Due fattori fondamentali
concorrono nella scrittura fantasy, accanto alle elementari norme
dello stile e della storia: equilibrio e convinzione.
Sono convinto, in quanto blogger e lettore di lunga data, non scrittore, che la qualità di
un'opera fantasy dipenda dall'abilità di giocoliere con la quale lo
scrittore gestisce gli elementi fantasy al suo interno. Non solamente
nell'effetto a catena secondo cui quanto più prevalente è il
fantasy, quanto più diventa facile scadere nella contraddizione e
nell'improbabile, ma anche nella misura in cui il fantasy viene
gestito di per sé stesso.
Ovvero: si può avere un elemento fantasy
considerato seriamente (Tolkien) o a effetto comico (Pratchett). Si
può scrivere un libro come Il Signore degli Anelli solo per avere un
veicolo con il quale mostrare i propri studi linguistici, o si può
procedere a creare un mondo fantasy per dimostrare la propria geniale
verve satirica. Il secondo non è più improbabile del primo, né
meno erudito. Tuttavia sono forme diverse di approccio al fantasy.
Quindi, accanto all'elemento della qualità, andrebbe fatto risaltare
il tono del fantasy, quale approccio prediligere. Si può disporre di
un elemento fantastico mutuato dalla fantascienza, come con la
narrativa di Andre Norton recensita su Heroic Fantasy Italia, o
mutuato dalla mitologia, o ancora inventato da zero, o animato da
un'ideologia politica di base (China Miéville).
Quando il romanzo o il racconto o il fumetto
confondono questi diversi tipi di fantasy e cambiano di tono di
capitolo in capitolo, siamo nei guai.
Un esempio. Un romanzo fantasy
ambientato in un Medioevo con mostri e razze inventate. I mostri
derivano dal folklore e sono presentati con serietà, come una
minaccia all'eroe. D'accordo, va bene. Se questa è la griglia
interpretativa decisa dall'autore, non si può tuttavia inserire una
scena dove il mostro diventa all'improvviso una macchietta comica. Un
controsenso, è ovvio. Tuttavia la colpa non sta nell'aver reso
l'elemento fantasy comico, sta nell'aver deciso un approccio serio e
averlo poi cambiato senza reale ragione, “tanto per”.
Allo stesso
modo l'opera perde di credibilità se dapprima il vampiro è una
creatura della notte scaturita dal diavolo e dopo qualche pagina
viene descritto come un virus batteriologico e qualche pagina ancora
diventa una metafora post moderna per le persecuzioni razziali. Se
questo cambiamento viene introdotto come un colpo di scena, un
ribaltamento, tutto apposto. Se è una strizzata d'occhio invisibile
ai personaggi e ai lettori casuali, come con i giochi di parole e gli
easter egg di Sapkowski, meglio ancora. Tuttavia spesso non è
il caso ed è ancora una volta risultato di una scaletta buttata lì,
“tanto è fantasy”.
Un secondo elemento
tutt'altro che scientifico, ma molto sentito, è la convinzione.
Lo scrittore deve credere
in quello che scrive. Ho fatto qualche conferenza alle scuole, nei
mesi scorsi, e sono giunto alla conclusione che si deve credere in
quello che si dice. Si dev'essere convinti di quanto si propone. Come
i lettori di un libro, il pubblico si accorge subito se non si crede
al programma che si propone, all'evento storico che si descrive,
all'aneddoto che si racconta. Ho in effetti constatato come le classi
delle scuole medie avvertano subito se il relatore è scazzato, se non ci
crede neppure lui, se lo ripete perchè scritto sul Power Point. Il
paragone mi sembra calzante, perchè il fantasy è un genere letto
massicciamente dalle quote giovani della popolazione. Magari, proprio
perchè giovani, si trangugiano le opere peggiori, dalla Troisi alle
Dragonlance di Hickman, senza far attenzione ai personaggi riciclati
e alla grammatica più povera di un redneck in crisi di anfetamina.
Tuttavia... se lo
scrittore non ci crede nella sua storia, se la considera un aereo
kamikaze per mandare il suo messaggio ai lettori, i lettori se ne
accorgono. E' questo uno dei motivi per il quale larghe fasce dei
classici del secondo dopoguerra e della narrativa mainstream vengono
quotidianamente ignorate da “quei buzzurri” delle nuove
generazioni. Sentono come siano riflessioni mascherate da romanzi. Ad esempio, si consideri “Sabato” di Ian McEwan. Ho studiato il romanzo per il corso di Letteratura Inglese, nella triennale
di Storia. Romanzo perfetto, secondo chi se ne intende. Lungi da me
metterlo in dubbio; non ho le sufficienti conoscenze per argomentare
i meriti di Ian McEwan. Tuttavia innegabile come la storia non
esista. Letteralmente il romanzo è un guscio che cela le opinioni di
McEwan all'epoca, espresse dall'autentico Mary Sue del chirurgo
Perowne. Semplicemente insopportabile.
Sono queste le due parole
chiave dove a mio giudizio si concentra il problema con tanta fantasy
contemporanea.
Il seguente passaggio
(tradotto) dello scrittore e critico Gardner Dozois, esprime bene il
disagio degli ultimi anni, dove pure ci si continua a ripetere che i
nerd hanno “trionfato” (bisognerebbe ricordare come vittoria sia
anche quella di Pirro, but whatever...).
Mentre stiamo discutendo di fantasy, ho letto ultimamente un sacco di quella che viene chiamata la “nuova Sword&Sorcery”, roba di tizi quali Joe Abercrombie, Scott Lynch, K. J. Parker, Daniel Abraham e mi ha colpito una delle influenze che esteticamente separa il nuovo Sword&Sorcery dal vecchio Sword&Sorcery, dato che hanno entrambi avventurieri con spade, mostri e malvagi stregoni: lo Spaghetti Western. Chiaramente gli Spaghetti Western hanno avuto una grande influenza sul tono di questi nuovi lavori. Scomparsi sono i bellissimi templi, incrostati di gioielli, pieni di serpenti giganteschi e strani idoli con occhi di pietre preziose e sinistre sacerdotesse dai bikini ingioiellati con le quali Conan finiva per andare a letto.
Invece, l'ambientazione più comune sembra essere un insignificante villaggio nel bel mezzo del nulla, o riarso dal sole e desertico, o umido e semi sepolto nel fango, estremamente povero e cattivo, ronzante di mosche, pieno di venali, analfabeti paesani dagli occhi spenti, che sono poco più intelligenti che stronzi, se lo sono, e che hanno né influenza, né potere nel mondo e certamente niente ricchezza e che fissano assenti e a bocca aperta i nostri eroi mentre entrano in città, o sollevando nubi di polvere a ogni passo o inzaccherandosi nelle pozzanghere.
Conosci questo luogo: pensa a ogni povero villaggio di ogni film di Western all'italiana visto in vita tua.
Ammetto una totale
ignoranza nei confronti del genere western, così come un
disinteresse verso il genere pure italiano dello Spaghetti Western.
Ho una conoscenza storica decente del periodo, ma sono gli elementi
urbani o esotici che mi affascinano: la costruzione delle ferrovie,
l'afflusso degli immigrati cinesi con le oppierie, la parallela
storia del Messico, ecc ecc
Tuttavia, a termine della
lettura, per poco non mi sono sollevato dalla sedia ad applaudire:
Gardner Dozois aveva perfettamente espresso la mia opinione su tanto
fantasy attuale.
Ancora una volta, è tutta
questione di equilibrio.
Il fantasy attuale, così
carico di grimdark, è una reazione al fantasy tolkeniano.
E' certamente preferibile
al primo, ma tra i due la soluzione migliore consisterebbe in un
ritorno a Howard, a Conan e allo Sword&Sorcery più puro e
incontaminato. Tuttavia, gli anni '90 e la prima metà del '2000
erano in effetti flagellati da una sequela d'imitazioni e ristampe
(Terry Brooks!) di bassissima lega, dove lo scrittore si perdeva
nella descrizione del colore dei bottoni del comprimario comparso in
scena forse per tre pagine o poco meno. Il fantasy alla Spaghetti
Western, nato successivamente, si sviluppa proprio come reazione a
questo autismo stilistico: niente più descrizioni, solo dialogo e
combattimenti (violenza verbale e fisica, in un certo qual modo).
Viene adottato uno Show,
don't tell sbrigativo, dove i dialoghi esprimono il carattere dei
personaggi, a loro volta immersi dentro ambientazioni vuote, dove i
singoli nomi (Il Castello, L'Alfiere, ecc ecc) dovrebbero sostituire
la ricchezza visiva di un Howard, di un Moorcock, di un Ashton Smith.
Sono due opposti estremi:
qualunque sia il tono del fantasy che si vuole adottare, evitare
totalmente le descrizioni o esacerbarle per pagine e pagine è sempre
sbagliato. La descrizione non è di per sé il problema, è la
scarsezza delle idee, la povertà del setting. Adottare una generica
prospettiva grimdark dispensa dall'essere originali nelle
descrizioni, tanto è il solito castello medievale, il solito
villaggio di servi della gleba depressi... il fantasy negli edifici,
nella natura viene a mancare. D'altronde, nelle imitazioni di
Tolkien, ci si limita a descrivere quelle che sono copie di scarsa
qualità di generiche ambientazioni alla D&d. Boschi incantati,
segrete con trappole e così via. Se si deve proprio scegliere,
meglio non descrivere che descrivere male.
Una povera alternativa,
qualunque sia il caso.
Con la graduale
accettazione di George RR Martin e del Fantastico tra le cerchie
della critica letteraria, si è involontariamente fatto entrare il
minimalismo anche nel fantasy. Come in architettura, con conseguenze
tragiche, orrende, disumanizzanti.
Se consideriamo il
minimalismo come la progressiva riduzione all'essenziale e alla
figura geometrica, contrapposto a una presunta “bassezza” dei
dettagli e dell'eccesso (in architettura, in arte, in letteratura...)
è difficile non considerare il fantastico come l'anti-minimalismo
per eccellenza. Descrizioni gonfie, voluttuose, esagerate. L'esotismo
di Howard. L'esagerato worldbuilding di Tolkien. Tanto per citare i
soliti noti. Diamine, si pensi a Gormenghast, di Mervyn Peake. Con un
salto dalle stelle alle stalle, persino Eragon di Paolini non detrae
da un ambizioso sforzo descrittivo e immaginativo.
Cos'è successo,
allora? Il Fantasy ha cominciato ad essere accettato nel mainstream.
Conseguentemente, il grimdark, che era il sotto genere responsabile
dell'operazione, in seguito al successo della serie tv di Martin, si
è lentamente convertito al minimalismo. Niente descrizioni, niente
dettagli: solo dialoghi limati all'essenziale. Come tanti edifici
minimalisti, un prodotto geometricamente e sintatticamente perfetto,
ma povero, senz'anima, sgradevole tanto da abitare quanto da leggere.
Indubbiamente però questo
genere di prosa eterea, tutto stile e niente sostanza, è quanto si
richiede per entrare nel club degli scrittori “adulti”.
Tutto ciò riflette un
generale cambio di direzione che si è realizzato dapprima nel
mainstream e solo negli ultimi anni, dopo un lungo assedio, ha fatto
capitolare con il tradimento la roccaforte del Fantasy. Gli scrittori
più recenti, con la scusa del grimdark, hanno aperto le porte al
minimalismo, che ora imperversa, uccidendo la buona narrativa.
Gardner Dozois faceva ad
esempio notare il profondo esotismo di Howard.
Tuttavia non compie il
passo successivo, ovvero correlare queste lussuriose descrizioni alla
mentalità e al clima dell'epoca, affascinato dall'oriente dai tempi
delle traduzione delle Mille e una notte, non a caso tra le letture
dell'infanzia preferite da H. P. Lovecraft, stando alla biografia di
S. T. Joshi.
In questo periodo, ad
esempio, sto leggendo un diario di viaggio degli anni '30, scritto da
un italiano in Oriente, un tale Mario Appelius. La scusante storica
non giustifica il punto di vista di un fascista razzista e
antisemita, ma ciò nonostante la ricchezza e la vividezza di alcune
descrizioni non ha nulla da invidiare allo Sword&Sorcery
classico. Letteralmente ogni pagina trasuda indicibili sensazioni di
stupore, di stranezza, magie di culture colte e raffinate. Forse
esistenti solo nella mente suggestionata di Appelius, ma cosa
importa! L'effetto rimane stupefacente, nel senso allucinogeno della
parola.
Una battuta di mano! Entrano altri uomini taciturni a rovesciare altri bauli. Questa volta si tratta di pantofole, tutta la gamma pantofolesca dell'oriente, dalle modeste ciabatte di vacchetta rossa adoperate dagli indigeni fino ai ninnoli del maragià fatti di tessuti inverosimili, con fibbie lucenti, con borchie scintillanti, listate d'ermellino e di pantera, foderate di cigno, con sulla punta una gemma, tacchi di cedro, con i tacchi di cristallo, con i tacchi di mosaico, con i tacchi di smalto, senza tacchi, senza punta, a sandalo, a babbuccia, a scarpino, a gondola, a giunca cinese, a colbacco di cavalleria, a tetto di pagoda...
Una prosa mediocre, sia
chiaro: niente più che una vendita di mercanti indiani alla
spedizione di Appelius. Si tratta tuttavia di un esempio adatto a
spiegare come la narrativa di Howard rientrasse nell'interesse verso
l'esotismo del periodo, mentre oggigiorno faticheremmo a trovare
elenchi di questo genere, dove lo stupore deriva dall'accumulo visivo
(in questo caso di pantofole!).
La questione di quanto
quest'ultima generazione di scrittori desideri essere accettata e
quanto invece sia disinteressata a raccontare una buona storia ci
trascina al punto successivo, ovvero la convinzione. Si tratta di
generalizzare, ma nelle ultime opere di Martin e nel fantasy a lui
ispirato davvero sembra mancare quell'entusiasmo di chi crede in
quello che scrive. I dialoghi e le diverse scene sono condotti con
competenza, ma hanno un che' di scialbo, di depresso. Il cuore del
racconto o del romanzo sta altrove e certo non nell'avventura che
dovrebbe essere centrale nello Sword&Sorcery, o nel fantastico
propriamente detto.
Il vuoto pneumatico di
idee allora non può che generare una narrazione cupa e brutale, dove
il realismo martiniano viene perverso al servizio di un nichilismo
gratuito, esagerato, degno di un ragazzino arrabbiato. Ogni amico è
un traditore, ogni ferita una mutilazione, ogni villaggio un paradiso
di fango, ogni mercante un corrotto servitore degli dei oscuri e così
via... sembra che lo scrittore voglia nascondere la sua fantasia
atrofizzata sotto uno strato di sangue e sporcizia. Chiaro, non è
sempre il caso e il ritorno al fantasy da nerd degli inizi '2000 non
sarebbe la soluzione.
Ma non è stancante,
quest'ossessione per la cupezza e il grimdark?
Un fantasy realistico non
deve per forza declinarsi in un esagerato pessimismo.
Sapkowski, con tutti i
suoi difetti e il suo stile dissacrante, ne è un buon esempio.
I
popolani dello scrittore polacco sono pieni di difetti, fisici e
mentali, ma sono persone di buona volontà: osti,
contadini, cacciatori, guardiacaccia che cercano di fare del proprio
meglio. Questo realismo raggiunge il suo apice nell'adattamento
videoludico, dove la cura nell'approfondimento psicologico dei
comprimari, financo alle comparse, li rende simpatici al giocatore,
facili all'affetto. Non ho giocato a The Witcher 3, ma c'era un commovente articolo al riguardo di Pastemagazine. Il low fantasy di Sapwkoski
non gli impediva di creare personaggi sinceramente buoni. Dall'altro,
non si deve nemmeno sbugiardare così il grimdark, che ha larghe
prospettive di sviluppo se abbandona il suo stile da Spaghetti
Western e si evolve nella direzione lovecraftiana di un mondo weird e
grottesco. La saga di Dark Souls e BloodBorne, con i suoi tanti
epigoni, offre in tal senso già una strada possibile, un ramo
evolutivo fecondo.
Concludendo, non dovremmo
forse capovolgere la questione?
Il fantasy degli ultimi
anni non è fantasy, perchè ha draghi e mostri, ma perchè considera
come assunzione di base che ogni singolo abitante del suo mondo sia
in fondo un bastardo senza cuore, ansioso di venderti la madre e
tagliarti la gola per qualche spicciolo. Questo esagerato pessimismo,
questo nichilismo senza sbocco è molto più fantasy di tutto il
genere fantastico messo assieme.
Un fantasy dove il suo più
celebrato elemento realistico è proprio il suo elemento più
fantastico: un capovolgimento degno di Slavoj Zizek.
6 commenti:
Ho letto l'articolo come un esame di coscienza e, grazie al Cielo, scrivendo credo di non peccare di "spaghetti fantasy" :-D
@AlessandroForlani
Ogni volta che leggo "spaghetti fantasy" mi viene fame...
Sicuramente sull'aspetto delle descrizioni non pecchi di descrizioni eccessivamente scarne o linguaggio minimale! :-)
Mi sono venute in mente, nel leggere l'articolo, le storie di Kull di Valusia che Howard scrisse prima di abbandonarlo del tutto e passare a un più "definito" Conan.
Oltre alle tre storie che sono state pubblicate su Weird Tales, sono interessanti tutti quei frammenti e quei racconti a contorno, dove Howard tentava di trovare qualcosa che prima di allora non aveva ancora una definizione, eccedendo in alcuni aspetti citati nell'articolo, proprio al fine di "testarli".
L'eccesso di descrizione, l'eccesso di dialogo, la componente filosofica, la pura azione. L'equilibrio, probabilmente, sarebbe arrivato dopo, ma la voglia di sperimentare, di provare, di tentare era il motore di molta della sua prosa che - giustamente - oggi è storicizzata e serve solo a ricordarci la parte nascosta dell'iceberg.
Sperimentare nel fantasy, ancora di più oggi, è condizione necessaria per divaricare e scardinare il genere e portarlo verso lidi che non siano trasposizioni in parole più o meno dettagliate di narrazioni videoludiche.
Forse, prima di pubblicare qualunque cosa, è necessario costruire quell'humus fatto della stessa materia delle "prove tecniche di trasmissione" di Howard.
La volontà ansiolitica di essere accettati nel pantheon degli scrittori è di certo una motivazione sottesa alla base di tanta stanca omologazione nella prosa.
Leggo sempre con interesse articoli come questo.
D'
@Giuseppe Franco
Benvenuto sul blog!
Sono pienamente d'accordo sull'idea di preparare un "humus" di frammenti su cui far crescere una pianta robusta di racconti e romanzi, senza invece crearla da zero, pretendendo che una quercia spunti dalla nuda roccia.
I migliori universi fantasy si sono venuti a formare gradualmente, strato dopo strato, racconto dopo racconto, senza proporre dal nulla un universo fatto&finito.
... e la cosa straordinaria è quanto Kull di Valusia rimanga comunque leggibilissimo, anzi migliore di tanta robaccia oggigiorno! :-D
Questo tuo articolo cade proprio a fagiolo, visto che proprio recentemente stavo riflettendo sul fantasy attuale. Ultimamente vedo poca originalità, lo vedo chiuso sempre in quei tre-quattro stilemi.
@Marco Grande Arbitro
Il Fantasy, più dell'horror o della fantascienza, tende molto a ripetersi, per cui ha bisogno di rinnovarsi ogni tot anni, altrimenti si ricade in quei tre/quattro stereotipi.
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