obbligherebbe King a seguire
delle regole, a dare una struttura coerente al romanzo. Un obiettivo
chiaramente impossibile, come prova ad esempio il non sense
delle “Notti di Salem”, che si limita a moltiplicare il numero di
vampiri, descrivendoli nel frattempo tali e quali il Dracula di
Stoker, di cent'anni prima, con tanto di protagonista che sceglie di
confessarsi prima di affrontare lo scontro finale. Quest'incursione
dell'horror senza giustificazioni, senza documentazione e senza
motivo appare endemica nei racconti, che forzati dalla struttura
breve, falliscono nel nascondere nei fiumi di parole e divagazioni la
completa assenza di idee o semplici cause-effetto.
I mostri, le
maledizioni... compaiono dal nulla, spesso, come in Christine, il
protagonista stesso s'interroga in una -meta riflessione sulla causa
dell'elemento soprannaturale. “Pet Sematary” (1983) è un altro
esempio: perchè, perchè un cimitero su terra indiana ha la capacità
di far risuscitare gli animali morti? Qual'è la spiegazione? “E'
indiana, duh!”.
Il passaggio
dalla mostrologia all'orrore dei poteri della mente (“Carrie”,
“Shining”, “Firestarter”, ecc ecc) non introduce elementi
nuovi: Carrie ha il potere della telecinesi per una improbabile
derivazione genetica, ma King non si addentra nelle pseudo
motivazioni; Danny ha il potere di leggere nella mente e di vedere
(fosco) nel futuro, ma i paradossi generati dallo “shine” non
vengono spiegati da King, che si limita a impantanarsi nei buchi di
sceneggiatura.
Un'osservazione
di S. T. Joshi è particolarmente calzante: a inizio del romanzo,
Danny legge i pensieri di una signora. La scena ha lo scopo di
dimostrare il suo potere e allo stesso tempo è una maniera di King
di titillare il suo borghese lettore, con il proibito accenno del
“sesso”.
E in uno di quei lampi che di tanto in tanto lo illuminavano, Danny captò per intero il pensiero della donna: un pensiero che galleggiava sul brusio sordo e confuso di emozioni e colori che di solito gli giungeva nei luoghi affollati. (mi piacerebbe proprio entrargli nelle brache) Danny aggrottò la fronte mentre guardava i fattorini che sistemavano le valigie nel bagagliaio. La signora Brant fissava con espressione corrucciata l'uomo in uniforme grigia che sovrintendeva all'operazione di carico. Perché mai voleva entrargli nelle brache? Che avesse freddo, nonostante la lunga pelliccia? Ma se davvero aveva così freddo, perché non si era infilata un paio di calzoni suoi? La sua mamma portava i calzoni per quasi tutto l'inverno.
Il passaggio è certo
efficace, ma al di là della scelta di tradurre col medievale
“brache”, non si capisce per quale motivo Danny legga nel
pensiero parole e non immagini. E' chiaro come King non abbia
minimamente riflettuto sui (confusi) poteri che ha conferito a Danny:
il bambino legge letteralmente nel pensiero, come se il nostro
cervello fosse un libro di carta da sfogliare. Oppure, davvero “vede”
nel futuro e nella mente? E' una situazione confusa, ma a King non
importa...
Edizione francese divisa in tre parti! |
Il successo di “It”
deriva dall'idea di popolarizzare la figura del clown assassino.
Ci si può
lodare&sbrodolare con complessi ragionamenti sui profondi
significati filosofi del romanzo e dei due film (su cui non mi
esprimo, perchè non sono un esperto di cinema), ma in realtà il
successo commerciale derivava dall'idea del clown serial killer.
Iniziamo dal titolo: “It”,
come osserva S. T. Joshi, non è un nome affatto originale,
considerando come King avesse sicuramente letto “It!” di Theodore
Sturgeon.
“It” è un'abbuffata
kinghiana, un diluvio di parole.
Qualunque impatto potesse
avere il mostro, “It” viene diluito fino a scomparire in una
melma di descrizioni, azioni quotidiane e piccoli drammi borghesi. Ci
vogliono 700 pagine (!) prima di scoprire qualcosa su “It”,
ovvero che è un “manitou”, uno “Shapeshifter”. Settecento
pagine d'inesausto rompimento di gonadi, tra bulli e adolescenti, tra meschini fatti sentimentali e azioni quotidiane.
Se la prima
parte del romanzo dedicata ai ragazzi è sopportabile, la seconda
parte con gli “adulti” è la noia personificata. Pagine su
pagine, capitoli su capitoli incentrati su mondani dettagli che non
hanno alcun peso nella storia: come critica S. T. Joshi, King ha
ormai maturato con questo romanzo un amore per la propria voce, per
sentirsi parlare letteralmente nauseante.
Aver definito “It”
come un alieno pone il problema non indifferente di come eliminarlo,
quest'essere soprannaturale e in apparenza eterno: se è immortale,
cosa può fare un piccolo gruppo di eroi borghesi? Peter Straub aveva
fronteggiato l'identico dilemma in “Ghost Story”. Come in
Shining, come in Pet Sematary, King si limita a ignorare il
problema, risolvendo il tutto nella metafisica e nella magia
spicciola del “Rito di Chud”. Again, non c'è un serio
tentativo di “studiare” un'idea del soprannaturale, di pensare a
una soluzione razionale con quanto sappiamo di “It”: è un finale
scritto a braccio, sull'onda del momento.
Cos'hanno i Perdenti di
speciale per sconfiggere “It”?
Cos'hanno che non sia il
sentimentalismo da quattro soldi che permea tutti i romanzi di King?
“But if this is a story, it’s not one of those classic screams by Lovecraft or Bradbury or Poe”
Già, ma
questo non è un complimento, caro King...
“L'Ombra
dello Scorpione” prosegue la linea narrativa tracciata da “It”
con un altro voluminoso tomo, stavolta abbracciando la tematica della
fine dei tempi, dell'Apocalisse, se volete. La prima versione nel
1978 aveva 400 pagine tagliate; nel 1990 è stata pubblicata la
“director's cut”, anche se a un confronto attento, King ha
rimaneggiato l'opera con riferimenti a Bush e all'AIDS per rendere il
romanzo contemporaneo alla ristampa negli anni '90. So much for
integrity.
Nonostante
l'agente dell'influenza colpisca globalmente,
la storia rimane circoscritta agli Stati Uniti. Sappiamo che è stato
colpito il mondo intero, ma who cares?
I protagonisti di King sono oltremodo stupidi. La prima cosa che
fanno è radunarsi in Nebraska (!?) e firmare la Costituzione e il
Bill of Rights. Come osserva S. T. Joshi, desiderano
ristabilire il governo degli Stati Uniti nonostante sia stato proprio
il governo a causare il disastro in primo luogo, rilasciando per
errore l'arma batteriologica!
Si volse verso le macchine, ferme con il motore acceso, che mandavano nuvolette di carburantebruciato nell'aria del mattino. Mentre faceva ciò, ci fu un movimento verso le prime file della folla.All'improvviso un uomo si fece avanti. Era un uomo grosso, la faccia bianca quasi quanto il grembiule da cuoco che indossava. L'uomo nero aveva restituito il rotolo a Lloyd e le mani di Lloyd ebbero uno scatto convulso quando Whitney Horgan venne fuori. Si sentì chiaramente il rumore della carta che si strappava in due.
«Ehi, gente!»gridò Whitney.
Un mormorio confuso percorse la folla. Whitney tremava per tutto il corpo, come preso da paralisi. La sua testa continuava ad agitarsi in direzione dell'uomo nero e poi via da lui. Flagg si rivolse a Whitney con un sorriso feroce. Dorgan scattò verso il cuoco e Flagg gli fece cenno di fermarsi.
«Questo non è giusto!»gridò Whitney. «Lo sapete che non è giusto!»
Silenzio mortale della folla. Sembravano trasformati tutti in pietre tombali.La gola di Whitney si agitava in modo convulso. Il pomo di Adamo andava su e giù come una scimmia su un ramo.
«Una volta eravamo americani!» gridò alla fine. «Non è così che si comportanogli americani. Io non sono niente, ve lo dico io, sono solo un cuoco, ma so che non è così che si comportano gli americani, state a sentire un pezzo di merda assassino con gli stivali da cowboy...»
In realtà
giustiziare senza legge e senza processo è un comportamento
squisitamente americano.
Se c'è una
caratteristica che affascina la società americana, dal Vecchio West
al supereroe contemporaneo è proprio l'attività del vigilantes.
Storicamente sempre pronti a lanciare una caccia alle streghe verso
gli indifesi o a farsi difensori dei proprietari di schiavi, di
terreni, di proprietà. Lettura selettiva della storia, King!
Randall
Flagg è un cattivo che sembra uscito da un cartone animato.
King stesso
lo descrive come “‘the purest evil left in the world’”. Va da
sé, che una volta stabilita questa dicotomia, è sufficiente
affidare agli eroi rincoglioniti della situazione il compito di
uccidere lui e la sua banda e voilà, ogni problema sarà
risolto.
Verso la
fine del romanzo, l'esplosione di una bomba atomica avviene
attraverso quanto King descrive come “La Mano di Dio”. Non è una
battuta, o un'ironia dell'autore: all'interno della storia è davvero
“La Mano di Dio”! Ora, non posso fare a meno di chiedermi: dove
diavolo era “La Mano di Dio” quando il governo rilasciava la
mortale epidemia e milioni di persone morivano?
Come
“L'Ombra dello Scorpione” e “It” dimostrano a quale punto
negli anni '80 King fosse narcisisticamente innamorato della propria
scrittura, così “Misery” completa una lunga sequenza di
personaggi di cartapesta, che non hanno altro scopo se non
rappresentare sua Magnificenza King.
Bill
Denbrough in “It” è semplicemente King.
Roberta
Anderson in “Le creature del buio” è nient'altro che King.
Thad
Beaumont? (“La metà oscura”) Ben Smears? (“Le notti di Salem”) King, always King.
“Misery”
riassume e compendia quest'atteggiamento selfistico.
Robert
Sheldon è una versione meno appesantita di King, uno specialista
nell'Harmony romantico invece che nell'horror. Non c'è altra
differenza, il protagonista è lo scrittore. Ovviamente, il
sentimento dominante è il risentimento bipolare: King disprezza i
critici e si vanta di vendere carrettate di libri, ma nel contempo è
gonfio di gelosia perchè quello stesso establishment che disprezza
non gli riconosce alcun merito letterario. Quando riflette su quello
che ha scritto, Sheldon non si pente affatto, ritiene che siano
romanzi commerciali, ma pur sempre buoni romanzi. Come King, fallisce
nell'esprimere qualsiasi auto-critica. In effetti, l'intero romanzo è
una metafora della condizione di King scrittore negli anni '80: come
Sheldon è prigioniero di Anne Wilkeses, così King è prigioniero
dei suoi lettori horror, che gli richiedono un nuovo romanzo ogni
anno. Sheldon/King sputa nel piatto dove mangia (tutti i lettori sono
come la Wilkeses? Sul serio?) e nel contempo è convinto che un suo
lavoro “originale” verrebbe massacrato dai malvagi critici.
Un ultimo
aspetto disturbante dei romanzi di King è la continua, ossessiva
descrizione negativa dei poveri, degli umili, dei lavoratori che non
rientrano nella sua amata middle class.
In misura
minore, anche l'alta borghesia e l'aristocrazia incontrano il suo
disprezzo, ma unicamente se si tratta di una superiorità
intellettuale – è ancora una volta l'odio antiaccademico di King.
Watson
(“Shining”), Gary Pervier (“Cujo”), Roland Lebay
(“Christine”), Joe St. George (“Dolores Claiborne”)? Poveri e
in quanto tali ignoranti, sporchi, incivili, razzisti e violenti.
Il male
soprannaturale delle storie di King preferisce come veicolo per le
sue azioni personaggi di bassa estrazione: tra i tanti, George Stark
(“La metà oscura”) ed Henry Bowers (“It”).
Il culmine è
raggiunto nella disgustosa descrizione di Randall Flagg, personaggio
anti-establishment, populista e come tale pericolosissimo agli occhi
di King:
Randall Flagg, l'uomo nero, marciava verso sud sulla Statale 51, tendendo l'orecchio ai rumori della notte provenienti da ambo i lati di quella stretta strada che prima o poi lo avrebbe portato fuori dall'Idaho e nel Nevada.(...)
Marciava verso sud sulla Statale 51, i tacchi consunti degli stivaletti appuntiti da cowboy risonanti sull'asfalto; un uomo alto senza età, con un paio di jeans sbiaditi, stretti alle caviglie e una giacchetta di tela. Aveva le tasche gonfie di cinquanta diversi tipi di volantini contrastanti... manifestini per tutte le stagioni, retorica per tutte le stagioni. Quando quest'uomo distribuiva un manifestino, la gente lo prendeva, quale che ne fosse l'argomento: i pericoli delle centrali atomiche, la parte sostenuta dal cartello internazionale ebraico nel rovesciamento di governi amici, la connessione CIA-Contras-cocaina, il sindacato dei braccianti agricoli, i Testimoni di Geova (Se rispondi «Sì» a queste dieci domande, sei SALVO!), i Neri per l'eguaglianza militante, il codice del Ku-Klux-Klan. Li aveva tutti quanti, e altri ancora. Portava un distintivo su ciascuna tasca della giacchetta di tela. A destra, una faccia gialla sorridente. A sinistra, un maiale con un berretto da poliziotto in testa, sotto cui stava scritto a semicerchio: «Come sta il tuo porco?»(…)Procedeva verso sud, a un certo punto della Statale 51 fra Grasmere e Riddle, più vicino al Nevada, ora. Tra poco si sarebbe accampato e avrebbe trascorso la giornata dormendo, per svegliarsi all'imbrunire. Avrebbe letto, non importava che cosa, mentre la cena cuoceva su un fuocherello da bivacco senza fumo; parole di un qualche tascabile porno, logoro e senza copertina, o magari Mein Kampf, o un fumetto di Robert Crumb, o uno dei fogli fascisti degli «America Firsters» o dei «Figli dei Patrioti». Davanti alla parola scritta, Flagg era un sostenitore delle pari opportunità.
Come si fa a
mettere sullo stesso piano un sindacato di poveri braccianti e la
propaganda antisemita?
Com'è
possibile confondere e ritenere egualmente populiste le proteste
ambientaliste e I Testimoni di Geova?
Oggigiorno
vedere equiparati i “Neri
per l'eguaglianza militante” con il KKK è semplicemente
disgustoso. E il povero Crumb? Why?
E' un artista di fumetti underground, perchè un Diavolo come Flagg
dovrebbe servirsene? E' casomai l'esatto opposto dei “fogli
fascisti”. E citare la pornografia per stuzzicare il lettore è una
tecnica davvero d'un bassume squallido.
A King non
interessa l'horror.
A King non
interessa il sublime.
In effetti a
King non interessa il soprannaturale tout court.
Sottoposte
al microscopio, quantomeno nel filone che qui ho brevemente
analizzato, le storie di King sono storie sulla famiglia. Sono storie
sulla middle class raeganiana o post caduta del Muro.
L'horror per
King è non è il mostro, non è il serial killer o l'animale
impazzito: è la rottura dell'unità famigliare. A differenza dei
maestri, come Lovecraft e Ligotti, King non prova un briciolo
d'emozione nel descrivere le sue creature. Sono mezzi, “arnesi”
narrativi con cui attentare ai rapporti tra padre e figlio, tra gli
amici adolescenti, tra sorella e fratello, ecc ecc.
Ancor
peggio, piedi di porco con cui rovinare le ambizioni di giovani
scrittori protagonisti sue controfigure, salvo confortar(li)si con un
finale di successo, tanto di pubblico quanto di critica.
Come avevo già scritto a proposito dello Splatterpunk, il vero orrore è ormai
vedere generazioni di scrittori “mangiati” dalla concorrenza
pluri decennale di King.
Mangiati da
mainstream mascherato da horror.
2 commenti:
Penso che questa sia la migliore analisi su King che abbia mai letto. Concordo sul finale. Da quel poco che ho letto, di King ho apprezzato il dramma familiare. Problemi di gente vera, in storie inventate.
@Marco Grande Arbitro
Guarda, ne stavo discutendo su Facebook proprio in questo momento e altri lettori mi hanno confermato la tua stessa opinione. Immagino dipenda da quanto il lettore sia interessato a seguire il "dramma familiare", anche se non si può negare l'immedesimazione nei romanzi di King.
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