venerdì 11 luglio 2014

Nelle tempeste d'acciaio, Ernst Junger


C'è sempre stata abbondanza di autobiografie e testimonianze sulla prima guerra mondiale e com'è ovvio l'anniversario 1914-2014 ha portato ristampe e nuove testimonianze.
Ammirevole, in tal senso, l'operazione inglese, che ha reso disponibile la bellezza di 4 milioni di testimonianze (in continuo aumento) di documenti di fanti e ufficiali sul fronte, liberamente disponibili al pubblico. Se iniziative di vario genere sono inoltre attive in Francia e in Italia, la Germania vegeta in una curiosa indifferenza.
La ricorrenza non desta interesse, o viene tenuta viva da piccole cerchie di storici e eccentrici. Un bell'articolo della BBC indagava il curioso fenomeno. Un peccato, perché il testo che volevo proporre in quest'articolo è proprio tedesco e nella cronologia tormentata dei reduci dalla Grande Guerra, è tra le prime testimonianze. Si tratta dei diari di Ernst Junger, Nelle tempeste d'acciaio.

Non senza provare un certo brivido, mi ricordo che durante quella colazione tentai di svitare uno strano, piccolo apparecchio, trovato davanti ai miei piedi sul fondo della trincea; credetti di riconoscere, Dio sa perché, una «lanterna da assalto». Soltanto molto più tardi capii che l'oggetto col quale avevo scherzato era una bomba a mano già priva di sicura.
Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Remarque?
Data della prima edizione: 1929
Un anno sull'altopiano, di Emilio Lussu? 1938
E in tutto questo Nelle tempeste d'acciaio data già al 1920!
Il flemmatico Junger aveva raccolto i suoi scritti di trincea, li aveva raccolti, riordinati e li aveva subito mandati alle stampe, con peraltro ottimi risultati di vendita.
Il dato è importante, perché senza nulla togliere al grande valore letterario delle opere precedentemente citate, più ci si avvicina cronologicamente a un evento storico, più – com'è logico- la testimonianza si fa attendibile.

Non è certo una novità che occorra prendere con le pinze le testimonianze storiche “viventi” di chi abbia vissuto di prima persona un conflitto; specie infatti se la testimonianza è orale, il retroterra dell'attuale panorama politico-culturale risulterà impossibile da eliminare. Non si fanno domande in piena oggettività, ci si aspetta sempre una risposta, o quantomeno una risposta di un certo tipo. Così, in Friuli Venezia Giulia, le prime ricerche sui Benandanti degli anni Sessanta incontravano l'ostilità dei contadini, che rispondevano di non aver mai saputo nulla di superstizioni del genere; sapevano bene che la superstizione pagana era vietata e ridicolizzata da preti e gente istruita e preferivano così tacere. Ma dopo neanche vent'anni, la situazione cambia: i ricercatori vengono accolti benevolmente, le superstizioni vengono spiegate, a volte arricchite con particolari inventati. Il contadino è ora consapevole che non lo si sta ridicolizzando; è ormai in pensione, sa cos'è il lavoro di antropologo e l'importanza di conservare le tradizioni. Quella dei Benandanti non diventa più “superstizione” da nascondere.
Piccolo esempio, ma credo utile per chiarire come l'oggettività estrema in storia non esista e come purtroppo non possiamo viaggiare indietro nel tempo e lasciare telecamere che ci diano la visione “fredda e scientifica” che vorremmo.*
Di conseguenza ogni testimonianza sceglie cosa e come trasmettere e su quale tema battere cassa.

Quest'aspetto va tenuto in grande considerazione quando si analizza Junger.
Oltre al suo valore di scrittore, che va al di là del suo ruolo della grande guerra, ma attraversa il novecento con una grande messe di scritti, il nostro giovane tenente annota i suoi diari con stile laconico, lento e preciso.

Il diario esordisce con il suo arrivo al fronte nel 1914 e procede di anno in anno, superando snodi fondamentali, come la sua prima battaglia e la sua prima ferita e arrivando infine al 1918, quando ferito per la quattordicesima volta ricevette la stella d'onore Pour le Meritè.
E persino nei suoi momenti più concitati, il tono è flemmatico, calmo; con nelle vene più ghiaccio che sangue. Il modo con cui viene descritta la trincea del 1915 ricorda più l'aratura dei campi che una fortificazione. Il modo con cui tranquillamente l'autore decide di “fare un giro d'esplorazione” nella trincea nemica, ricorda una scampagnata con gli amici, un picnic mortale. Non c'è sventatezza, in queste descrizioni, o incoscienza; più una sorta di... umh... non saprei come descriverlo, se non la soddisfazione del lavoro ben fatto. Junger, a differenza degli sfortunati coscritti francesi e italiani, si arruola perché lo vuole. Apprezza il lavoro del soldato, lo sente suo.
Ovviamente, questo per un lettore contemporaneo è inaccettabile.
Junger sembra volersi porre in un interstizio, un limbo che non viene mai previsto dagli attuali schieramenti Guerrafondai Vs Pacifisti.
La guerra che combatte non è una guerra “giusta”, combattuta per la pace o per liberare dalla tirannia un popolo.
Non è nemmeno una guerra nazionalista, nel senso di difendere la propria patria o annientare una volta per tutte il nemico.
Per Junger, la guerra è solo guerra. E' un conflitto, che ha valore di per sé stesso, una macchina che carbura esseri umani, ma che non lo spinge a odii insensati o all'amore per l'uccisione.
Con grande abilità, Junger si tira fuori da tutte queste “prese di posizione” pro o contro.
Il lettore di conseguenza è infastidito da tanta indifferenza, perchè abituato a essere imboccato di giudizi netti e severi, di condanne morali lanciate dal cielo. Ma dalla penna di Junger non esce mai né lode né critica.
La guerra è un universo a sé, che trasforma gli uomini in qualcos'altro, al di là del bene e del male.
Le condanne le lancino i preti.

Solo un tenente e un sergente erano riusciti a passare il reticolato. Il tenente cadde benché portasse una corazza sotto l'uniforme, perché una pistolettata tiratagli da Reinhardt a bruciapelo gli aveva conficcato un pezzo di metallo della corazza nel ventre. Il sergente ebbe le gambe quasi amputate dalle bombe a mano; tuttavia tenne fino alla morte, con stoica flemma, la sua corta pipa stretta fra i denti. Anche lì, come del resto dovunque ci scontrammo con gli inglesi, riportammo una favorevole impressione di audacia e di coraggio virile.
In quella mattinata di successi, me ne andavo attraverso la trincea osservando il tenente Pfaffendorf che, sulla piazzola di una sentinella, con gli occhi fissi al binocolo a forbice, dirigeva il fuoco dei suoi lanciabombe. Notai subito un inglese che, dietro la terza linea nemica, camminava al di sopra della copertura, disegnandosi netto sull'orizzonte con la sua uniforme kaki. Strappai di mano alla sentinella più vicina il fucile, regolai l'alzo a seicento metri, presi di mira l'uomo un poco avanti alla testa e premetti il grilletto. Quello fece ancora tre passi, poi cadde sul dorso, come se gli avessero tolto le gambe di sotto il corpo, agitò le braccia e rotolò nel cratere di una granata; attraverso le lenti vedemmo brillare ancora a lungo la sua manica marrone fuori dell'orlo.



Aveva ragione un utente di Anobii a definire Junger un epigone del De Bello Gallico di Cesare.
Il tono è simile, uno stile didascalico e attento, quasi pignolo. Ma a voler analizzare più a fondo, il modello è ancora anteriore e risale agli antichi greci. Lo stoicismo con cui Junger accoglie la morte di tutti i suoi amici in guerra, o dei suoi numerosi sottoposti ripercorre lo stesso eroismo fatalista di certi eroi greci. Come Kroisos ucciso in prima fila nella sua prima battaglia per volere imperscrutabile di Ares, Junger paga il suo tributo ai compagni uccisi, ma senza accusare le alte sfere o la guerra. Anzi, il nemico è rispettato quanto più è coraggioso e la sua morte in prima fila, per mano di un cecchino o di una granata è una morte accettabile, una “buona morte”. C'è un leitmotiv che si ripete nei primi tre anni in trincea: dopo una grande battaglia o un grande bombardamento, Junger riunisce ufficiali e soldati e nella cantina di qualche villaggio sotto fuoco d'artiglieria tracannano infinite bottiglie di ottimo vino francese e trangugiano grandi botti di birra. Ancora una volta, difficile non pensare all'eredità mitologica; in questo caso nordica, norrena. Un Valhalla condito di shrapnel.

Durante la guerra mi sforzai sempre di considerare l'avversario senza odio, di apprezzarlo secondo la misura del suo coraggio. In battaglia cercai di individuarlo per ucciderlo, senza attendere da lui cosa diversa. Mai però che ne abbia pensato male. Quando, in seguito, mi caddero in mano dei prigionieri, mi sentii responsabile della loro sicurezza e cercai di fare per loro quanto era in mio potere.

E' ovvio che con un approccio del genere alla guerra, Junger sia un autore molto bistrattato, spesso beniamino di estreme destre illeterate. Errore fondamentale, tuttavia, perché come evidenziato nel passo citato, Junger non odia nessuno. Prova certo un'estrema frustrazione quando l'artiglieria “amica” per errore bombarda il suo reggimento o quando la burocrazia gli mette i bastoni tra le ruote. Ma non c'è alcuna condanna dei francesi, degli inglesi, o di immaginosi “nemici interni”. Junger scrive freddamente, senza ostentare mai troppe emozioni, ma non si può negare che a elencare quanto fa e come si comporta, ne emerge un tenente molto vicino ai suoi uomini, decisamente solare. Fa bisbocce ogni sera, parla coi sottoposti, cerca di salvare i soldati feriti al suo comando. Ama il rischio certo, e ammira il coraggio al limite del suicidio. 
Hitler stesso, provava uno strano fascino per le Tempeste d'acciaio, cosa che salvò la vita di Junger, fastidioso eroe di guerra sempre molto critico verso il regime nazista. Tuttavia, tra il totalitarismo e questi diari di guerra c'è una voragine incolmabile per un'unica, semplicissima ragione: Junger non odia nessuno.
Junger non odia gli inglesi, che pure gli ammazzano i suoi più cari amici.
Junger non odia il vasto codazzo di cuochi, magazzinieri, dottori e imboscati, che pure non sperimentano i pericoli del fronte.
Junger è solo un soldato e si riconosce in questo.
Junger ammazza senza odiare, cosa tanto più straordinaria in un conflitto tanto “totale” e “violento”.
E se ci si libera – io ci sono riuscito alla mia seconda rilettura – dai paraocchi del “giudizio morale” si scopre un soldato che in un romanzo d'avventura definiremmo senza dubbio intrepido, un Achille sporco del fango di trincea.

Con la mano destra stringevo il calcio della pistola e con la sinistra una bacchetta di bambù.
Avevo ancora addosso, nonostante sentissi molto caldo, il lungo pastrano e, a norma di regolamento, i guanti. Nell'avanzare, un terribile furore bellico s'impadronì di noi tutti.
Una smania incontenibile di uccidere accelerava i miei passi. Avevo in corpo una tale rabbia che mi fece piangere. L'immensa volontà di distruzione che pesava su quel campo di morte si concentrava nei cervelli, avvolgendoli in una rossa nebbia. Singhiozzando e balbettando ci scambiavamo frasi senza senso e uno spettatore non prevenuto avrebbe certo immaginato che fossimo sul punto di soccombere a un eccesso di felicità. Attraversammo senza difficoltà un groviglio di reticolati fatti a pezzi e saltammo nella prima trincea che a stento si riconosceva ancora per tale.


Dalle grandi offensive del 1914/15 alla battaglia del Kaiser con le truppe d'assalto, ultimo disperato sforzo tattico dell'esercito tedesco, Junger letteralmente combatte in ogni scenario possibile, accumulando ogni genere di cicatrice. Verso la fine del conflitto l'ultima ferita – quella al petto – viene inquadrata in uno scenario a tinte quasi da videogioco, dove un delirante Junger, sorretto alla spalla dagli aiutanti, si fa strada di cratere in cratere, in una disperata corsa per non essere catturato. Qualcosa d'assurdo – il pathos, l'immagine stessa del soldato ferito che continua a combattere – che se ficcata nella narrativa definiremmo improbabile e supereroistica.
Ma è quello che è successo; e sarebbe bene anche tributare ammirazione per il coraggio di quei soldati senza crogiolarsi troppo nella definizione attuale di “inutile strage”.

Kius mi raccontò poi alcuni dettagli che ascoltai con quel sentimento che si prova quando si sentono da un terzo le follie commesse in stato di ubriachezza. Aveva dato la caccia a un inglese a colpi di bombe a mano lungo tutto un settore di trincea. Terminate le munizioni, aveva continuato l'inseguimento a colpi di zolle di terra indurita «per costringere l'avversario a correre ancora», mentre io, in piedi sul parapetto, mi sbellicavo dalle risa.
* Ovviamente, a voler fare l'avvocato del diavolo, anche mettere la telecamera in un certo modo e in una certa posizione, o scegliere cosa riprendere impediscono questa visione “imparziale” e sono risultato di un certo gusto, una certa scelta.

3 commenti:

Argonauta Xeno ha detto...

Sicuramente le testimonianze di prima mano aiutano nell'affrontare i problemi aperti di questo conflitto. A confrontarlo con Lussu, tuttavia, credo si commetta lo stesso errore degli estremisti di cui parlavi, perché Un anno sull'Altipiano è un libro scritto nel 1938, da un autore in esilio e in un clima politico difficile. Prospettive e finalità sono quindi ragionevolmente diverse. Personalmente non so se questo libro possa "raggiungere" un lettore contemporaneo, ma probabilmente è più vicino a un certo modo di pensare del primo novecento e quindi storicamente più accurato, pur nella sua inevitabile soggettività.
Interessante segnalazione.

Coscienza ha detto...

Vedo che abbiamo avuto un interessante caso di sincronicità, nel pubblicare articoli sulla grande guerra. :-D

Quanto scrivi del contesto storico di Lussu è verissimo e va giustamente sottolineato. Abbiamo inoltre anche testi più vecchi che sono cmq pacifisti, come Il Fuoco, di Barbusse, che è una violenta critica alla guerra imperialista e all'esercito francese. Sono tutte opere di grande valore letterario, per certi versi stilisticamente superiori a Junger. Tuttavia, quanto m'interessava sottolineare nell'articolo - impresa in cui non so se sono riuscito - è come Junger non condannando la guerra non condanni nemmeno il nemico. Il francese o l'inglese non viene mai "disumanizzato" nonostante ovviamente non gli vengano mai fatti sconti di nessun genere.
Eppure, ce ne sarebbe da recriminare, a cominciare dall'enorme afflusso di risorse che avevano gli inglesi grazie all'India e alle colonie africane, che usavano come brutale serbatoio da cui drenare risorse e materia prima; o al modo fanatico e ultrapatriottico di condurre la guerra proprio dei francesi!
Personalmente nel dibattito attuale non riesco a riconoscermi in nessuna delle due posizioni dominanti; nè in chi - e ce ne sono più di quanti si pensa - celebra la vittoria nella prima guerra come il trionfo dell'Italianità, e altre variopinte stronzate. Ma nemmeno nella posizione pacifista che condanna ogni guerra e ogni soldato che vi partecipa, visto sempre come "inerme fantaccino" il cui coraggio dev'essere sempre taciuto. Ecco, Junger offre una sorta di terza via, non so se mi spiego.

Cmq se ti va di dargli un'occhiata, lo trovi che galleggia in formato pdf sull'Internetz ;-)

Argonauta Xeno ha detto...

Cercherò, grazie!