La necessità di
costruire un'ambientazione credibile, o in alcuni casi, di modificarne una già esistente per adattarla alle necessità di un plot, rende il fantasy un genere che molto più di tanti altri si
accompagna bene agli studi storici. Non a caso molti scrittori
fantasy sono o si improvvisano storici e accanto a una lunga
tradizione americana di insegnanti di letteratura inglese che sono
anche scrittori – nel caso di Stephen King sia come autori che come
protagonisti nelle storie – abbiamo tanti scrittori fantasy che
sono anche esperti di storia. Oltre all'esempio eclatante di Harry
Turtledove, anche il padre (padrone per alcuni) J. R. R. Tolkien era
un abile filologo i cui popoli non sono che una trasposizione fedele
delle saghe norrene. Mi riferisco ovviamente a Rohan, a tutti gli
effetti un tranquillo plagio, come osserva Tom Shippey.
Sarebbe però tanto più
interessante osservare come la storia stessa degli autori li
influenzi e come le loro opere non siano che un riflesso del periodo
storico che vivono ( o credono di vivere).
Mi spiego: è evidente
infatti che Il Signore degli Anelli, come hanno definitivamente
dimostrato gli studi anglosassoni, è un'opera fantasy squisitamente
vittoriana, nonostante venga scritta negli anni '40: l'etica,
l'ideologia e i comportamenti afferiscono a un secolo precedente.
Mentre qui ancora ci si scanna su questioni superate da
cinquant'anni, è chiaro come Il Signore degli Anelli si inserisca
perfettamente nell'arts and crafts movement socialista del tardo
vittoriano William Morris. La difesa della natura, la lotta contro
l'industria, l'utopia della Contea ecc ecc
Frodo e Sam, nonostante
siano mezzuomini, sono protagonisti positivi, propri degli anni
“innocenti” prima delle guerre mondiali, quel genere di
protagonista classico che sappiamo in fondo buono.
Passando all'argomento
della raccolta, lo Sword&Sorcery, è altrettanto chiaro come
Howard scrivesse negli anni '30 e stavolta, a differenza di Tolkien,
ne riflettesse appieno i valori. Nonostante non avesse mai combattuto
sul fronte occidentale della Grande Guerra, le avventure di Conan
rappresentano perfettamente il disincanto che segue il conflitto:
alla Compagnia dell'Anello con il suo solido pacchetto di valori,
succede un barbaro astuto e violento, che sebbene guidato da un rozzo
senso dell'onore, acchiappa l'opportunità che gli capita per
saccheggiare e rubare.
Mentre nell'opera
classica il barbaro viene da fuori e minaccia l'ordine costituito e
dunque ai soldati inglesi che difendono Rorke's Drift dagli zulu
succedono i soldati di Gondor che difendono Minas Tirith dagli orchi,
con Howard il protagonista E' il barbaro, è lo zulu. Si realizza un
completo rovesciamento di valori, per cui il disinganno di chi scrive
nella povertà brutale della crisi del '29 l'unica certezza sembra la
legge del più forte, la barbarie senza vincoli, l'onestà del
primitivo...
E ancora una volta non è
un caso che proprio l'antropologia in seguito alla prima guerra
mondiale si rivoluzioni cambiando drasticamente prospettiva, a
partire dall'austroungarico Malinowski.
Non va sottovalutato
quanto Conan, al di là della simpatia e dell'onore, sia interessato
soltanto a derubare e ammazzare: ogni avventura mira al bottino, alla
vendetta e, per usare un giro di termini, a violare l'integrità
morale di qualche avvenente fanciulla. Ragazze e soldi, una thug
life.
Dal punto di vista di
Howard, le vittime del barbaro, appartenendo alla decadente e
pertanto colpevole civiltà, meritano la sorte che capita loro:
persone automaticamente corrotte, deboli, omuncoli facili da
manovrare. Conan resta però un barbaro in cui è gratificante
immedesimarsi, che proprio per la sua perdita di valori si sente
vicino.
Se dunque Tolkien
rappresenta il fantasy classico e Howard lo Sword&Sorcery,
potremmo aggiungere un terzo tassello nella forma di Moorcock. Le
avventure di Elric Melniboné rappresentano la sovversione dello
Sword&Sorcery, la perfetta incarnazione del gioco citazionista
post moderno: l'eredità pulp è centrifugata in mille ammiccamenti
che ne impediscono tuttavia la sincerità. Elric sembra progettato
per rovesciare ogni attributo di Conan, mentre l'ambientazione
ripropone gli scenari esotici di Howard dalla prospettiva invertita
dei suoi abitanti. Se dunque Conan sarebbe stato il nemico di basso
livello nel caso di Tolkien, nel caso di Moorcock è il nemico di
alto livello, la prospettiva è dell'arcinemesi normalmente avversata
dall'eroe. La molteplicità dei punti di vista, il gioco di specchi
imbastito da Moorcock fanno la gioia dei post moderni, anche se
trasmettono una sensazione indubbiamente artificiale.
Sarebbe pertanto un
ordine cronologico corretto, iniziando a leggere il fantasy, partire
da Tolkien, passare a Howard, per approdare a Moorcock. E tra
parentesi, sarebbe anche un ottimo esercizio perchè i primi due
vengono ancora letti a differenza del terzo: se Frodo&Sam sono
una coppia semplice in cui immedesimarsi e Conan racchiude
perfettamente il desiderio di un adolescente, Elric di Melniboné e
Corum sono protagonisti con cui è impossibile avere empatia,
costruzioni a tavolino che catturano l'immaginazione del letterato,
ma sono un drastico passo indietro nei confronti del popolo. Il
lettore comune fatica a procedere, difficilmente si sente invogliato
a partecipare al gioco intellettuale: questo ovviamente non toglie
che siano magari di superiore livello letterario rispetto a Howard.
La questione, quindi, al
momento di leggere l'antologia italiana Eroica, che si propone un
rilancio dello Sword&Sorcery, era in quale categoria collocare i
racconti: se nell'eredità selvaggia di Conan o nei labirinti
intellettuali di Moorcock. O magari in qualcun'altra ancora
(spade&stregoneria non si riducono certo a questi due soli
autori!). Così, su due piedi, d'istinto, mi viene da collocare
l'antologia decisamente nella prima categoria: anche i racconti
peggiori chiaramente mostrano come gli autori si siano divertiti, e
divertiti parecchio. Se venisse stampato, raccomanderei la carta
giallina di un pulp d'annata.
Ma ora, basta indugi:
passiamo ai singoli racconti!
Il primo racconto è un
adeguato esordio per la raccolta, perchè La torre glauca, di Adriano
Monti Buzzetti, è la storia di un giovane barbaro che si scontra per
la prima volta con il soprannaturale, nella forma di una magica
torre/dungeon. Gli elementi caratteristici del genere ci sono tutti:
un barbaro giovane, prestante con la sua fida cavalcatura, una
gigantesca lucertola; una compagna ladra proveniente dalla città
(chiara citazione dal film di Milius), uno scontro con creature che
in D&d definiremmo di basso livello (gli Utteni, una sorta di
goblin), la scalata della torre (Milius, ancora) e lo scontro con il
mostro all'interno.
Lo stile è ricco, denso,
pieno di infodump: ogni svolta del racconto è un'occasione per
raccontare un particolare dell'ambientazione, dalla torre –
lunghissima digressione – alla spada di Onzog, al fellenus, la
cavalcatura, alle usanze di quel popolo in quella data regione...
La ricchezza di
particolari è controbilanciata dalla brevità degli stessi, che non
intralciano eccessivamente la narrazione: sono interessanti, anche se
i nomi astrusi non aiutano a sveltire la lettura. Va però
riconosciuto che tra tutti i racconti di Eroica, contiene le
descrizioni più vivide; c'è un pittoricismo da parte del Buzzetti,
un gusto dell'esotico che non dispiace.
Onzog è ovviamente un
barbaro estremamente addomesticato, un erbivoro che
dell'inciviltà ha solo il nome tribale e un paio di cenni di colore.
All'inizio del racconto, prima di scendere dal fellenus, si pettina i
capelli:
Sotto la zazzera di capelli ramati, gli occhi gialli del barbaro divennero due fessure: fermò con un pettine d’osso la lunga treccia ribelle e calibrò con cura la stretta sulle redini in modo che le zampe artigliate del fellenus arrestassero silenziosamente la loro corsa su una distesa di muschi e gramigne.
Perchè non gli date
anche un rossetto, una crema per le mani e uno specchio, già che ci
siamo?
Nonostante sia un
barbaro, siamo lontano dal balbettio ba-ba irriso dai greci:
«In ogni caso,» riprese con tono quasi distratto «io non forzo mai le donne ai giochi d’amore… Casomai è accaduto il contrario. Almeno dalle mie parti e in certe stagioni». Un guizzo di malizia gli strappò un sorriso dal labbro dolorante, rovinando all’istante l’atteggiamento sostenuto che aveva cercato di tenere.
Questo non è il modo di
parlare di un barbaro, è di un intellettuale, un uomo di città. E
andiamo, un vero barbaro l'avrebbe abbrancata e venduta come schiava,
o stuprata sul posto. I quattordicenni che ci provano sul web sono
più violenti di Onzog e non sono certo barbari.
Anche se le usanze
tribali di Onzog prevedessero un'eguaglianza con le donne o uno
speciale galateo, è impossibile che questa tradizione si estenda al
di fuori del cerchio ristretto della tribù.
Persino il dialogo con
gli Utteni, una razza debole e vigliacca, è parlato con tono alto:
«È una delle ultime e presto riprenderà il suo viaggio nel sonno delle stelle; per non tornare, forse, come già altre prima di lei. Ma parola dei morti ci avverte che essa dà ricetto a minacce senza nome, contro cui è meglio essere in molti piuttosto che in pochi. Se avete abbastanza ferro nel cuore per sfidarla, il mio braccio potrà servirvi. E prima che faccia giorno, se i guardiani del caos ci assistono, potremo raccontare di aver rubato nella casa degli immortali».
Vi sono poi alcune
espressioni qui e lì che fanno sorridere, purtroppo
involontariamente:
Quando finalmente i suoi febbrili sensi di cacciatore gli confermarono che nei dintorni della torre era rimasto lui solo, si stiracchiò e con i mantelli dei cadaveri pulì la vecchia Cunne dal sangue rappreso, muovendola senza sforzo con una mano quasi fosse la piccola daga di un cortigiano; infine con un gesto fluido la rimise nel fodero, scavalcò con noncuranza i corpi dei nemici e si avvicinò allo spiedo messo sul fuoco, guidato dal gradevole profumo d’arrosto e dal suo cronico, ruspante appetito.
Come? Non vi svegliate
anche voi con “un cronico, ruspante appetito”, alla mattina?
(sic!) L'aggettivo cronico rimanda all'ambito medico e ha una
connotazione solitamente negativa: non lo userei per riferirmi al
cibo.
O la descrizione
dell'eroina, presa dal discount dei personaggi femminili fantasy:
Notò che era davvero bella: non molto alta ma agile e sensuale.
Il rude vestiario da lavoro non riusciva a camuffarne le forme flessuose e proporzionate, o l’incarnato pallido che nella scollatura della camicia dava risalto alle rotondità perfette dei seni.
O ancora:
“Uno schiavo” pensò la sua mente essenziale ma acuta; un mastodontico schiavo, messo lì da chissà quando a servire la torre e i suoi abitanti.
Questo è già stato
dimostrato ampiamente per tutto il racconto, non serve sottolinearlo
in astratto.
Alcuni passaggi suonano
inoltre eccezionalmente contorti:
Scacciata la superstizione con un brivido, si concentrò lasciando che fosse la vergogna stessa per averla provata ad accendere finalmente in lui i fuochi della furia. I segni magici sul suo corpo si accesero, scaldandogli il sangue, mentre le percezioni del mondo esterno annegavano nella trance guerriera che sin dai tempi più remoti aveva aiutato i suoi avi a sorridere alla morte sul campo di battaglia.
Quindi, nella pratica, si
infuria perchè si è sentito in vergogna e sua volta si è sentito
in vergogna perchè ha avuto paura? Diamine! Mi sarei accontentato di
un barlume di sudore, un lampo negli occhi, senza sfociare
nell'introspezione psicologica.
Al di fuori di ciò, è
un buon racconto con cui partire, che fornisce tutti gli elementi
base che ci si può aspettare dalla copertina e dal titolo: ci si
diverte e il setting è indubbiamente bene descritto.
Ho sentito definire Mala
Spina, “un'abile mestierante”, che sebbene ad alcuni potrebbe
sembrare offensivo, è di solito una sicurezza per leggere qualcosa
di godibile senza intralci letterari.
Testa di santo mette in
campo una serie di elementi originali rispetto alla tradizionale
Sword&Sorcery: siamo nella Toscana del tardo medioevo, in
compagnia di Lupa e Mezzocorvo, due scalcagnati furfanti alla ricerca
di un facile colpo a danno di un monastero. Sono stati infatti
incaricati da un misterioso committente di un torbido furto: una
reliquia, nello specifico la testa di un santo.
Il colpo sembra
facile, la ricompensa alta: ma Lupa non si fida di Mezzocorvo, il
Monastero si rivela presidiato dai templari e la stessa Testa non è
affatto “santa”...
L'abitudine alla
scrittura è evidente, perchè stilisticamente, a parte un
“fontanile” per “fontana”, il racconto lo si termina ancora
prima di rendersi conto d'averlo letto: non ci sono parti noiose, o
descrizioni inopportune, o digressioni retoriche.
Ho particolarmente
apprezzato descrizioni nette e concise come la seguente:
Prese il sottile spadino dal fodero che teneva allacciato alla gamba destra e lo scrutò con attenzione. Ogni spanna della superficie metallica raccontava una storia e quella di Lupa era lunga, piena di rimorsi e atti innominabili. Era una lama che aveva conosciuto il sangue di degni avversari, di sconosciuti e talvolta anche quello di amici.
Frugò nella sacca che aveva abbandonato a terra e prese una pietra ormai concava per il troppo uso. Lenta e con precisione, iniziò ad affilare i suoi “artigli”. Così chiamava le sue armi.
La storia si sviluppa con
una certa rapidità, superato il furto della Testa, accelerando a mio
parere anche un po' troppo, culminando nell'incendio stesso del
monastero. L'idea di fondo, ma non voglio far spoiler, è alla fine
voler ambientare nel Medioevo una creatura horror ormai (troppo) di
moda.
Verso la fine, nelle
ultime pagine, il tono splatter cede il passo a un tono
grottesco-comico che permette un ultimo colpo di scena.
Edga, la strega è il
primo racconto dell'antologia che ho davvero faticato a finire.
Donato Altomare sceglie
il tono di una ballata, di una chanson de Roland, che alterna
passaggi in versi a passaggi in prosa. Francamente ho trovato il
tutto assolutamente illeggibile. Per anni ho faticato a leggere le
poesie nel Signore degli Anelli, anche quand'erano semplici canzoni.
Edga funzionerebbe forse
bene se narrato da un cantastorie o suonato da una banda power metal:
dopotutto alla prima pagina compare a caratteri giganti IL CAVALIERE
TAU. Posso immaginarlo urlato a pieni polmoni da una band di nicchia in un pub.
Tuttavia, siamo
all'interno di un'antologia di racconti destinata al grande pubblico,
pubblicata nel 21' secolo: anche saltando a piè pari le canzoni, i
diversi scontri che affronta Renzi (lo sfortunato nome del protagonista...)
fanno a gara per addormentare il lettore.
Alcuni giri di parole
sono talmente gonfi che si sente il bisogno di distendersi a digerire
dopo averli letti. Questo, ad esempio:
Il cavallo s’impennò nitrendo e senza la minima esitazione, partì al galoppo affondando con furia gli zoccoli nel terreno. Il fossato era largo più di venti passi. Il solo pensiero di saltarlo sarebbe stato una pazzia. Ma anche Mago era stato un dono di Tau.
Con la grazia di una pantera che assale la preda, con la forza di un’orsa che difende i suoi piccoli, con l’agilità di una gazzella in fuga, il cavallo balzò nell’aria descrivendo un nero arcobaleno che la luce della luna calante faceva brillare. Parve per lunghi istanti sospeso nel cielo, con le zampe distese al massimo, protese in un salto impossibile.
Senza dimenticare le
catene di aggettivi che non trasmettono assolutamente nulla al
lettore:
Sentì puzza di demone, puzza del Maligno.
Era gigantesco, viscido, mostruoso. Ruggì con rabbia. L’urlo parve quello della terra quando si spacca, la sua bocca spalancata parve una nera voragine senza fondo.
Ripeto: in un'altra
forma, forse come canzone, forse come fumetto, Edga sarebbe un'opera
interessante. Vi sono barlumi di un'ambientazione high fantasy con i
suoi punti d'interesse, borderline con l'esoterico. Purtroppo al
lettore arriva solo la mazzata di una narrazione pesantissima.
Con Lo scorpione sulla
lama ci spostiamo nel fantasy piratesco.
Non è una deviazione o
un'eresia dal canone Sword&Sorcery perchè già Howard aveva
ambientato numerosissime avventure di Conan tra i pirati, tra cui
figura anche una delle sue migliori fiamme, Belit della Costa Nera. Spade&Stregoneria vanno dunque perfettamente d'accordo con
Sciabole&Velieri.
Malasorte è un infido
pirata alla ricerca di un tesoro sulla Costa d'Oro, un equivalente
fantasy delle nostre Antille, con tanto di capitale piratesca,
Tartesso (chiaramente una citazione di Tortuga).
E' accompagnato da una
guardia del corpo, Spallaccio, un uomo affidabile, letterato, anche
se un po' ingenuo. Mentre si fanno strada nella giungla della Costa,
vengono catturati da un gruppo di pirati anch'essi alla ricerca della
favoleggiata Abraxa. Costretto a guidare i pirati al tesoro,
Malasorte dovrà approfittare delle insidie della giungla e delle
tensioni interne al gruppo di litigiosi bravacci per cercare di
scamparla...
Uno degli aspetti
interessanti dello Scorpione sulla lama è come si presenti in
maniera lineare, quasi un elenco di nomi e cose da fare: una
storiella di caccia al tesoro che potrebbe essere uscita da un gioco
di ruolo. Tuttavia, procedendo nella lettura, ci si sorprende di come
dettagli presentati dieci pagine indietro risultino poi fondamentali
per quel colpo di scena, per quella battuta, per quella morte di quel
personaggio ecc ecc
C'è un continuo
capovolgimento di parti, specie verso il finale. In particolare Mauro
Longo sembra concentrare ogni attenzione in quello che sembra il
punto forte del racconto, la scoperta del tesoro. Salvo poi
all'ultimo momento divergere in tutt'altra direzione, svelando il
soprannaturale e il dungeon come uno specchietto per le allodole.
L'umido, lo sporco (della
giungla e dei pirati), il raccapriccio per alcune morti sono rese bene:
«Eravamo in mezzo alla foresta, sulla riva del fume, per dove si passa più facilmente» spiegò tra i singhiozzi. «Stavamo attenti a dove mettere i piedi e le mani, e non ci siamo accorti che c’erano dei nidi di vespe sui rami. Laggiù è pieno di quegli alveari, gli alberi ne sono infestati. Sono arrivate a migliaia e ci volavano attorno indiavolate. Mio fratello non è riuscito a scappare. Ho visto… Ho visto che lo pungevano dappertutto: vespe verdi grosse un dito. La faccia… La faccia gli si è sciolta ed è colata via».
E' facile confondere i
vari nomi dei pirati (citazioni dei diversi scrittori presenti nella
raccolta), mentre c'è una certa ossessione da parte di Longo per
descrivere i suoi protagonisti che starnutano e sputano per terra.
Questo spiegherebbe forse per quale motivo gli adolescenti di ora
sono così sgarbati e sputano sempre per terra: sono in realtà
pirati, ecco la soluzione antropologica...
“Il libro. Dalla saga
di Kmer” è un racconto ingannevole, a partire dal titolo e dal
prologo. Sarebbe infatti ragionevole aspettarsi con un titolo così
roboante e un'introduzione così aulica un polpettone che mima i
classicisti annoiando il lettore:
Vi fu un tempo in cui gli uomini dovettero lottare contro la barbarie, un tempo in cui orde selvagge si gettarono dal profondo nord sulle terre civilizzate, depredando i borghi, assaltando le città, saccheggiandone i templi profanati, e passando a fil di spada quanti vi si opponevano, senza risparmio per donne e bambini.
E' invece un magnifico
travestimento, perchè il racconto è tutt'altro che “classico”.
Si tratta ancora una volta di un'ambientazione fantasy, stavolta
ispirata all'impero romano, con protagonista un giovane barbaro,
stavolta meno educato dell'Onzog di Buzzetti, ma pur sempre troppo
educato per essere un barbaro incivile. Il mercenario, aggredito dopo
una notte di bagordi alla locanda, è accusato dalle autorità,
d'aver rubato un libro sacro del Tempio (da cui il titolo...).
Vi sono diversi punti del
racconto che suonano ridicoli, specie per i lettori smaliziati. Il
narratore insicuro, dopo aver descritto in dettaglio l'aggressione
all'uomo, il colpo alla testa e il “buio”, si premura di
sottolineare il seguente:
Nell'ombra scorse in terra la figura d’un uomo che si lamentava debolmente, e si chinò su di esso sollevandone il capo riverso. Subito sentì del liquido caldo sulle mani: era sangue. Quell'individuo era stato aggredito e ora stava per rendere l’anima agli dei.
Ovvio, l'hai appena
mostrato, non occorre che me lo racconti di nuovo.
Semplicemente terribile
la descrizione del barbaro:
Il volto suo era bellissimo e selvaggio a un tempo, con occhi neri come carbone da cui saettava una luce felina, la fronte ampia, una mascella dura come roccia sormontata da una bocca armata da denti perfetti.
Così come l'arma che
“miagola”: un verbo kawaii, che difficilmente si può associare a
un combattimento.
Tra le urla concitate delle altre guardie, il giovane iniziò a farla roteare con un terribile miagolio verso i suoi avversari.
Incomprensibile anche il
seguente colpo in mischia del barbaro:
In quel mentre, un’altra guardia tentò di trafiggerlo colla lancia, ma egli schivò il colpo e dopo aver spezzato con una ginocchiata fulminea l’arma, stramazzò l’aggressore con un pugno pietroso che
ne fracassò l’elmo.
“Pugno pietroso”? Chi
è, Hulk? E' forse “un pugno solido come la pietra”?
Ascia pietrosa! |
Nonostante ciò, Il libro
è in realtà un giallo che svela nelle ultime pagine a incastro una
sequenza di rivelazioni che lo rende formidabile: è il racconto più
breve dell'antologia, eppure il più denso concettualmente.
“Gli Scacchi del Re”
è una coproduzione tra Andrea Gualchierotti e Lorenzo Camerini.
Va a merito
dell'antologia Eroica come sia riuscita a raccogliere una buona
diversità di ambientazioni. Gli Scacchi del Re ad esempio ha un
eccellente worldbuilding, un setting vagamente greco/ellenistico. La
storia di un gioco mortale – gli Scacchi del Re – il rimpiattino
tra il protagonista e il suo rivale sono descritti bene, in
particolare la rivalsa del ricco perdente.
Come il protagonista
scommette nel gioco e batte d'astuzia la sua nemesi, così scommette
nella vita reale, scegliendo di non giocare sporco.
Nulla da eccepire sullo
stile, anche se a tratti un po' incolore.
Onan il Barbaro è un
tipico appellativo da goliarda: prendi un nome famoso, ne
rubi/modifichi una lettera a scopo comico-volgare. Wolverine
L'Immorale. Floxar il Garbato.
Non è un caso, perchè
uno degli aspetti curiosi del racconto “Floxar il Garbato”, tra
le tante citazioni, è l'ammiccare a Wolverine e al suo scheletro di
adamantio:
Il mago spalancò la bocca: «Ossa… di diamante?».
«Già, una vera merda. Dannatamente rigide, fai il doppio della fatica a respirare, e per le articolazioni è una sofferenza. A saperlo prima, col cazzo». Floxar chiuse la mano destra e premette le nocche sul palmo sinistro: uno schiocco cristallino risuonò nella locanda.
Ora, il racconto di Livio
Gambarini è divertente, su questo nessun dubbio.
Tuttavia, al di fuori
dell'aspetto comico, non c'è davvero nient'altro: nonostante la
storia abbia una sua rigorosa logica interna, tutto si basa
sull'assunto che il lettore geek comprenda le battute (ormai
mainstream, in effetti) legate ai giochi di ruolo, ai videogiochi, agli stereotipi fantasy.
«È una strega-lingua» disse il mago. «La pietra la infastidisce e i metalli le danno ribrezzo. Non tocca nulla che non sia mai stato vivo».
Floxar scatarrò a terra e mugugnò: «Niente pietre e metalli, quindi niente loot. E solo sessanta argenti. Che quest di merda…».
E' in effetti divertente
e le risposte volgari di Floxar un bel contraltare ai racconti
precedenti.
Tuttavia, dopo le prime
pagine sorge spontaneo domandarsi: sì, ok, spassoso, ma per il
resto?
Non c'è altro: si
apprezzano i dialoghi meno ingessati delle storie precedenti, così
come la sottotrama “gastronomica”, ma alla fine non rimane molto
di cui ricordarsi.
“Rapido” di Marc
Lawrence: l'unico racconto straniero della raccolta propone
un'inedita ambientazione giapponese d'epoca Tokugawa, tra paradossi
temporali e un'atmosfera soffusa, vagamente onirica.
Hiro è un giovane
sguattero a una locanda, che durante una serata piena di clienti,
viene incaricato dal cuoco di trovare uova di quaglia con il “guscio
tinto di blu”. E' l'inizio di un'avventura surreale, dove Hiro
scoprirà d'essere molto di più che un lavapiatti da ristorante...
Marc Lawrence padroneggia
la materia, sebbene la storia sia curiosamente monca, come se fosse
un episodio pilota di qualcosa di più vasto. Qualche scena rimane
notevole per impatto, in particolare l'incontro con Madama Jimla,
l'unica che vende l'ingrediente richiesto dalla locanda:
«Cosa vuoi?» chiese la donna. Nel parlare avanzò verso di lui, dando l’impressione di fluttuare nel kimono di seta. Adesso era fin troppo vicina, con il naso aquilino a pochi centimetri dal suo viso.
«Io…». Non riusciva a ricordare. Mamoso voleva qualcosa. Fiori di riso? Nidi di rondine per la zuppa? La sua lingua sembrava voler pronunciare la parola “blu”, ma questo non aveva alcun senso. Una porta si aprì sulla sinistra e ne emerse una donna di statura molto bassa, che pareva quasi scomparire in un confuso insieme di sete decorate. Era molto anziana, e solo madama Jimla lo era così tanto.
“Moor & Stone –
L'Anfora di Arcùn” come ogni buon avventura D&d inizia in una
taverna, dove i nostri due protagonisti si confessano vicendevolmente
le reciproche disgrazie. Moor, in origine un nobile, per un castigo
divino è condannato alla povertà e all'ubriachezza: più beve, più
diventa forte. Stone, al contrario, un prete con un debole di troppo
per le donne, è stato condannato dalla Madre della Misericordia a
trasformarsi in un animale a caso se starnuta o fa sesso.
I due penitenti decidono
di mettersi assieme e cercare una redenzione dalla maledizione della
dea, inciampando in diverse grottesche avventure, dove le loro doti
si riveleranno inaspettatamente utili.
E' interessante come
nonostante l'ambientazione sia la tradizionale Sword&Sorcery,
Brandoli descriva Moor e Stone come due supereroi, con le
“maledizioni” che funzionano alla maniera dei superpoteri di un
fumetto.
La volgarità eguaglia il
racconto di Gambarini, anche se è meglio contestualizzata.
Alcuni passaggi restano
francamente squallidi:
«Vacci piano, bellezza, credo sia il dodicesimo che ti scoli…».
Moor ingollò un primo sorso fresco e ingordo, poi si passò il polso sulle labbra.
«Sono in pari coi pagamenti, anzi… Se guardi bene tra le tue belle mammelle penso che troverai di che coprire altre cinque ordinazioni almeno!».
La donna rise civettuola, voltando le spalle e allontanandosi, mentre l’altro le tirava una sculacciata sul sedere.
Come tanti autori di
fantasy, Brandoli è inoltre convinto che il vino sia napalm, o tnt:
Ingollò un sorso da una fiaschetta, riempiendo bene le guance di liquido, poi riprese la torcia dall'aggancio nel muro e l’avvicinò alla bocca, soffiando e creando un’imponente fiammata verso gli sgherri del Guercio.
Il gatto miagolò, scappando immediatamente verso l’uscita, mentre un boato invadeva la galleria, dove tutto il vino a terra aveva preso fuoco in un lampo spaventoso.
Vetri presero a schizzare in aria e da ogni parte, mentre nel boato la scaffalatura finalmente si divelse, crollando a terra.
Moor si riparò dietro una colonna, proteggendosi gli occhi e la bocca, mentre un fumo denso e una nuvola di polvere si sollevavano invadendo la stanza.
Ka-Boom!
“Solomon Kane: un eroe
in bilico” apre le danze alla sezione saggistica della raccolta, solitamente ignorata dai recensori. Un vero peccato, perché la
ritengo interessante, certo non da sottovalutare.
Michele Tetro (nomen
omen...) affronta il personaggio di Howard in una chiave
storico-letteraria, cercando di dimostrare come si collochi nella
tradizione medievale.
Confesso che non mi ha
molto convinto; sia visivamente che narrativamente trovo che
Solomon Kane sia il perfetto puritano seicentesco, il cacciatore di
streghe protestante, fanatico e masochista per eccellenza. Vederlo
invece accomunato al mondo medievale è bizzarro.
Ci sono alcuni punti che
da studente pignolo ho trovato irritanti, come il seguente:
(…) lo portano a muoversi per tutta l’Europa e l’Africa a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, rimanendo tuttavia al di fuori dei grandi avvenimenti storici del periodo, probabilmente non conosciuti o indagati a fondo dall'autore.
E' un saggio, non un
articolo di giornale: non si può andare sul vago, o lo si sa e se ne
citano le fonti nelle note a piè di pagina, o lo si nega. Avevo
letto che Howard si documentava sulle sue opere, anche se solo a
livello enciclopedico. Dovrò dare di nuovo un'occhiata, era tra le
introduzione alle vecchie edizioni della Nord...
Un interessante
collegamento è il paragone tra la figura del Corsaro Nero e di
Solomon Kane, effettivamente calzante, anche se sicuramente Howard
non aveva la possibilità di leggere Salgari.
Questa descrizione ha un singolare contraltare con quella di un altro personaggio ugualmente saturnino e fanatico, il corsaro nero inventato da Emilio Salgari, che così lo descrive nel primo romanzo della saga:
“Era vestito completamente di nero (…) l’aspetto di quell'uomo aveva, come il vestito, qualche cosa di funebre, con quel volto pallido, quasi marmoreo, che spiccava stranamente tra le trine del colletto (…) adorno di una barba corta, nera, tagliata alla nazzarena (…) Aveva però lineamenti bellissimi (…) una fronte ampia solcata da una leggera ruga che dava a quel volto un non so che di malinconico (…). La sua statura era alta, slanciata, il suo portamento elegante (…) un uomo abituato al comando”.
Sempre sullo stesso tono
eccessivo Solomon è giudicato come il primo anti-eroe (!): se è
vero che Howard fa per il fantasy quello che avevano fatto Hammett e
Chandler per il poliziesco, non è certo l'inventore dell'eroe
negativo, mi sembra una presa di posizione decisamente eccessiva.
Il saggio qui presente
non è che uno stralcio della tesi di laurea del 1998 “Fantasia
eroica e medioevo inventato nell'opera di Robert E. Howard”, per
cui si tratta solo di un frammento, un capitolo. Nel suo è una
lettura affascinante, che cerca di applicare a Solomon una teologia
medievale che non mi sembra però gli appartenga molto.
“La saga
di Fafhrd e del Gray Mouser” è una breve disamina
della saga del sottovalutato (specie in Italia) Fritz Leiber. Stefano
Sacchini delinea un quadro generale dei protagonisti. Sarebbe bello
che qualcuno approfondisse uno dei nemici più caratteristici del
duo, gli uomini ratto/topi senzienti.
“Perché Sword &
Sorcery e non Heroic, Epic o High Fantasy?” è
una buona introduzione al genere, leggermente didascalica. Sarebbe
stato meglio metterla alla testa dei saggi, chiarendo infatti alcuni
dubbi su chi non conosce il genere.
Trovo
anacronistico definire Howard “un nerd”, stereotipo che a mio
parere compare solo dagli anni '60 e '70. La crisi nera del '29 e la
povertà degli scrittori che si dedicavano al pulp fanno a pugni con
il “nerd” che tradizionalmente è un ragazzino bianco e benestante (senza nemmeno citare l'aspetto tecnologico, che accomuna nerd
e geek...).
Giovanni
Luisi osserva giustissimamente come Leiber rappresenti un passo
indietro rispetto a Howard quando si tratta di scrivere personaggi
femminili:
La sorte avversa e il modo disincantato, ironico e quasi picaresco di affrontarla dei due eroi rende sempre godibili e simpatici Fafhrd e il Gray Mouser, decisamente meno perfetti di Conan e afflitti da svariati difetti oltre che di atteggiamenti verso il “sesso debole” piuttosto discutibili. È questa la seconda grande differenza che Leiber mostra rispetto alle tematiche howardiane, ovvero un’antitetica considerazione per il genere femminile: Robert Howard aveva creato personaggi non stereotipati come Agnes de la Fere, Valeria della Fratellanza Rossa, Helen Tavrel, Bêlit, Red Sonya di Rogatino (Valeria e Bêlit sono fra le comprimarie più importanti ed interessanti nelle avventure di
Conan) mutuandone il carattere dal suo interesse romantico Novalyne Price. Da questo punto di vista Robert Howard mostrò una maturità e una modernità da scrittore non comune per l’epoca, dove le donne erano spesso relegate a mere damsel in danger. Per Howard le donne sono persone da rispettare e da difendere, ma che sono maggiormente affascinanti e attraenti se hanno spirito libero e indipendente, paragonabile a quello, appunto, delle pioniere della frontiera americana.
E'
un'osservazione acuta, che non ho mai incontrato prima.
Effettivamente sotto molti aspetti Agnes è una protagonista
all'avanguardia.
“Women &
Sorcery” si innesta sul discorso che aveva già iniziato Luisi,
descrivendo il ruolo delle donne in questo sottogenere della
narrativa fantasy. Mariateresa Botta svolge un buon lavoro, citando
la dimenticata Ayesha di Haggard. Menzioni ottime, accanto alla
noiosissima Marion Zimmer Bradley, Tanith Lee, Carolyn Cherryh e il
sempre benvenuto Gianluigi Zuddas.
Infine, a
chiudere l'antologia, una breve rassegna delle opere e della vita di
Clark Ashton Smith, ad opera di Francesco La Manno: sintetica,
efficace, anche se con un sacco di name-dropping:
Le storie hanno ad oggetto la satira nei confronti dell’avarizia, del sistema giuridico e della protervia, e vedono la partecipazione di magistrati, avidi usurai, carnefici, oracoli, ladri e stregoni. Tra essi meritano di essere menzionati Satampra Zeiros, Ralibar Vooz, Avoosl Wuthoqquan, Athammaus, Evagh e l’esecrabile Eibon.
Ottimo aver distinto tra il pantheon di dei di Clark e il patheon degli Antichi di Lovecraft.
Fonti:
Eroica - Antologia Sword & Sorcery (sito casa editrice)
Eroica. Antologia sword & sorcery, a cura di A. Iascy, F. La Manno (Ibs)
Italian Sword&Sorcery - sito di appassionati italiano.
Nessun commento:
Posta un commento