Avevo già incontrato
l'ottimo Samuel Marolla leggendo Imago Mortis, che un paio di
mesi fa mi colpì per la vividezza rara di descrizioni e personaggi;
la prosa sembrava posseduta da un demone inarrestabile, che sebbene a
volte dimenticasse per strada virgole e punti, trascinava il lettore
in una storia decisamente senza pause. Il protagonista sniffatore
simpatizzava subito col lettore e più che l'elemento fantastico
spaventava la giungla urbana in via di totale, inarrestabile
disfacimento fisico e morale.
Luna Coyote salta invece
al Weird Western, posizionandosi saldamente nell'Ottocento della grande
frontiera. Conoscerete, che siate appassionati o meno (io non lo
sono), l'intero repertorio del Far West: cowboys e indiani, ranger e
messicani. Le ferrovie coi cinesi, i saloon con procaci fanciulle
puttane, l'epica delle colt sotto il sole di mezzogiorno e degli
sceriffi col cappio pronto alla mano.
Scriveva Manfredi in un romanzo
(bruttino, come tutti i suoi) che gli italiani conoscono meglio
l'America di Tex Willer che la propria patria. E' senza dubbio vero,
sebbene non riesca a vederci nulla di negativo in quest'amore per la
natura e il coraggio intrepido.
Tuttavia... Prendete tutti
questi cliché e topos e nel caso di Luna Coyote gettateli via.
Non
c'è nessuno di questi stereotipi nell'opera di Marolla, che sembra
invece privilegiare il punto di vista di quanti normalmente nascosti
e oppressi: nel primo paragrafo il pov è quello dell'antagonista che
è un razzista violento, qual'erano molti più cowboys di quanto i
film lascino ammettere.
Nel secondo caso, il pov è di un negro
fattorino – un personaggio a dir poco inconsueto, se non come
spalla comica del protagonista.
Oltre ai bordelli vi erano i magazzini dei cinesi.
Quelli se ne stavano fuori, su panche di legno, con le loro tuniche nere, i cappelli di paglia a forma di piatto rovesciato, e lunghi bastoni sui quali si appoggiavano, e con i quali probabilmente si rompevano le ossa a vicenda quando avevano da ridire fra loro. Attendevano i clienti, cioè i bianchi sui carri, che venivano a contrattare la loro merce, a comprarla all'ingrosso, a buoni prezzi, e portarla a tonnellate su a Los Angeles; alcuni compratori venivano addirittura da San Francisco. I cinesi erano i padroni di tutto: i sigari sopratutto erano la loro specialità, ma non solo; anche calzature, pannilani, conserve di frutta. E se volevi costruire qualcosa, su al nord, dovevi rivolgerti a loro.
L'edilizia era esclusivo appannaggio dei figli del drago, e dovevi venire qui, nelle loro comunità costiere, a parlare coi loro pezzi da novanta, i loro anziani, per mettere su una squadra. Quelle vecchie mummie rinsecchite ti trovavano cento manovali esperti in un'ora, te li spedivano a calci su fino a Sacramento, se avevi urgenza, li facevano lavorare giorno e notte finché non gli usciva il sangue dal culo, e il padiglione era bello che pronto. Le scuole, gli ospedali, i tribunali, persino le missioni cattoliche: le costruivano i cinesi, e se volevi trattare con loro, da questa parte della California, beh, dovevi venire qui, o a Monterey, o sulla Punta dei Pini.
A ciò Marolla aggiunge
una dose di soprannaturale decisamente superiore alla media; in
effetti è un western in cui la Magia spunta fuori in continuazione.
Non si può parlare dell'irrompere della “magia”; il western di
Marolla straripa a tal punto di mitologie, maghi messicani e indiani,
coyote licantropi e mummie parlanti che si può parlare più di
fantasy western che opera storica.
Blackfull rantolava dietro di me e, in un paio di occasioni, credetti di sentirlo bisbigliare in una lingua che non avevo mai udito prima, diversa certamente dalle lingue dei cristiani ma anche da quelle indiane; infine, oltre un arco naturale di roccia incastonato nella montagna, si distese di fronte a noi una piana di terra battuta, bruna, scoscesa, alla cui estrema propaggine meridionale era infilato un cartello sbilenco:
miniere d'argento di Silverado
su cui qualcuno, in vernice rossa, aveva scritto successivamente:
argento finito, l'orrore attende nelle miniere
L'atmosfera mi ricorda vagamente il gioco da tavolo Shadows of Brimstone. Scorrete gli artwork, per farvi un'idea. |
Cormac La Bauve è un uomo
maledetto: il suo cavallo è in realtà una creatura infernale che lo
segue ovunque vada, accompagnandolo giorno dopo giorno all'Inferno
cui è stato destinato. La Bauve, stupratore, sadico e bandito se l'è
ovviamente andata a cercare, ma questo non lo scoraggia dal chiedere
aiuto alla semi-mitica figura di Dirk Blackfull, un pistolero con le
mani troppo a lunghe immerse nella magia indiana per essere
completamente “umano”. I tre personaggi; il cavallo-demone, un
cannibale dalla forza sovrumana, il maledetto e traditore La Bauve e
il tatuato Blackfull saranno perciò destinati a scontrarsi tra mille
scintille...
Come sempre, nulla è
perfetto.
In particolare, al di là
della brevità della storia, i dialoghi pur spassosissimi sembrano a
tratti un po' forzati. L'idea, credo, sia stata di riprodurre il
flusso di parolacce e la ritmica esagerata di una dime novel e
il risultato prende pieghe grottesche.
Si veda quest'esempio:
LaBauve si voltò verso il mucchio, li squadrò uno per uno, poi scostò il poncho rivelando le due Smith e Wesson infilate incrociate dietro il cinturone. – Se volete provare un nuovo alcolico, figli di troia, vi mando sottoterra a bere a gargarozzo la piscia che farò sulla vostra tomba. - disse, e rimase immobile a guardarli.
A bere a gargarozzo! Non è
bellissimo? Da quant'era che non sentivo espressioni del genere?
Secondo difetto, ancor più
soggettivo, è l'abuso di descrizioni naturalistiche.
Documentarsi è
obbligatorio, ma saccheggiare il dizionario di termini di botanica e
fauna americana lascia esausti. Pini, edera nera, “rosso cinabro
del quarzo”, azalee... C'è un intero catalogo.
Nell'insieme Luna Coyote
sembra prestarsi bene a una serie, cosa che spero si concretizzi in
realtà: gli spunti non mancano, tra Wendigo e influenze dal New
England.
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