Non riesco a studiare senz'avere sotto
mano qualcosa di radicalmente diverso dall'argomento dell'esame.
Se
studio filosofia, nelle pause preferisco i libri di storia; se studio
storia, i libri di filosofia, se studio come nell'ultima sessione
contemporaneamente storia, filosofia, psicologia e informatica...
Well, la questione diventa alquanto intricata. L'ho risolta
pescando dalla libreria di casa testi di architettura – ch'è
l'argomento più astruso dai campi che di solito frequento.
L'arredamento, la costruzione di condomini, nuclei abitativi e
topologia: argomenti che suonavano completamente sconosciuti ai miei
occhi e pertanto ottimi per distogliere la mente dall'esame, senza
precipitarla in qualcosa che mi appassioni.
In questo caso poco c'è mancato che
accantonassi davvero lo studio, perché i libri che avevo scelto
erano d'architettura giapponese, e particolare ancor più delizioso
incorporavano una gigantesca quantità di aneddoti e fotografie di
vita quotidiana, che con l'architettura avevano poco a che fare.
Il mio fido pard all'università, come si
riferisce Tex Willer a Kit Karson, accarezza da anni di viaggiare in
Giappone al termine della laurea e siamo entrambi d'accordo che
sarebbe nelle nostre avventurose intenzioni un viaggio radicalmente
diverso dalla moda attuale, che sceglie solo Tokyo e trasforma il
viaggio in un itinerario di shopping in cui il turista svolge il
ruolo passivo di consumatore/accumulatore, che vede nel Giappone una
landa incantata, da cui trarre inesausto bottino di cui godere cogli
amici al sospirato rientro nello scarpone terracqueo. Un idrante di
piccoli consumatori affamati di beni di lusso innaffia così Tokyo,
riversandosi a far compere nell'unico quartiere che sembrano
conoscere, cioè Akihabara. Ognuno sceglie il viaggio che vuole, ma
dopo il turismo sessuale e le comitive organizzate, il
turismo-shopping è la terza categoria più deprimente della
classifica.
Non riesco nemmeno a trovare la copertina in italiano su Google! |
Il testo in questione era “Lo stile
giapponese, di Suzanne Slesin, Stafford Cliff & Daniel
Rozensztroch”.
Riporto la sinossi sul retro del volume:
“In quasi 800 straordinarie fotografie a colori, la bellezza e lo spirito del Giappone moderno: accanto alle vecchie fattorie col tetto di paglia, alle tranquille case di campagna e ai giardini nei pressi di Kyoto, le moderne, sorprendenti abitazioni di Tokyo.”
Testo di lusso, dalla copertina spessa
e rigida, protetta da una sovraccoperta plastificata.
Le pagine sono ampie, spaziose e adatte
ad accogliere le foto a grandezza pagina intera.
Dopo un'introduzione comprendente
diversi saggi di architettura e dopo aver illustrato le difficoltà
dell'impresa legate alla differenza culturale, l'opera in pratica è
un catalogo di fotografie, che compara la vecchia architettura
giapponese tradizionale alle sperimentazioni e contaminazioni
odierne, specie se legate all'uso del cemento e dei nuovi materiali
dal 60' in poi.
La prima osservazione che sovviene è
quanto sia progredita la qualità dell'immagine negli anni.
Il testo è del 1988, dunque di soli
trent'anni fa: eppure quanta differenza in colori e definizione!
Le immagini sono spesso sgranate,
imprecise. Se vengono fotografati esseri umani, questi appaiono nella
grandezza della pagina sbiaditi, dai contorni della faccia sfumati.
Occhi, naso e bocca si distinguono, ma l'ovale del volto sembra
deperire per mancanza di dettagli. Migliora se si rimpicciolisce
l'immagine e ci si pone ad una distanza ragionevole, oltre i consueti
trenta centimetri. Allora, come in certi quadri delle avanguardie del
primo Novecento, la foto migliora.
Va meglio con le nature morte e gli
arredamenti senza abitanti; la freddezza della solitudine rafforza la
qualità dell'immagine. E occorre comunque ricordarsi che stiamo
trattando un testo di lusso, destinato esplicitamente a fare
dell'elemento visivo il nucleo della lettura!
A fronte di una così
veloce decadenza dell'immagine, mi chiedo quale sarà il futuro della
foto.
Man mano che si muove a migliorare l'immagine, questa acquista
sempre maggiore nettezza e definizione. L'occhio palpita sempre più
veloce, è portato mai quanto prima a passare da immagine in immagine
in pochi secondi, pretendendo al contempo la massima qualità
possibile.
E' sempre un “più”. Più pixel, più dettaglio, più
reale. Ma socchiudendo gli occhi di fronte all'ultima grafica
dell'ultimo videogioco mi viene spesso da chiedere quale sia più
ricco di definizione, nettezza, dettagli; se il mondo sullo schermo o
quello fuori. E' un inganno potente, questo della foto, di voler
imitare a tutti i costi la realtà che la circonda. Tra un decennio,
i Blu-ray sembreranno video in bianco e nero degli anni Venti, per
dare un'idea dell'evoluzione nella qualità. Un pensiero piuttosto
inquietante...
La seconda osservazione riguarda il
tipo di società che di tanto in tanto trapela da questo implacabile
studio di appartamenti e oggetti. Una società ch'era quella degli
anni Ottanta, in vertiginosa crescita per una bolla speculativa che
nessuno si aspettava scoppiasse, dunque imperniata su un benessere
che gocciola dalle foto, che sebbene prese per strada non mostrano
l'accattonaggio e i barboni a cui siamo ormai abituati.
Una società
costretta inoltre a passare attraverso la formina della cultura
americana, sagomata a colpi di accetta. Dal sequestro e distruzione
delle oltre 5 milioni di spade nel 1946 (unito al divieto di
fabbricarne altre!) alla continua esasperata americanizzazione di
ogni settore culturale. Nonostante ciò, uno dei saggisti del testo
lamenta l'attaccamento alle tradizioni ancora molto vivo. E' curioso
che nell'altro documento sul Giappone in mio possesso, una guida
turistica del 1974, venga rimarcata un'uguale critica; si loda
l'economia in decollo, ma non si comprende ancora questo “fanatico
attaccamento”.
D'altronde, dagli anni di Fukuyama e
dal termine della storia col suo pinnacolo negli Stati Uniti (sic)
non ci si può aspettare nulla di diverso. Semplicemente non si
comprende che qualcuno vorrebbe avere gusti e interessi diversi, da
quelli atlantico-occidentali.
Terza osservazione, pur con le
rimostranze prima espresse, alcune testimonianze scritte degli
americani in visita sono notevoli, per capacità di carpe diem
e sublime architettonico.
Ne riporto forse la più incisiva, per
chiudere in bellezza l'articolo:
Abituato com'ero alle stanze piene di mobili, sia in Occidente sia nel decadente splendore delle vecchie dimore di Pechino dove avevo vissuto i precedenti quattro anni, questa stanza mi apparve come qualcosa di totalmente diverso. Sapevo, naturalmente, dalle fotografie come era una stanza giapponese. Ciò che non avevo recepito nelle fotografie era la perfezione dei particolari, la levigatezza del legno lavorato, lo splendore dello sbalzo laccato del tokonoma, o il sottile gioco delle venature del legno nelle assicelle del soffitto.
Fu allora che guardai l'angolo vicino al tokonoma, il punto in cui il pavimento e due muri si incontravano. Mille volte mi era capitato nella mia vita di osservare degli angoli, senza trovarci alcunché d'interessante, giustamente, e non ero quindi preparato allo shock che mi produceva in quel momento la perfezione di quello che stavo vedendo.
Mi alzai per guardare più da vicino e rimasi lì stupefatto a fissare. Era la congiunzione essenziale di tre piani ad angolo retto l'uno con l'altro, il piano del pavimento di legno pulito a specchio, e le due pareti di argilla ben levigata e dipinta in un marrone tendente al verde (anni dopo avrei scoperto che in Giappone le pareti più belle venivano ottenute con il limo che si trova sul fondo delle risaie coltivate da molto tempo). Quell'angolo, fatto alla perfezione, era anche perfettamente pulito.
Nel punto in cui i tre piani si intersecavano, non una particella di qualsiasi cosa, neppure di polvere, guastava la precisione a filo di coltello del lavoro di falegnameria.
Quel semplice angolo, per leggi naturali né più grande né più piccolo né geometricamente diverso in alcun modo da qualsiasi angolo del mondo, mi aveva mostrato tuttavia che esisteva in Giappone, malgrado la guerra e la sconfitta, una viva tradizione della qualità che non aveva pari sulla Terra.
In quel momento ebbi la certezza che un giorno sarei ritornato.
(David Kidd, emerito direttore della Scuola d'Arte Giapponese Tradizionale di Oomoto, collezionista, scrittore, educatore).
7 commenti:
Chissà cosa acquista il samurai :)
Me lo chiedo anch'io... Si accettano ipotesi ^^
Se t'interessa, l'immagine è di un articolo del National Geographic di qualche anno fa (Samurai, l'ombra del guerriero, dicembre 2003).
Una katana di Hello Kitty :P
Non può essere! Qualcosa di così poco virile! :P
Qui ci vuole la fangirl che linka questa cosa e dice "chi ha detto che Hello Kitty non è virile?"
[img]http://24.media.tumblr.com/2666803335534ac1d1a3ec33b0d8bdf9/tumblr_n5bjktDLAQ1rxd2h4o1_500.jpg[/img]
Comunque, a parte lo "sbav :Q___" di rito per l'architettura asiatica, è proprio una gran bella cosa che l'ansia di imitare gli occidentali non sia più così parossistica, per quanto le contaminazioni già avvenute continuino a fare danni (nei canoni estetici come nella percezione che il popolo ha della propria storia). Rimangono però i giappoyankee biondi che per colazione mangiano riso e bacon. :D
Quel Capt. America... Arghhh XD
I Giapponyankee sono un grave problema (si scherza, eh!) però il fatto che tutte le vacanze in Giappone di cui legga avvengano a Edo (emh, cioè Tokyo, scusate u.u) impedisce di sentire qual'è la reale atmosfera generale, di sentire il "polso" del paese.
Viaggio in Giappone *-*
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