Il Fantasy
Mediterraneo viene definito come un sotto genere fantastico dove le
mitologie e gli ambienti riprendono esplicitamente l'Europa
meridionale e i suoi popoli, dalla Spagna, alla Provenza, all'Italia,
fino ai Balcani e alla Grecia.
Solitamente il genere si propone come
esplicitamente italiano, con una predilezione per la Grecia classica
e l'Impero romano.
In alcune rare occasioni il genere si allarga a
considerare l'Africa settentrionale e il Medio Oriente, con evidenti
lasciti dalle Mille e una Notte.
Il riferimento esplicito a un luogo,
ovvero il Mediterraneo, rappresenta bene il paradosso di questo
genere: si tratta di un fantasy geograficamente vincolato a un
determinato luogo e pertanto a una determinata storia.
Il tono
generale rimane improntato all'heroic fantasy, ma l'aggettivo
“mediterraneo” necessariamente obbliga a un'ambientazione
storica. Il genere high fantasy specifica una determinata tipologia
di fantastico e allo stesso modo, all'esatto opposto, il low fantasy
sottolinea una tendenza opposta.
Si tratta di modi di scrivere un
fantasy, ma non ne predicano i contenuti. Il grimdark contiene già
alcune indicazioni di natura estetica, ma generalmente la violenza
insita nella sua definizione può essere applicata al contesto che si
preferisce, purché brutale e terra-terra.
Il cosiddetto Fantasy
Mediterraneo pertanto diventa spesso una forma di romanzo storico con
elementi fantasy, laddove invece ci si potrebbe aspettare un romanzo
fantasy con una base storica. Quando non si menziona una chiara
ambientazione storica o si tratta di un mondo alternativo al nostro,
i riferimenti rimangono evidenti: un impero dove i suoi abitanti
parlano latino, si riferiscono agli altri paesi come “barbari” e
hanno arene con giochi gladiatori difficilmente è fantasy. Si
tratta, in questo esempio, di un gioco di riferimenti tra scrittore e
lettore, dove il divertimento non deriva dalla scoperta di un mondo
nuovo, ma dal comprendere a quale personaggio o evento storico
corrisponda quell'invenzione, quel colpo di scena dell'autore.
Si tratta
ovviamente di giochi speculativi, che non tolgono o aggiungono nulla
al prodotto finale: non conta se un'opera è fantasy o bizarro
fiction o horror, conta se è scritta bene, con una trama
intelligente. Classificare in generi e sottogeneri solitamente
determina una tassonomia senza vita, similare a quei collezionisti
senz'anima che punzonano con lo spillo splendide farfalle nelle loro
tristi bacheche. In alternativa il recente rilancio del Fantasy
Mediterraneo con Heroic Fantasy e Hyperborea propone, per così dire,
un sottogenere dentro un altro: all'interno del fantasy, l'heroic
fantasy howardiano e all'interno di quest'ultimo, il Fantasy
Mediterraneo.
Tattica
ingegnosa, perchè impedisce ogni ambiguità storica.
Il Fantasy
Mediterraneo ha una storia interessante, nella misura in cui non ha
mai generato un'opera capostipite o una serie di romanzi facilmente
identificabili, né tantomeno è diventato popolare quale termine
acchiappa clic, come oggigiorno il weird o l'aggettivo
“lovecraftiano”.
Tuttora se
si vuole consigliare un romanzo del genere Fantasy Mediterraneo ci si
ritroverebbe in difficoltà e risulterebbe difficile, se non
impossibile, comprovare la popolarità dell'etichetta.
Mi viene in
mente solo il dimenticato Gianluigi Zuddas come autore classico di
questo sottogenere, sufficientemente conosciuto nei circoli
letterari: siamo però lontani dal genere di vendite e fama richieste
per potersi definire a tutti gli effetti un movimento o un genere
nuovo. Effettivamente è possibile trovare Zuddas nelle biblioteche e
una sua ricerca su Google svela un buon numero di risultati e
menzioni, a testimoniare una certa influenza tra i lettori. Quando
tuttavia Zuddas debuttò con le sue eroine Ombra e Fiamma nelle librerie italiane
ebbe un successo contenuto, nemmeno comparabile a spazzatura fantasy
come la saga di Licia Troisi. Sia chiaro, sono il primo ad apprezzare
Zuddas e a considerarlo un autore sottovalutato.
Se faccio un salto
in libreria – non fatelo, si può anche entrare camminando – e
chiedo qualcosa di “fantasy”, sapranno consigliarmi.
Se gli
chiedo qualcosa “alla George RR Martin” è ancora possibile
essere indirizzati a Joe Abercrombie, ad esempio. O a uno Young Adult
“oscuro&tenebroso”.
Tuttavia nemmeno un librario esperto,
ammesso che esistano ancora, saprebbe consigliarmi un Fantasy
Mediterraneo. Una corrente letteraria, per essere definita tale, deve
saper elettrizzare i lettori, deve avere una minima, sindacale,
popolarità. Gli autori spesso citati a proposito del Fantasy
Mediterraneo sono talmente misconosciuti da essere curiosità
letterarie: opere stampate tra gli anni '80 e '90, oggigiorno
dimenticate. All'opposto, non nego il valore degli scrittori
contemporanei di Fantasy Mediterraneo, ma non si può negare come
siano piccole case editrici dalla diffusione inevitabilmente
limitata. Chiaro, prima che qualcuno lo commenti, sì, è possibile
far rientrare classici della letteratura nel Fantasy Mediterraneo e
ascrivere a questa corrente opere mitologiche come l'Iliade e
l'Odissea. Tuttavia, mi sembra un'operazione disingenua: cambiare
l'etichetta di un'opera non muta la sua sostanza di base. Allo stesso
modo vi sono autori inglesi e americani che hanno scritto Fantasy
Mediterraneo senza saperlo, come Jack Williamson con L'impero
dell'oscuro, L. Sprague de Camp, Gene Wolfe, ecc ecc
Si tratta
ancora una volta di “giocare” con le tassonomie, nel bene e nel
male.
Volete un sistema di gioco per wargaming con miniature che mescoli l'antichità classica al Fantasy? Provate "Broken Legions" della Osprey Games. E' praticamente med-fantasy. |
Il Fantasy
Mediterraneo, se non esiste a livello di pubblico, è invece una
realtà affermata come oggetto di dibattito. In altre parole vorrei
postulare come il Fantasy Mediterraneo esista a livello di domanda,
di antitesi: alla presunta esistenza di un fantasy anglosassone, si è
sempre voluto contrapporre in Italia un fantasy solare, greco-romano,
in altre parole “mediterraneo”.
Se cercate definizioni del
med-fantasy o come diavolo lo volete chiamare, troverete discussioni
risalenti addirittura al 2007, 2008 sui blog e sui magazine online. E
vi ritroverete le stesse domande, le stesse discussioni qui presenti,
tese a contrapporre una mitologia percepita estranea a un proprio
background. Non ho sottomano i testi, liberi di contraddirmi, ma sono
sicuro che le antologie di Sword&Sorcery italiane degli anni '80
avevano identici dibattiti nelle prefazioni.
Si tratta di un genere
pertanto ben vivo a livello di domanda e/o provocazione; decisamente
meno a livello di contenuti concreti. A questo riguardo ci si
potrebbe domandare se il mondo dei giochi di ruolo e dei fumetti
possa offrire esempi di Fantasy Mediterraneo forse più calzanti
delle produzioni narrative nostrane. E' una domanda che lascio agli
esperti di quei mondi; a mio parere un'ambientazione come Katakumbas
risponde perfettamente agli imperativi del Fantasy Mediterraneo.
Heroic
Fantasy Italia, con il quale avevo collaborato qualche mese addietro
e Hyperborea, portale della narrativa Sword&Sorcery in Italia, si
stanno battendo ormai da diverso tempo per un rilancio del Fantasy
Mediterraneo. Per le ragioni appena espresse, mi sembra un'impresa
difficile, ma come si suol dire, tanti nemici, tanta gloria.
E'
un'operazione collocabile nel solco di altri sottogeneri italiani,
come l'ormai attivissima Ignoranza Eroica. In quest'ambito,
“Mediterranea” è la nuova antologia di Hyperborea e si propone
esattamente questo, ovvero di rilanciare il genere.
Dieci
racconti lanciati come dieci spartani verso le orde persiane del
Mainstream.
Sarà la
vittoria di Platea o l'eroico massacro delle Termopili?
Scopriamolo
insieme...
“Il ponte
della morte”, di Donato Altomare, è un buon racconto con il quale
esordire l'antologia: un heroic fantasy dove l'horror si mescola alla
mitologia, lontano dallo stile aulico e illeggibile di Eroica. In un
passato remoto (età del ferro?), una diga naturale impedisce al mare
di sommergere la pianura. Sulla diga passa un antico ponte – della
morte, appunto – e nelle sue vicinanze un villaggio di poveri
contadini viene minacciato prima da una banda di razziatori e in
seguito da un vero e proprio esercito, che sa esistere qualcosa nel
villaggio capace di mutare le sorti della storia.
Senza altre
alternative, i saggi alla guida del paesino invocano il soccorso
della Vieja Bruja, un demone nella forma di una strega, legata al
paese da un giuramento ancestrale.
Il problema
maggiore del racconto consiste nella genericità del setting,
indistinguibile da una qualsiasi ambientazione fantasy: al di fuori
dei nomi e di alcune descrizioni, sembra di essere o al tempo delle
invasioni barbariche o addirittura nel basso medioevo. Non c'è nulla
che ricordi la preistoria o il tono “biblico”, caratteristico di
una notte prima dei tempi, che dovrebbe trasmettere “Il ponte della
morte”. Va anche riconosciuto come il racconto si proponga di
rispondere a una domanda piuttosto specifica, ovvero l'origine del
Mare Nostrum e in tal senso, come ogni mito, sia volutamente
generico.
I dialoghi
sono legnosi, un po' rigidi, persino per un fantasy.
Insopportabile
il maiuscolo quando il personaggio urla o si desidera sottolineare un
evento drammatico:
«NON POSSIAMO LASCIARCI PORTAR VIA LE NOSTRE DONNE…»
«O IL NOSTRO CIBO…»
«NO… NOI DOBBIAMO COMBATTERE…»
«BASTA!»
Alonso mise fine a quella bagarre inutile.
«Qualcosa dobbiamo pur farla.»
E' difficile
usare lo stampatello nei racconti senza causare un effetto
involontariamente cartoonesco, proprio di un fumetto di paperi
parlanti. Pur limitando il maiuscolo a poche parole, persino Stephen
King fallisce nell'usarlo correttamente; si legga ad esempio alcune
scene di Shining.
Da segnalare
la descrizione del ponte, particolareggiata e suggestiva, nonostante
le divagazioni:
Davanti a loro il passaggio che tutti conoscevano come Il Ponte della Morte. Si diceva facesse paura al diavolo stesso che l’aveva creato. Era largo sei passi e lungo mille. E incuteva terrore. Alla loro sinistra il Grande Mare batteva furioso contro il fianco del camminamento che fungeva da diga a contenerlo, alla loro destra il baratro che faceva da preludio alla Grande Depressione, una enorme area sotto il livello delle altre terre intorno, deserta. Cadere a destra o a sinistra non avrebbe fatto differenza: morte certa in entrambi i casi.
Il gruppo di armati procedeva con estrema prudenza. Benché tutti lo chiamassero ponte, ponte non era affatto, ma una barriera di roccia livida e frammentata che separava il Grande Mare dalla conca desertica.
Si raccontava che una volta lì non c’era nessun attraversamento e c’era a sinistra il Grande Mare a destra il Mare Interno. Poi c’era stata una gigantesca frana, mezza montagna era venuta giù e aveva creato quello sbarramento. Il Grande Mare non se ne era neanche accorto, ma il Mare Interno pian piano era evaporato e, nell’arco di millenni, scomparso, lasciando una depressione di polvere e sale nella quale nessun tipo di vita poteva sopravvivere. Ai bordi superiori della valle la vegetazione era rigogliosa e la popolazione lì insediata viveva una vita abbastanza normale.
“Ubi
solitudinem faciunt, pacem appellant”, inveiva Calgaco
nell'Agricola di Tacito e la citazione mi è sembrata appropriata per
introdurre il racconto di Andrea Berneschi, “Il figlio di
Asterione”, dove la protagonista, Similce, è una donna cartaginese
in fuga dall'oppressore romano, in seguito alla caduta di Cartagine.
Con altri tre compagni, Similce fugge a Creta, scoprendo un'isola
fantastica e maledetta, dove avrà la possibilità di stringere un
patto che un cristiano definirebbe “demoniaco”.
Scritto con
proprietà di linguaggio, è un racconto piacevole, anche se la
giovane protagonista non sembra avere molto carattere, al più una
bella apparenza. Il rovesciamento delle parti, con i romani
all'orizzonte e i cartaginesi in fuga, permette uno scenario di
notevole suggestione, arricchito dalle atmosfere soffuse e sognanti
dell'isola di Creta.
Il passaggio
dove Similce ricorda la città di Cartagine ha un che' delle
descrizioni oniriche lovecraftiane, non a caso comprendendo il tempio
di un certo “Dagon”...
Lo stile di
scrittura incespica sull'uso orrendo delle parentesi, senza alcuna
motivazione, inserite per di più dentro una scena d'azione. Segnalo
in questo contesto la comparsa di un automa, presenza sicuramente
gradita per gli appassionati di sandal-punk:
A un tratto, come in un sogno, lo videro. Chi era, quel mostro di fuoco in forma umana? Nella destra impugnava un’ascia bipenne dal lungo manico, incandescente come il resto del suo corpo; nella sinistra stringeva il collo di un uomo morente, che a contatto col suo calore (non c’erano altre parole per dirlo), si stava cuocendo. Fiamme spuntavano isolate dai cespugli accanto alla creatura, altre divampavano dal corpo della vittima; un orrendo puzzo di carne bruciata colpì le narici degli astanti. Chi era quello sventurato? Facile riconoscerlo da ciò che rimaneva dei suoi vestiti: si trattava di Archalos. I suoi uomini sembravano conoscere il mostro; gli rivolgevano suppliche.
Il finale
contiene un interessante (e crudele) colpo di scena, ma se
confrontato con il resto della storia appare piuttosto affrettato,
posticcio.
Un racconto
divertente, comunque, con una certa cattiveria.
La
possibilità di applicare una mod a un videogioco, ovvero la modifica
di un appassionato, dal semplice cambio di colore a radicali
cambiamenti nel gameplay, può stravolgere totalmente un'esperienza
di gioco. Solitamente però ci si limita a cambiare i vestiti e le
apparenze esteriori, conservando sotto il cofano dell'auto
videoludica il motore di gioco.
Francesco
Brandoli, nell'opera “Una ballata di fuoco e mare”, stravolge
totalmente l'impianto di base di una vicenda storica realmente
accaduta, aggiungendovi nuovi elementi e limitandosi invece per
quanto riguarda le forze in campo, a cambiare nomi e definizioni. In
altre parole “modda” la storia: gli elementi sono sempre gli
stessi, ma ci si è limitati a sovrapporre nomi e descrizioni
diverse... Nulla da obiettare: Harry Turtledove, dall'alto delle sue
interminabili serie di storia alternativa, è un esempio lampante di
questa tecnica di scrittura.
Quindi,
riepilogando: nel 1173 l'Imperatore Honstall, detto Barba d'Oro
(Barbarossa) assedia la coraggiosa Repubblica di Ankon (Ancona)
alleato con Venias (Venezia). Le forze sono immense, l'assedio
brutale: gli abitati di Ankon sembrano condannati, fino a quando...
Il racconto
di Brandoli si differenzia dall'essere una semplice copia degli
eventi storici introducendo diversi elementi horrorifico-fantastici,
legati all'alleanza di Barba d'Oro con un druido nordico, a tutti gli
effetti un negromante che ricorda un mostruoso spaventapasseri, un
“burattinaio”.
Il druido è
un esperto nella “coltivazione dei cadaveri” e agli ordini
dell'Imperatore comanda un'orda di non-morti obbedienti e sotto il
suo stretto controllo. Non sono zombie: non mangiano cervelli, non
mordono, non vagano a caso, ma sono pupazzi di carne umana sotto il
completo dominio del negromante. La Repubblica è inoltre stretta
nell'assedio di una cupola artificiale, composta di una sostanza
limacciosa, simile a un gigantesco blob: è una medusa astrale,
un'entità lovecraftiana che aleggia sui tetti di Ankon, afferrando
di tanto in tanto uno “spuntino” con i tentacoli
ectoplasmatici...
Occasionalmente, alcuni sfilacci, simili a tentacoli, erano calati dalla membrana subombrellare, cercando a tentoni nutrimento. Un giovane aveva visto la sorella essere sollevata da terra e trascinata in aria, dentro una voragine apertasi nel cielo. Una bocca famelica – con una ridda di denti sottilissimi, a cerchio, simili a uno sfiatatoio seghettato – aveva inghiottito la ragazza, ancora urlante. Ne era seguito uno stillicidio più intenso, che aveva persino danneggiato parte delle scarse provviste rimaste.
Il resoconto
dell'assedio è ricco di trovate, dalle mani non-morte, agli scontri
con gli zombie.
E' inoltre una boccata d'aria fresca leggere un
racconto ambientato nel Medioevo comunale e non nell'ennesima
riproposizione fantasy dell'Impero romano.
Alcune note
di passaggio; Stamira, la giovane anconese protagonista, non ha
alcuna motivazione per combattere, al di fuori dell'amor di patria e
una certa tendenza al martirio; non ha poi alcun senso sfruttare
un'ambientazione pseudo fantasy per evitare di “annoiare” con la
storia salvo poi perdersi in divagazioni storico-geografiche; alcuni
tecnicismi di passaggio sono fastidiosi, tra tutti “endoderma
subombrellare”.
“Shardana”,
di Riccardo Brunelli, è un racconto breve, ma incisivo.
La Sardegna,
abitata dagli Shardana, i Popoli del Mare, viene invasa dalle orde
sanguinarie e tecnologicamente avanzate dei cartaginesi. Il
protagonista, Dannu, è un sardo che combatte con quanto rimane della
sua gente un'impossibile lotta di guerriglia contro l'invasore. La
cultura dell'isola mi ha ricordato i celti di Slaine (2000 AD), così
come l'azione sanguigna e violentissima. I cartaginesi sono i
“cattivi” della situazione, ma nemmeno gli Shardana sono un
popolo pacifico.
Brunelli
conferisce una sfumatura assiro-babilonese ai cartaginesi, descritti
come un popolo sanguinario e decadente:
Era certamente un guerriero esperto e sicuro di sé, essendo solo in terra nemica. Il sole rimbalzava sull’armatura lucente, lunga fino ai piedi. La barba nera come la notte sbucava da sotto un imponente elmo appuntito e prezioso. Ai lati del carro erano sistemati due scudi ovali, con borchie di metallo. Lance e frecce riempivano le faretre, sistemate accanto al guerriero.
Mentre Dannu
è armato con elmo di bronzo, scudo e lancia come un oplita greco, il
carrista cartaginese ha la barba orientale e le sue genti, oltre ad
adorare demoniaci idoli, compiono sacrifici umani. Il racconto
contiene in assoluto le migliori scene di combattimento
dell'antologia: una mescolanza di sangue, sudore, violenza convulsa,
trasmesse dalla telecamera sbattuta di Dannu.
“Il
banchetto”, di Lorenzo Camerini e Andrea Gualchierotti, ci riporta
nell'alto medioevo delle invasioni barbariche, tra vandali, goti e
l'Impero Romano d'Oriente. Un setting “barbaro”, nel senso
filologico della parola, dove il protagonista Basilio si destreggia
tra il richiamo degli dei pagani e la nuova fede cristiana. La
datazione temporale non è immediatamente chiara, di conseguenza si
rimane indecisi sulla collocazione storica fino a quando la
terminologia latina e i riferimenti a Costantinopoli chiariscono al
lettore dove si trova.
Il capitano
Basilio accetta di trasportare sul suo dromone il comes
Callisto e la sua bellissima figlia, Eliana: tuttavia a metà del
viaggio un'incursione dei vandali obbliga il capitano a cercare la
fuga in una tempesta, che schianta il suo equipaggio sulle spiagge
della Sicilia. Alla ricerca di un riparo, Basilio e il suo secondo,
Venanzio, vengono accolti in una misteriosa e decadente Villa romana,
dove nulla è ciò che sembra...
Il racconto
dimostra una cura maniacale nella ricostruzione storica, con speciale
riferimento al lessico; i termini, almeno per quanto mi è sembrato,
sono accurati e precisi, così come l'azione e lo svolgimento della
storia. La Villa riveste a tutti gli effetti il ruolo del castello
gotico o della casa infestata nell'horror tradizionale; è un luogo
di magie, una trappola infernale che metterà a dura prova il
coraggioso Basilio. Se i mostri rientrano nella mitologia
tradizionale, la natura “ingannevole” della Villa, che strega i
suoi occupanti, è resa bene.
Basilio smise per un momento di lavarsi, turbato da quelle parole che avevano risvegliato un istinto sopito. Per un momento la sua vista vacillò e invece delle pareti intonacate e affrescate con eleganti rappresentazioni floreali, vide delle vecchie mura diroccate e cadenti, e sentì nelle narici il fetore della muffa e del vecchiume. Ma poi udì le voci dei due marinai scherzare, e quella macabra visione scomparve improvvisamente come era iniziata.
“Più
tenace della morte”, di Enzo Conti, propone un'ardita rilettura del
mito di Alcesti e Admeto, dove la storia viene narrata dalla
prospettiva femminile della Morte e dall'altro dei giovani
protagonisti. Antagonista, una Lamia effettivamente disgustosa e
pressoché invincibile.
Rispetto
alle storie precedenti, qui siamo in un campo più afferente al
fantasy puro, se non proprio mitologico, che all'heroic fantasy
sporco e terra-terra. Se vi compaiono scene di sesso e violenza,
argomenti e stile appaiono decisamente classici.
Tutto
sommato il racconto funziona bene, anche se appare rallentato tanto
nell'incipit, quanto nei paragrafi dove il punto di vista appartiene
alla morte, verbosi e logorroici.
Carina la
gara degli indovinelli.
Alessandro
Forlani, un veterano da lungo tempo presente su Cronache Bizantine,
propone il “Culto degli Abissi”, arguto spin off delle
avventure principali di Arabrab di Anubi. La Assassin's Creed
egiziana appare stavolta impegnata in una missione di ricerca,
dovendo ritrovare la Lacrima di Geb, magico artefatto rubato dai
Preti Pesce e custodito nell'isola di Poseidonia.
La
ricostruzione storica, molto più heroic fantasy che documentario televisivo, mescola mitologie e realtà, lessico esotico e azione
diretta: nella sua avventura Arabrab viene affiancata dal greco
guascone Filottete da Micono, più ladro che guerriero e ancora una
volta, ha modo di riflettere sulla sua natura di giovinetta in realtà
immortale. Riferimenti cinematografici alla Torre dell'Elefante e al
Conan di Milius si mescolano indissolubilmente con la bellezza delle
descrizioni, dove la vivacità del luogo si contrappone
all'interiorità funerea di Arabrab, a tutti gli effetti “mummia”
di un altro secolo, eroina sacrificatasi interamente ad Anubi.
Nubiani italici fenici greci babilonesi nordici iberici; vasi di spezie, giare per l’olio, gli otri di vino e le stoffe e l’oro. Tuareg seduti a fumare pipe nell’ombre torride e irrespirabili delle tende; i muggiti, il blaterare e gli starnazzi del bestiame. Sfingi, stele, propilei e obelischi scintillavano accecanti contro il ceruleo del cielo limpido, ai raggi e la canicola del sole meridiano. Un alito delicato, salmastro da settentrione, soffiò nei vicoli e le piazze vaste a accarezzarle la pelle nuda.
Le
descrizioni e il lessico elaborato cedono poi il passo a un'azione
scatenata, che non risparmia respiro nelle scene di combattimento,
dove Arabrab non indietreggia da nessuna esagerazione, non importa
quanto action o pulp. Si potrebbe rinominare il racconto come
“Arabrab Vs Cthulhu”... Ma se per voi questo è un difetto, siete
cattivi cultisti persone.
“La spada
di Aeskylos”, di Alberto Henriet, è un notevole passo in avanti
rispetto all'illeggibile “Mai Scommettere la Testa con Vlad”, dell'antologia di Dracula.
L'eroe greco, Aeskylos, dopo aver vinto la battaglia di Maratona,
viene trasportato da un'invisibile energia nel Mare Egeo e sottoposto
a un'infinita serie di prove per il divertimento del pantheon pagano.
Come si può
giudicare un racconto di questo genere?
Le
descrizioni sono affascinanti e ricche di dettaglio, ma non si svolge
una storia autentica, piuttosto un'infinita collezione di scene senza
un reale collante narrativo. Aeskylos non affronta un nemico reale,
non compie alcuna fatica nello sconfiggere i suoi nemici, grazie
all'aiuto di un onnipresente (e letterale!) deus ex machina. Non
sembra di leggere una storia o un racconto compiuto, quanto piuttosto
un'avventura onirica spaventosamente sfilacciata.
Intorno alla villa, si muovevano due scorpioni giganti in metallo, animati dalla magia nera dello stregone: erano le guardie del Laboratorio Ermetico di Nekros. La gemma di Poseidone cominciò ad emettere un tenue bagliore cangiante, che sembrava pulsare ritmicamente, ora attenuandosi, ora intensificandosi.
Il dilemma
nel giudicare un racconto di questo genere, se davvero racconto si
può definire, sta nella sua natura evidentemente esoterica:
chiaramente, se si hanno estese conoscenze nel campo dell'alchimia, i
riferimenti e le simbologie di Henriet risulteranno ovvi e arguti.
Tuttavia, non avendo interesse nell'occultismo se non come curiosità,
devo giudicare la storia come, emh, “storia”.
E qui il giudizio
non può che essere negativo.
Mauro Longo
recupera con “L'artiglio della fenice nera” il personaggio di
Sheban Due Piastre, ladruncolo e simpatico ceffo già presente in
altre sue opere. Il racconto soffre di un'eccessiva lunghezza, ma
rimane l'unica storia a proporre finalmente un fantasy medio
orientale, tra le sabbie di un Egitto heroic fantasy, piacevolmente
reminiscente del meglio di Conan.
Sheban e il
suo compare, Zanklios, sono inseguiti dal dio Moloch, che ha giurato
di eliminarli per la profanazione del suo tempio a Tarsis.
Perseguitati dalla sfortuna e con una profezia da adempiere, la
coppia incontra dapprima l'antipatia e in seguito il soccorso
dell'affascinante principessa Kellah dell'Antilope. E' un'ammissione
che faccio con riluttanza, ma bisogna ammettere come Longo riesca a
mettere assieme elementi fantasy tradizionali, melensi – la
principessa, la profezia, il prescelto, il “cattivo” accolito –
e li trasformi in qualcosa di fresco... persino per le aride sabbie
dell'ambientazione. Il combattimento finale scade nel cliché e
qualcosa dei dialoghi andava tagliato, ma nell'insieme è tra le
storie migliori della raccolta.
“Gli occhi
di Angizia”, di Adriano Monti Buzzetti Colella, conclude
l'antologia tornando nel cuore dell'Impero romano, con protagonisti
un gruppo di legionari alle prese con una minaccia demoniaca,
un orrore partorito dallo spirito di ribellione della popolazione
locale, gli italici Marsi.
Mentre altri
racconti dell'antologia difficilmente seguono una storia con i suoi
crismi, ovvero con un incipit, uno svolgimento e una conclusione,
“Gli occhi di Angizia” sembra quasi un modulo per un'avventura di
ruolo, con un'investigazione all'inizio, la comparsa di un
comprimario dagli speciali poteri, un disperato combattimento e
infine lo scontro con il “boss” finale.
Purtroppo si
deve rilevare alcuni passaggi, specie nelle descrizioni, piuttosto
contorti, a partire dal primo paragrafo, con “Greve ed impassibile
come una macina da mulino, la stagione del gelo appenninico opprimeva
la terra con la sua dispotica legge di pietra e di ghiaccio.” Si è
già sottolineato la pesantezza della stagione con il paragone della
macina, non occorre accanirsi con l'ampollosa espressione “dispotica
legge”.
Nonostante
il nemico sia soprannaturale, i romani si ritrovano in una terra
conquistata, dove i nativi non collaborano, se non sono attivamente
ostili: il racconto pertanto ricorda una sorta di Vietnam fantasy,
con un collaboratore “amico”, un pugno di legionari/marines e un
ambiente ostile.
6 commenti:
Grazie per la recensione, ma poi perchè questa "riluttanza???" :D
Secondo me il Fantasy Mediterraneo è una questione di atmosfere, paesaggi, leggende e miti di riferimento, e non necessita di essere "più storico" del fantasy normale, né tantomeno per forza historic fantasy.
@Mauro Longo
Benvenuto sul blog!
Come ti avevo risposto su Facebook, c'è un certo rischio di trashaggine quando si gioca con elementi classici quali la fanciulla da salvare, il coraggioso ladro e il malvagio accolito delle tenebre. In questo caso, però, tutto fila, anche se avrei accorciato il periodo dedicato al "servaggio" presso la principessa Kellah (opinione personale, eh)
Il Fantasy Mediterraneo è legato a determinati paesaggi e atmosfere, ma questi a loro volta sono radicati nella geografia e nella storia europea.
Va bene, d'accordo, si tratta di "deserti"; ma questi sono deserti nord africani o medio orientali, con tuareg, beduini, piramidi, ecc ecc
Oppure, se si tratta di templi e obelischi, sono costruzioni che chiaramente, anche quando l'ambientazione non è europea, si rifanno ad Atene, Roma, all'Antico Egitto... a cominciare dal nome, non sarebbe Fantasy Mediterraneo se non citasse il Mare Nostrum. Quindi in tal senso è molto "historic fantasy", anche se ovviamente sarebbe necessario discutere cos'è mitologia e cos'è storia antica, ma non è il mio campo, quindi taccio :-D
"A questo riguardo ci si potrebbe domandare se il mondo dei giochi di ruolo e dei fumetti possa offrire esempi di Fantasy Mediterraneo forse più calzanti delle produzioni narrative nostrane. E' una domanda che lascio agli esperti di quei mondi."
Come non citare Lex Arcana, rilanciato, tra l'altro da una recente campagna KS?
E Mediterrano, gioco di ruolo mini della QualityGames che magari si trova anche in giro e che abbiamo giocato quando eravamo così piccoli da non conoscere il significato della parola "peplo". =)
D'
@Giuseppe Franco
Ottimi consigli, avevo sentito parlare di Lex Arcana, ma non di Mediterraneo.
Dici che potrebbe rientrare nel genere anche il vecchio gioco di ruolo "Ars Magica"? Se ricordo bene l'ambientazione è un Medioevo "mitico" e lontano dal fantasy "tradizionale"...
I due giochi di ruolo che ho citato sono entrambi realizzati da autori italiani, contrariamente a Lex Arcana.
Diciamo che mi sono mantenuto sul nazional-popolare.
Ars Magica fu anche tradotto in italiano da I Giochi dei Grandi e Das, se non sbaglio e aveva un'ambientazione più mittleuropea.
Comunque mai giocato.
=)
D'
Errata. Ovviamente nel primo paragrafo intendevo Ars Magica e non Lex Arcana.
D'
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