Mi sono sempre chiesto se certe caratteristiche, nel bene e nel male, degli autopubblicati siano veramente attribuibili alle edizioni elettroniche o semplicemente riflettano atteggiamenti di chi intraprende questa strada.
Il libro in questione, “FantaTrieste” (1973), di Luigi R. Berto, è chiaramente un autopubblicato.
Luigi R. Berto (1913-1983), a volte noto come “Giulio Bert”, è stato un grande scrittore della fantascienza triestina, oggigiorno completamente dimenticato.
In seguito a una formazione in geologia e mineralogia, tra gli anni '50 e '60 si dedicò con passione all'astronautica e alla fantascienza, divenendo attivo divulgatore delle imprese dei pionieri dello spazio. Pubblicò sul “Piccolo” una storia della fantascienza a puntate, per attirare interesse verso il primo omonimo Festival a Trieste; in seguitò pubblicò numerosi racconti sulla rivista romana “Oltre il Cielo – Missili&Razzi”.
Fondatore per suo conto di un “Centro diffusione scienze astronautiche e tecnologie dello spazio”, intraprese poi la durissima strada dell'autopubblicazione cartacea pubblicando diversi racconti e antologie con lo ciclostile, in seguito inviati agli interessati per mezzo di posta.
Forse il suo maggior successo di divulgatore fu una mostra organizzata al CCA di Trieste sullo Spazio, con fotografie e modellini, rivolta verso quanto ci si augurava il futuro dell'umanità.
Negli ultimi mesi sono giunto a conoscenza con un gruppo di scrittori e blogger triestini di fantascienza, chiamato “FantaTrieste”, e nell'ambito di un progettino di scrittura che coltiviamo da tempo ci è sembrato benaugurante recuperare quest'antologia nostra omonima. Fabio Aloisio, finalista all'Urania Shorts 2017 e Robot 2018, è stato così gentile da prestarmi il volume consunto e non sono riuscito a trattenermi dal recensire quest'autentica capsula temporale dal 1973.
Sono, nella definizione stessa dell'autore, tutti racconti di fantascienza ambientati a Trieste, infatti come Luigi R. Berto spiega, “Nella stragrande maggioranza dei casi i racconti di Science Fiction si svolgono sullo sfondo di vasti spazi siderei, oppure in quelle megalopoli che si chiamano Londra, Parigi, New York, ecc... , oppure ancora in paesi e paesotti esotici. Nulla da eccepire; è nella stessa natura di questo tipo di narrativa. Tuttavia anche in racconti che si svolgono vicino a noi, il nome di Trieste non compare.”
Tre elementi caratterizzano questa raccolta e la differenziano dalle tante antologie “moderne”.
In primo luogo, la natura di autopubblicato assicura una certa originalità alle storie, in molti casi superiori a tante opere pretenziose lette negli ultimi anni. Le idee, specie considerando il 1973, sono tante e buone. Voler raccontare una bella storia, scriverla e pubblicarla sono qui un tutt'uno, senza intermediari o attese: in tal senso è davvero nello spirito degli autopubblicati.
Dall'altro, proprio la scelta “in proprio” rende questo volume un tracollo continuo di virgole mancanti, correzioni, editing assente; anche se va sottolineato, a differenza degli scrittori odierni, quanto meno Luigi R. Berto non fa errori di battitura nella quarta di copertina...
In secondo luogo il linguaggio oscilla da una padronanza dell'italiano umiliante oggigiorno, ricca d'inflessioni, d'un vocabolario nutrito di una dieta classica, a curiose infiltrazioni dialettali, a espressioni colloquiali nei dialoghi all'epoca comuni, ormai bizzarre. Ad esempio uno dei protagonisti cerca “roba nel frigo” e tutti ripetono “Benone!”. Le battute di dialogo poi sfiorano le pagine intere, assolvendo a uno show, don't tell unicamente verbale.
Infine, concludendo, l'antologia è affascinante nel ritratto che offre di Trieste, trasposta di volta in volta nel futuro e nel passato. L'autore, già negli anni '70 con una certa età (1913), mescola e diversifica i generi, con una carrellata molto varia, dal distopico, all'ottimista, alla fantascienza come speculazione scientifica. Tuttavia se i racconti sono protesi nella parte “scienza” al futuro, nella storia e nei personaggi, sono ancorati nel pulp e nell'intrattenimento, con scontri, duelli e inserzioni di elementi propriamente fantastici, come i miti nordici. La Trieste ritratta pertanto diventa “mitologica” (Terges-te) o fantasmatica o apertamente distopica, senza tuttavia mai perdere una bellezza naturale, legata al mare e al Carso.
Si parte con “Processo nel futuro”, racconto di viaggi nel tempo afferente più all'ambito dell'avventura meravigliosa che alle sottigliezze spazio-temporali.
In un remoto futuro, in una Trieste che si intuisce futuristica senza essere irriconoscibile, la razza umana ha trasceso ogni barriera e vincolo, conquistando l'immortalità, sconfiggendo le malattie e viaggiando tra i pianeti. Un unico cruccio tormenta i saggi di quest'umanità tanto superiore: da tempo, una catena di delitti, incomprensibile in una simile era di pace, tormenta la civiltà umana. Senza ragione, questi umani così perfetti, così evoluti si abbandonano al peccato di Caino. Il Capitano Norvan di Marte viene incaricato di viaggiare indietro nel tempo, fino agli albori dell'umanità, per scoprire quale “tara” genetica continui a causare, millenni in avanti, l'atavico impulso all'uccidere.
Norvan, approdato così alla preistoria, dove un tempo sorgerà Trieste, visita la grotta di Pola e nell'occasione difende una tribù umana da una razza di australopitechi. Si tratta di mangiatori di carne umana, coniugi degenerati. Così facendo, viola una delle principali direttive degli Esploratori Temporali, ovvero mai interferire, mai stringere contatto con gli eventi del passato. Da quel momento in poi, complice una storia d'amore con una bella neandertal, chiamata Ekaela, Norvan si adopera per far crescere e maturare quella tribù: sarà grazie ai suoi sforzi che verranno costruiti i primi castellieri del Carso.
La storia si dipana con due diversi piani temporali: il processo, a lui intentato nel futuro, e le sue disavventure nella preistoria del Friuli Venezia Giulia.
Storia avventurosa e con un colpo di scena insospettabilmente crudele nel finale, capace di annoiare negli interminabili dialoghi del processo, ma abile nel tratteggiare la vita degli uomini preistorici. Luigi R. Berto tende a idealizzare la vita di queste tribù, a cui guarda con una certa simpatia. Norvan dimentica i suoi apprendimenti, la sua “civiltà” superiore e si abbandona con gioia alla vita del cacciatore-raccoglitore, aiutando con la sua superiore conoscenza a far evolvere la “sua” tribù di primitivi triestini.
La macchina del tempo, un “ovoide”, viene descritta senza badare a spese e senza indietreggiare dalla scientificità del mezzo.
La connessione fra il geoscopio ed il localizzatore automatico fu rapidissima. La sonda plastica uscì veloce dalla guaina metallica penetrando con uno scatto nella sabbia morbida e fine. Norvan regolò il quadrante segmentato e premette un pulsante. Una luce diafana si allargò dalla sonda e rese luminescente tutt'intorno il terreno per un raggio di una decina di metri. L'indice del quadrante si mosse verso la linea rossa, oscillò un momento e poi si fermò con un secco rumore. Il piccolo localizzatore impazzì e Norvan avvertì nella mano altissime vibrazioni, mentre le cifre andavano a sistemarsi in ordine perfetto. Con impazienza attese i risultati. La lettura attenta degli apparecchi gli ridiede la calma. Si trovava alla latitudine di circa 45' Nord ed alla longitudine di 14' Est, nell'Eocene inferiore dell'Era Cenezoica.
La tribù è convinta come Norvan sia un dio e lo sciamano del gruppo lo chiama Terges-to, come l'antico nome di Trieste, Tergeste, in realtà derivato dal “terg” del dialetto veneto, che significa “mercato”, a simboleggiare la natura di porto-città da sempre caratteristica del capoluogo.
Dai viaggi nel tempo alla commedia: con “Picto”, Luigi R. Berto racconta le avventure di un ladruncolo di strada, che in fuga dalla polizia, sull'erta di “via dei Porta”, si rifugia in una casa.
Il proprietario ha un'astronave interdimensionale capace di viaggiare tra i pianeti dalla comodità del proprio salotto, costruita dallo zio, in seguito disperso. Per poter funzionare, la navicella abbisogna però di due conducenti, l'uno a bordo, l'altro sulla Terra, a manovrare i comandi...
Sotto la minaccia di una denuncia alla polizia, Picto è costretto a salire a bordo, con destinazione il pianeta Marte.
Una storia genuinamente comica, che mi sono divertito parecchio a leggere, nonostante le tante digressioni e alcune estenuanti descrizioni del cibo. Picto è un ignorantello, un furbetto che cerca di cavarsela al suo meglio. Il pianeta Marte risente dell'influenza dei moduli burroughsiani: ci si può camminare senza problemi, con il solo ausilio di una bombola, a causa di un'aria “un po' rarefatta”.
In tal senso l'elemento scientifico mi è parso derivante dagli anni '30, specie nel (divertente) colpo di scena.
La conclusione, ottimisticamente previdente di un viaggio su Marte nei prossimi anni, desta tristezza, se confrontata con la situazione attuale:
GRANDE ATTESA PER IL CONT DOWN – AMERICANI E SOVIETICI INIZIERANNO FRA QUALCHE GIORNO LO STORICO VIAGGIO FINO A MARTE – PER LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA DELL'UMANITÀ UNO O PIÙ UOMINI SBARCHERANNO SU UN ALTRO PIANETA – QUANTO COSTA L'ECCEZIONALE IMPRESA.
Da notare l'errore nell'anglicismo, “Cont”, invece di “Count”.
“Il sesto lato dell'esagono” procede con il salto di sottogeneri caratteristico della raccolta, passando dal comico al distopico nerissimo, insolitamente pessimista per essere un'antologia anni '60 e '70. Ancora una volta a Trieste, ancora una volta nel futuro, la specie sapiens sapiens è insidiata dagli “anomali”, passo successivo nell'evoluzione umana, dove l'uomo non è più individuo, ma si sviluppa come uomo-gruppo, una singola cellula sociale composta da sei esseri umani, per l'appunto i sei lati dell'esagono del titolo. Un'Unione Europa borderline col fascismo, governata con pugno di ferro, è alla continua ricerca delle “eccezioni”, degli “anomali”, in modo da poterli eliminare come minaccia alla propria specie. Il protagonista, Massenzio Griver, scopre, in una passeggiata dal Giardino Pubblico alle Rive, di essere il “sesto” lato di un esagono, uno degli anomali suo malgrado. Ogni lato dell'esagono assolve a una specifica funzione; nel caso di Massenzo egli è la mente, l'anomalo dall'eccezionale potere psichico. Questo sarà il primo passo di una catena di eventi che porterà i perseguitati “anomali” a fronteggiare finalmente i loro brutali cugini “umani”...
La bellezza di una Trieste sostanzialmente molto simile all'abitato urbano degli anni '70 viene contrapposta da Luigi R. Berto a un clima di repressione e caccia alle streghe.
- Ogni specie sulla via del tramonto si difende come può. Gli umani si insospettirono. Cominciarono a schedare i nostri padri, a bloccare ogni loro attività, a richiuderli nelle riserve. Poi iniziarono una vera e propria persecuzione. Per sfuggire ai controlli abbiamo dovuto ricorrere ai più disparati sotterfugi, altrimenti ci avrebbero distrutti. L'umanità che ci precede è feroce e priva di alcun scrupolo. Chi veniva scoperto aveva un terribile destino nei laboratori sperimentali. La nostra vita era complicata dal fatto che ignoravamo della necessità di unirsi in gruppo per manifestare tutta la nostra potenza. –
Come mi ha fatto notare Fabio Aloisio gli anomali sono identici agli X-Men, a tutti gli effetti una versione triestina dei supereroi americani.
Mi chiedo se Luigi R. Berto leggesse i fumetti...
L'antagonista, degno epigone di un cattivo da cartoon, ha in effetti il suo “castello” in una tana sotterranea nel colle di S. Giusto (città alta), confermando quest'impressione:
Anton Gioano Alma, il potente Capo della Polizia Intereuropea, risiedeva da anni a Trieste, ma pochi sapevano che egli abitava nella città alta in una splendida villa circondata da un magnifico parco. Parco e villa però, servivano solo a mascherare la vera tana del lupo, una ciclopica costruzione posta a quattrocento metri sotto il suolo e dove in continuità, notte e giorno, ronzavano strani apparecchi e misteriosi congegni, attorno ai quali s'affaccendavano numerosi tecnici altamente specializzati.
Il racconto tuttavia colpisce a fondo quando si tratta di descrivere una civiltà stagnante, ferma, immobile, un turbo capitalismo coniugato a tendenze autocratiche.
Tuttavia, ancora una volta, Luigi R. Berto esprime tutto ciò con una serie di dialoghi esageratamente farraginosi:
- Da molti particolari. La specie attuale, lo ripeto, è sulla via del tramonto. I grandi slanci eroici del passato si sono esauriti. Le droghe di cent'anni fa sono state sostituite dall'azione più subdola degli stimolatori di estasi artificiali. Le donne, tutte, rifiutano la maternità oppure affidano dopo qualche mese di gravidanza i frutti della loro carne a pseudouomini che si prestano, per avidità di denaro, a ospitare, per via chirurgica, nelle proprie viscere i nascituri. Inutile parlare dei maschi, ridotti ormai alle pure funzioni di bambolotti di piacere. Il novanta per cento dei neonati è psichicamente tarato. Queste sono le prove che è stato più speso per propagandare la libertà che per rendere veramente liberi gli uomini. In pratica sono diventati schiavi di un sordido condizionamento, che ha schiacciato l'individuo senza elevarne moralmente le comunità. E se nell'arte sono stati dispersi tutti i valori creativi, nelle tecnologie siamo addirittura nel ridicolo. Farò un solo esempio: Ricordate gli entusiasmi del secolo passato quando iniziarono l'esplorazione dello spazio? Si trattava di propaganda di certe nazioni, di espressioni di potenza, di prestigio, d'accordo. Però capaci di scuotere l'animale uomo. Subito seguì una paurosa involuzione ed oggi girano attorno a noi quei rottami metallici che soltanto gli imbecilli si ostinano a chiamare pomposamente “astronavi”.
La fantascienza ambientalista fa capolino con chiari intenti morali in “Acqua per Lember”, dove un uomo proveniente da un altro pianeta visita una famiglia in Carso, chiedendo aiuto per la sua gente: in seguito a una catastrofe il suo luogo d'origine non ha la più singola goccia d'acqua, al contrario della Terra, globo terracqueo per eccellenza.
Quanto segue è il resoconto di una civiltà umana che si era spinta fino alle stelle, salvo sfruttare le proprie risorse per perpetuare un'economia talmente consumista da far sembrare un Mac Donald il rifugio del Dalai Lama. I pianeti sono stati saccheggiati, svuotati fino all'osso, l'economia è stata sottoposta alla crescita più rapida immaginabile, con la conseguenza di un contraccolpo ambientale sul pianeta “madre”, Lember, dove per il collasso ecologico si sono ritrovati senz'acqua. L'uomo in effetti proviene da una delle poche enclavi sopravvissute alla distruzione del pianeta, decaduto in una barbarie post apocalittica.
Luigi R. Berto dimostra una profonda sfiducia nella sua classe politica, tanto sulla Terra quanto su Lember, con una conclusione insospettabilmente pessimista, nonostante un happy end appiccicato poi con lo scotch della cattiva narrativa.
Qualcuno ha detto... Trieste Science+Fiction? ;-) |
“I sacri giorni della grande macchina” continua invece il filone distopico, anche se vi innesta una divagazione metafisica, con relativo finale. Racconto altalenante, dove l'incipit (quasi) comico cede poi il passo a una narrazione progressivamente più drammatica.
In un futuro prossimo, la popolazione è cresciuta a ritmo tale da costringere le diverse città ad avere ciascuna una “Grande Macchina”, un conglomerato industriale capace di produrre per suo conto il cibo sintetico necessario al fabbisogno della popolazione. L'élite, quanto oggi è l'1%, vive in lussuose ville, mentre tutti gli altri si affannano in una Trieste disperatamente sovrappopolata. Le diverse città sfogano l'ansia e la rabbia dei cittadini con una competizione incentrata sulla propria “Macchina”. Chi ha la macchina più grande, più bella, più produttiva, ha maggiore prestigio.
Il protagonista, “Costruttore”, diretto responsabile della “Macchina”, è un uomo convinto del sistema fino quando scopre, un po' per caso, un po' per curiosità, un'orribile verità sul funzionamento del cervello meccanico alla base della vita del capoluogo.
Il racconto è nella tradizione di 1984, ma possiede anche elementi di satira sociale e comicità pura – il protagonista ad esempio è dipendente da un gas esilarante noto come “Pip” – e ha più di un debito verso il romanzo e correlato film degli anni '70, “2022: i sopravvissuti”, o “Largo! Largo!”.
Tuttavia vi è qui presente un elemento “alieno” che funziona da passepartout narrativo della vicenda, risolvendola per il meglio.
Uno degli aspetti più affascinanti per il lettore moderno, specie se triestino, è la descrizione di Trieste:
S'alzò e lo sguardo gli cadde sul grande pannello tridimensionale che campeggiava alle sue spalle. Quel quadro gli piaceva, gli ridava la calma allo spirito. Un panorama di Trieste dell'anno 1980, quando la città aveva appena trecentomila abitanti. Le case strette le une sulle altre, il disordinato via vai di quelli strambi veicoli a motore, la cappa di fumo sugli edifici grigi, un mare di sporco di mille porcherie. E gli abitanti vestiti come tanti artisti di varietà. Dovevano essere beati quei tempi del passato.
Adesso invece la città contava due milioni d'anime.
Si stendeva dal mare, al quale aveva rubato una vasta porzione della sua superficie, all'ampio altopiano che una volta si chiamava il Carso. Era stato questo un vero mare di pietra calcarea, pieno di buchi, di grotte e caverne, giustamente vinto dagli esteti e pianificatori che lo avevano bonificato trasformandolo in zona residenziale riservata ai cittadini di censo cospicuo. La gente comune godeva la vista degli alberi e delle erbe della regione al Museo di Storia Umana, accanto alle lepri, alle starne, ai colombi selvatici, ai fagiani, ed ai caprioli, tutti imbalsamati. Gli edifici della città avevano raggiunto altezze di cento, duecento metri ed ospitavano migliaia di famiglie in appartamenti che i pessimisti giudicavano piccoli, ma cinque metri cubi d'aria per persona sono più che sufficienti, specialmente se si tengono aperte le finestre.
La Trieste moderna non rassomigliava certamente a quella del passato. Smembrata e rimembrata più volte per dare posto all'invasione sempre più pressante dei veicoli a motore, una cinquantina d'anni prima era stata quasi completamente riedificata ed i veicoli privati e pubblici sostituiti da corsie mobili. Così si andava da un capo all'altro della città montando su una pista metallizzata che portava direttamente alla destinazione prescelta.
Una brusca virata dalla scientificità dei racconti precedenti all'urban fantasy che si maschera da fantascienza: è il caso del penultimo racconto dell'antologia, “La spiaggia dei dimenticati”.
Sieg, un soldato di leva della Wehrmacht, si è riciclato nella Trieste sotto occupazione anglo-americana del 1946 come tuttofare e aiutante, fingendosi “Mario Veris da Pola”. Gli inglesi non sanno infatti distinguere tra il suo italiano zoppicante e il triestino. Nelle precedenti battaglie Sieg è sempre sopravvissuto, vedendo i suoi compagni di plotone cadere uno a uno, senza eccezione: come se qualcosa, una maledizione, un dono, avesse scelto di proteggerlo da ogni danno.
Scelto come guardia alle spiagge di Sistiana, Sieg sperimenta diverse notti insonni quando apparizioni di spiriti e fantasmi lo tormentano con incubi e strani rumori.
La verità di questi fenomeni soprannaturali si rivelerà presto qualcosa d'alieno e imprevedibile, che cambierà per sempre la vita del giovane teutonico.
Il racconto parte molto bene, con l'affascinate descrizione della Trieste del 1946, con qualche dialetto triestino, inframezzato dalle espressioni inglesi e dalle riflessioni dell'ex soldato dell'Asse.
La città gli piaceva. All'aria mediterranea si mescolava un tantino di nordico. I veri triestini, gente pratica, socievoli, punto incline al pessimismo, erano caustici, forse un po' rudi, ma cordiali, ospitali, con qualche nostalgia della passata grandezza sotto l'antico Impero. Quasi tutti gli anziani sapevano esprimersi in più di una lingua. Una città di confine, una finestra aperta sul mondo.
Il passaggio dall'elemento quotidiano al soprannaturale e da quest'ultimo alla “scienza”, nella forma della civiltà “dimenticata” nella tradizione di Atlantide, si trascina un po' troppo. In definitiva, come con il primo racconto dell'antologia, si sente qui il peso degli anni. La scelta di un protagonista tedesco, la Trieste del 1946 e i richiami alla mitologia nordica concorrono comunque a renderlo il secondo racconto più interessante, dopo “Il sesto lato dell'esagono”.
“Potere Risolutivo” infine conclude l'antologia, con un fuoriclasse: si tratta di una storia premiata alla Quinta Edizione del Premio Letterario Regionale 1972 e appare l'unica a trasgredire alla regola di essere ambientata a Trieste.
Un futuro tanto lontano da risultare inimmaginabile presenta a fronteggiarsi due creature, penultimo step prima della fine dell'evoluzione, ovvero la “Grande Creatura” coincidente con l'universo.
Humb, il protagonista, un'informe creatura multi dimensionale, capace di comandare intere galassie con la sua forza, è votato all'entropia, all'eliminazione non solo di ogni forma di vita, ma di ogni materia fino al nulla più assoluto.
Il suo nemico, unica potenza alla pari, è Bahari, un altro alieno che domina su intere galassie, sostenitore della Creazione come fine ultimo. Il suo obiettivo è l'espansione, la crescita, un'evoluzione incontrollata fino all'apice assoluto, la “Grande Creatura”.
Al contrario, Humb ha osservato la sofferenza connaturata all'evoluzione e come un Leopardi alieno, ne ha compreso il dolore, la crudeltà di natura matrigna. Il suo obiettivo è far cessare questa eterna sofferenza con la scomparsa di tutto: dai pianeti, alle stelle, fino al tessuto stesso della realtà. La breve storia è letteralmente il resoconto di questo scontro titanico e nonostante risulti verboso e impossibile da immaginare, non si può non applaudire la fantasia di Luigi R. Berto.
Una buona conclusione per questa capsula temporale dagli anni '70.
Di seguito, per gli accademici e i più curiosi, ho scannerizzato le immagini interne al volume, compreso il catalogo auto prodotto della casa editrice di Luigi R. Berto (introvabile):
2 commenti:
Grandioso recupero! Una chicca del genere, se l'avessi trovata in vendita su una bancarella, sarebbe stata sicuramente mia! E' anche vero che il ciclostile, per come lo ricordo io avendo frequentato le scuole primarie in quegli anni, era proprio orrendo: pagine troppo chiare o troppo scure... in ogni caso illeggibili e puntualmente, come vedo nelle foto che hai postato, stampate storte. Negli anni Settanta un'antologia del genere sarebbe finita diritta nella spazzatura senza nemmeno la concessione di capirne il contenuto ... oggi è roba da collezionisti.
PS: Davvero curioso l'uso dell'anglicismo (anche se errato, non importa). Mi sarei aspettato il tutt'altro che disprezzabile "conto alla rovescia", soprattutto da un tizio che ha ristretto i confini della fantascienza a livello locale
@Obsidian Mirror
Benvenuto sulle Cronache, Obisdian!
Ho visto appena adesso il tuo commento, perdona. Il volume è una vera gemma d'antiquariato, tant'è che nella biblioteca civica di Trieste l'unica copia disponibile è aperta solo alla consultazione sul posto, proprio per lo stato pietoso dell'elaborato.
Ti dirò, il libro era più che leggibile, anche se le pagine erano leggermente storte e il colore giallognolo. Le immagini erano tutto sommato apprezzabili, anzi, ho visto ben di peggio nell'ambito delle autoproduzioni degli anni Novanta. Luigi R. Berto aveva anche pubblicato un secondo volume slegato da Trieste e ambientato su Marte, "Rossi deserti lontani".
L'anglicismo è curioso, ce ne sono poi altri nei diversi racconti. Probabilmente - mia illazione - era un appassionato lettore di riviste scientifiche e materiale anglosassone sulle scienze astronautiche.
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