lunedì 21 novembre 2016

La bella vita del legionario: Giochi Africani, di Ernst Junger


Giochi Africani, di Ernst Junger, è forse una delle sue opere più leggibili.
Heliopolis è una distopia raffinata, ma decisamente invecchiata cogli anni – lo scienziato alla Steve Jobs è un italiano, per dire – mentre Boschetto 125 è una versione letteraria e pesante delle Tempeste d'acciaio: al contrario Giochi Africani è un vero romanzo, che possiamo rintracciare al genere picaresco. Il nostro protagonista, un alter ego di Junger, è uno studente di sedici anni appassionato di romanzi d'avventura e storie di esplorazione in Africa. Il suo passatempo preferito consistere in leggere, leggere e leggere, immedesimandosi nei protagonisti di queste dime novels di inizio '900. Quando coltivare queste perversioni letterarie non basta più, decide di sfruttare la retta annuale del collegio per fuggire dalla famiglia, comprarsi una pistola e viaggiare in Francia a Metz, con la confusa idea di arruolarsi nella Legione straniera.
La realtà del colonialismo francese e del Marocco in particolare si rivelerà ben'altra cosa...

Come tutta la narrativa di Junger, anche Giochi Africani è biografico: lo scrittore, quand'era adolescente, effettivamente si arruolò di straforo nella Legione straniera, le cui avventure rielabora in questo agile libriccino (neanche un centinaio di pagine di disavventure...)
Lo prova, ad esempio, la seguente finta tessera, dove lo vediamo nell'uniforme da legionario:


Junger, come tutti gli adolescenti, decide che il primo passo per essere un vero esploratore è possedere un'arma: compra così una rivoltella alla drogheria del suo paese. Rivoltella nello zaino, il passo successivo è sborsare un'incredibile somma per comprare un volume di viaggio, “Africa”, un resoconto, rifletterà il narratore successivamente, inventato da capo a fine. Equipaggiato in tutto e per tutto, il nostro impavido prende il treno e parte per la Francia. Già l'incipit decide il tono della storia: picaresca, surreale, avventurosa, piena di storielle. Junger capisce bene quale sia la più grande paura di un sedicenne, ovvero, non venire preso per serio: il rimprovero bonario, la presa in giro sono un pericolo più grande di ogni inseguimento, rapina, sparo. Il confine con la Francia spaventa per il pericolo di essere catturato e sgridato, non per la possibilità di diventare tiri al bersaglio da parte dei gendarmi. Giunto a Metz, l'indecisione di cui è preda, se arruolarsi o meno, lo porta a gettare nel tombino ogni suo risparmio, per obbligarsi all'arrolamento, pena il disonore.
Comportamenti sciocchi, comportamenti anche molto adolescenziali.
Come nei diari, Junger inserisce storielle e aneddoti che valgono da sole la lettura; si veda la seguente descrizione di uno dei legionari, compagno di Junger:
A questo modo venimmo a sapere che era nato in un remoto paese di montagna e cresciuto sotto le impietose bastonate del padre. Le sue forze s'erano sviluppate precocemente e un bel giorno, allorché il vecchio si accingeva a batterlo di nuovo, lo aveva picchiato quasi a morte, abbandonandolo solo nella sua fattoria. Poi era andato da certi vasai che vivevano miseramente in una vallata solitaria e da loro fu considerato un lavoratore instancabile. Lì, al calore d'un sole ardente, essi cuocevano grossi tubi d'argilla lavorando a cottimo e, credere alle sue affermazioni, guadagnavano quattrini a palate. Quei sabati in cui, essiccati come tronchi d'albero, incassavano il loro salario, andavano in paese, tornado con enormi quantità di acquavite che portavano alle labbra negli stessi secchi da stalla. Il culmine di quest'imbandigione era costituito da risse selvagge, che talvolta sfociavano in rivoltellate sparate alla cieca per loro divertimento nell'oscurità.

Junger prosegue a descrivere il carattere di questo Reddinger che, ubriaco in treno, si vanta di aver accoppato “un tale” una volta e di saper fare “anche di peggio”. Un ciclope dai tratti grotteschi, in buona compagnia con tanti altri personaggi. Due terzi della Legione straniera erano infatti all'epoca tedeschi che, come osserva l'autore, sono lanzichenecchi nati. Compare uno svevo veterano, maestro di litigi e risse nelle osterie, un austriaco da Vienna in fuga dai valzer e da un amore non ricambiato, un nobile rovinato nella reputazione, due italiani, un olandese e così via...
Il personaggio senza dubbio più interessante è Benoit, un veterano del Marocco e dell'Indocina. A differenza delle nuove leve, ha un incarnato malaticcio, scavato, dal volto simile a un teschio: con buona pace delle raffigurazioni hollywoodiane, il clima e le malattie decimavano la legione straniera tanto quanto il nemico. Gli uomini che ritornano dalle colonie sono sempre di costituzione fragile, dai riflessi rallentati o afflitti da problemi di cuore o respiratori: quand'anche sembrano essere sull'attenti, si calmano i nervi con un abuso di vino. Benoit è un reduce dall'Indocina (Annam), cui sogna di tornare. Dapprima racconta del passaggio presso lo Stretto di Suez:
Lungo il viaggio attraversammo il canale di Suez, quello è il punto migliore per svignarsela. Ti lasci semplicemente cadere in acqua e sei in territorio neutrale. Circa quindici uomini fuggirono a quel modo, tra cui pure uno che non sapeva nuotare e affogò. Prima di andarsene, si misero in fila lungo la sponda e salutarono cortesemente.

Il nemico ad Annam sono le bandiere nere, sanguinari pirati cinesi. Il modo di agire è stranamente simile a quello della guerra nel Vietnam; per citare Benoit, spari nei cespugli senza vedere il nemico, incendi per rappresaglia un paio di villaggi e te ne torni in caserma.
Ogni legionario riceve una ragazzina annamita che si occupa di tenere in ordine letto, fucile, uniforme e di servire i pasti. Durante una sera, mentre Benoit stava tornando a letto, gli capita di vedere un annamita che, machete in mano, insegue un altro annamita spaventato. Benoit salva il secondo con un affondo di baionetta, scoprendo che l'uomo col machete era sotto effetto della cannabis, che spesso causa episodi psicotici nella popolazione. Il muso giallo, come lo definisce Benoit, è così riconoscente che inizia il soldato ai segreti dell'oppio.
La descrizione dell'esplorazione ermetica nelle Terre del sogno è stranamente simile sia agli omonimi racconti di Lovecraft, sia alle città “morte e abbandonate” dei racconti di Conan.
E' probabile che un certo gusto per l'abbandonato e il meraviglioso nasca e si sviluppi dapprima nei fantasy letterari di Coleridge&Dunsany, per poi essere ripreso da Lovecraft e dal fantasy propriamente detto. Al nocciolo, tuttavia, dovevano esserci le esplorazioni “oppiate” di questi esploratori e di questi legionari, influenzati a loro volta dalle Mille e una notte, cui lo stesso Lovecraft era devoto lettore. Una mescolanza di droga e orientalismo. La descrizione di Junger è identica alle descrizioni dei racconti onirici di Lovecraft, vedasi Polaris tra tutti. La visione della città deserta e abbandonata, “cthuliana” perchè vecchia di millenni, ritornerà poi in Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza. nell'esperienza personale con lsd e oppio dello stesso Junger negli anni '50.
Vaghi per città morte piene di monumenti e palazzi – ma non sono veramente morte – solo pietrificate. In ogni palazzo vi sono mille stanze e in ogni stanza vi sono mondi che cominciano ad animarsi appena tu vi metti piede. Ovunque tu volga lo sguardo, v'è un brulichio d'immagini. Sono servizievoli, sei tu a evocare come per incanto. Impari a disprezzare le ricchezze del mondo, la gloria, le donne, il denaro e il potere degli uomini, poiché sei re degli spiriti in regni dal cui trono dirigi il cammino degli astri e dei granelli di polvere.

Legione Straniera in Marocco (1908)
L'arruolamento segue all'arrivo in Marocco, dove le reclute vengono alloggiate nella città di Bel-Abbes. Tutta l'esperienza africana, per il nostro giovane protagonista, è all'insegna della disillusione: la città africana è come tutte le città europee, con lampioni e automobili; la giungla dei romanzi cede il passo al deserto del reale; i nativi li prendono in giro o li ignorano; si passa tutto il tempo in caserma, a pulire e rammendare; i compagni di reggimento sono malviventi, bulli o scansafatiche. A tutti gli effetti, non c'è in Giochi Africani, una singola battaglia. La delusione del protagonista aumenta man mano che ci si avvicina alla fine, con una serie di docce fredde micidiali: la pistola favoleggiata non ha la sicura, rischiava di spararsi a tenerla in zaino, le conchiglie lungo la spiaggia sono carbone di scarto gettato come immondizia, fuggire dalla Legione per darsi all'avventura è un sogno impossibile. Il culmine è dato quando il giovane, assieme a Benoit, cercano di fuggire per raggiungere la natura selvaggia, dove vorrebbero vivere di cosa trovano (una sorta di naturisti ante litteram!). Quando i soldati li cercano di notte come disertori, si rifugiano dietro una fila di cespugli spinosi, dalla strana forma. Quando sarà giorno, scopriranno essere una fila di grossi carciofi! Il rifugio scelto per non esser trovati sono dei covoni di paglia, cui un forcone fa capolino alle prime luci dell'alba. Addirittura l'ufficiale a Bel Abbes non li degna di una corte marziale, limitandosi a una settimana di cella morbida, con tanto di mercato nero e sigarette: la condiscendenza verso quest'ultima “eroica” fuga e la banalità di quest'Africa così borghese, così volgare uccidono i sogni del sedicenne Junger.

Il fallimento di questi Giochi Africani non ne deve però smentire il carattere di “gioco”: tutta l'opera è divertente, avventurosa, mai seria. Le nazioni sono qui descritte con i toni dell'operetta, in una confusa armonia/rivalità tra fratelli che trova nella Legione il suo maggiore coagulo. I malviventi, i furfanti sono tali perchè poveri, imbranati, adorabilmente stupidi. Non vi sono personaggi odiosi, con Junger, troviamo anzi una sorprendente carrellata di cittadini ben disposti ad aiutare il prossimo. Il medico a Marsiglia, l'oppiomane Benoit, il padre “positivista”, le cameriere degli alberghi, il maestro di arabo alla guarnigione... Sono al massimo gretti, piccoli, mai veramente cattivi. 
Proviamo oggigiorno a scrivere di un ragazzo che fugge da casa e scommetto che vi mettereste a inventare un mostro dietro l'altro, in un clima quale il nostro, con una criminalità di gran lunga inferiore alla Belle Epoque! Viene da pensare che non è il mondo a essere diventato più pericoloso, siamo noi a essere più vigliacchi.

Ad ogni modo, Giochi Africani lo trovate a Trieste nella Biblioteca di Storia e Filosofia di Androna Campo Marzio, assieme all'ottimo Irradiazioni 1941-1945.

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