E' usuale pensare per chi non ha mai usato il mercato dell'usato, che
si trovino occasioni e offerte al di là di ogni realistica
previsione. Libri antichi gettati nella spazzatura. Grimori antichi
smarriti sugli scaffali a un euro. Lampade magiche. Tappeti volanti.
Venditori onesti.
Ora, non ho idea sul mercato dell'oggettistica.
Sono solo un povero
blogger che dalle superiori all'università passa molto del suo tempo
nelle rigatterie alla ricerca di libri interessanti. So ad esempio
che gli abiti, ammesso e non concesso che siano convenienti,
risultano spesso impraticabili, perché sempre troppo piccoli, troppo
stretti, troppo angusti. Avevo un collega che amava indossare vestiti
degli anni '50 e pur essendo di corporatura, altezza e peso nella
media, falliva nell'indossare più della metà degli abiti che
trovava. Dal 1950 in giù, l'essere umano era uno gnomo, un nano
macilento. Basti guardare le foto dei soldati inglesi nella seconda
guerra mondiale: una vasta parata di tisici, di facce esangui, di
dita scheletriche, di mustacchi spelacchiati. I corpi cambiano a
seconda dei decenni, è un dato da considerare con attenzione tanto
nello studio quanto nella ricostruzione di film e romanzi.
E i libri. Oh, i libri. La quantità di libri in arrivo nelle
rigatterie supera di gran lunga qualsiasi livello di assorbimento del
lettore più inveterato. Migliaia su migliaia di tascabili. Colonne
di Harmony. Scaffali su scaffali accatastati di manuali di medicina
degli anni '60, di politologia sovietica degli anni '70/'80 e di
gossip e tormentoni politici del secondo dopoguerra di scarso
interesse allora e di nessuno oggigiorno. Testi già vecchi in
partenza, buoni solo l'innesco del focolare.
Si trovano ovviamente gemme e curiosità rare, sfuggite all'aumento
di prezzo del rigattiere, mimetizzati nell'intersezione tra il
romanzo americano “più venduto negli ultimi dieci anni” e ora
dimenticato e l'ennesima auto produzione italiana tutta vanagloria e
niente sostanza. Ho acquistato saggi di storia a un euro altrimenti
fuori produzione e disponibili solo in biblioteca, così come ho
trovato a poco meno di tre euro “Il Corvo” nella prima traduzione
italiana di fine anni '90. Sono certo buoni affari, ma solo perchè
si è personalmente interessati; non si tratta di un'oggettiva
qualità rivendibile.
Passando all'argomento dell'articolo, la scorsa settimana ho dovuto
traslocare diverse casse di cartone di un lascito ormai abbandonato:
il proprietario esplicitamente ha detto che non gli interessavano più
e che io e miei colleghi di volontariato dovevamo buttar via tutto il
malloppo.
Un'occhiata alle casse ha distrutto ogni nostra speranza: niente
manufatti aztechi, niente Necronomicon, niente libri, niente riviste,
ma... quotidiani. Quotidiani catalogati e conservati con cura
maniacale dal 1970 al 1990. Mi domando, mi chiedo, mi scervello...
quale forma mentis porta una persona a conservare i
quotidiani? Se devi fare ricerca, ci sono gli archivi liberamente
disponibili in biblioteca. Chi andrebbe a rileggere per divertimento
notizie di cronaca e politica, del meteo e dello sport, di uno, due
decenni or sono? Non ha il minimo senso. Cioè, comprendo le riviste
illustrate, sono il primo a collezionare i national geographic
del 1980, ad esempio... ma i quotidiani. E' carta da macero.
Letteralmente.
Tra queste tuttavia ho trovato il primo numero di una rivista
italiana dall'aspetto curioso: “Virtual”. 1 settembre 1993, 6000
lire, colorata, buona carta e buona impaginazione e una vasta
collezione di articoli, saggistica e interviste. Una rivista
sorprendentemente densa, se confrontata con le uscite anemiche delle
poche riviste cartacee sopravvissute in circolazione.
“Virtual”, agli albori del 1990, si occupava della realtà
virtuale e delle sue possibili applicazioni. Si fantastica dentro
questo primo numero sui molteplici mondi prospettati dall'avvento
tecnologico, sulla liberazione dell'umanità dal reale e dai suoi
legacci, dalle rivoluzionarie applicazioni nel campo educativo della
realtà virtuale.
Il tono generale è ottimista, ma viene temperato dalle origini
cyberpunk di molti dei redattori, così come dalla ricchezza
compositiva dell'insieme: non si indietreggia di fronte ai problemi
più complessi, non ci si abbassa al sensazionalismo, ma si cerca di
comprendere le possibili diramazioni della realtà virtuale.
Scarso interesse riserva in quest'ambito confrontare le previsioni
sulla realtà virtuale del 1993 con le continue sconfitte del
presente nel 2018. “Virtual” fa lo stesso effetto sul lettore di
una rivista di fantascienza degli anni '50, di un romanzo di Verne,
di una Dime Novels vittoriana sulla vita nel '2000. Il suo fascino
sta nell'essere irrimediabilmente datata. I panorami virtuali
descritti e ritratti con crudi programmi di grafica digitale hanno
maggiore originalità di tanta arte fotorealistica disponile oggi
giorno ed emergono agli occhi del lettore come alieni e “freschi”.
Quando il futuro appare bloccato, è sempre una buona idea tornare nel
passato, nella sua idea di “futuro”, e usarla per procedere nel
presente. Il brutalismo del 1970 era un futuro architettonico certo
più interessante dell'abuso di vetrate e materiali scadenti del
2018; le concezioni socialiste del movimento Arts And Crafts di
William Morris (inizio '900) si adattano certo meglio a Kickstarter e
alle stampanti digitali 3D dell'industria in serie altrimenti
trascinata a forza dal ventesimo secolo. Si dovrebbe recuperare dei
diversi periodi storici i diversi “futuri” da loro prospettati,
rivitalizzando così situazioni altrimenti stagnanti e senza
(apparente) via di sbocco.
Retrofuturismo, in altre parole.
Ho scelto di trascrivere dalla rista tre passaggi sulla realtà
virtuale di tre diversi autori.
Avrei voluto citare almeno uno dei
professori italiani intervistati sulla rivista, ma senza voler
atteggiarmi ad esterofilo, sembrano confondere già nel 1990 la
realtà virtuale come “fuga” dalla realtà o addirittura, come in
alcuni casi, come realtà paragonabile a quella delle droghe.
Realtà virtuale e videogiochi: una combinazione tradizionalmente
immancabile.
Warren Robinett è stato il designer nel 1979 della prima avventura
grafica per l'Atari 2600: “Adventure”. In seguito al rifiuto
dell'Atari di riconoscere il suo contributo al gioco nascose una
stanza segreto con il suo nome e cognome dentro il gioco, dando così
vita al primo easter egg della storia. Dopo aver fondato una sua
compagnia, “The Learning Company” (1980-1995), ha lavorato su
progetti di realtà virtuale per conto della NASA e dell'Università
della Carolina del Nord.
E' una testimonianza interessante, perchè sembra concordare con la
convinzione di Elon Musk che l'uomo sia destinato ad auto
potenziarsi, a fondersi con la tecnologia come unica alternativa a
una schiavitù sotto l'intelligenza artificiale.
Nell'eccitazione per questo nuovo oggetto chiamato “realtà
virtuale”, non dobbiamo dimenticare che esso ha alle spalle una
tradizione secolare di costruzione di mezzi destinati a sviluppare le
nostre facoltà mentali. Il casco per la visione stereotipica (HDM)
offre alcune nuove stupefacenti possibilità, ma anch'esso è figlio
di questa tradizione. Queste possibilità sono stratagemmi
tecnologici per accrescere la memoria, la percezione e
l'immaginazione umane. Non possiamo vivere senza i nostri
dispositivi, quindi siamo cyborg. Gli occhiali, gli apparecchi per
l'udito, i telefoni, gli utensili e le automobili di oggi possono dar
luogo a mezzi più potenti, ma oggi e domani essi sono e saranno
parte di noi.
Oggi non potremmo “funzionare” senza i nostri mezzi, non più di
quanto potremmo funzionare senza i batteri nello stomaco. L'immagine
del cyborg – metà uomo, metà macchina – evoca la paura di
potenti, intelligenti e inumane creature. Ma il telefono rende meno
umani? E la fotografia? La parola scritta? La Tac? Io non credo.
Lo sviluppo elettronico delle facoltà umane fisiche e mentali lascia
la nostra umanità, la nostra etica e il nostro giudizio intatti e
sotto controllo. Una possibile immagine del futuro contempla un
essere i cui sensi e i muscoli sono molto amplificati, un
decision-maker umano, consapevole e potente. Secondo una
visione antagonista, proveniente dall'intelligenza artificiale, il
futuro è un robot super intelligente, autonomo, imperscrutabile e al
di là della possibilità di controllarlo.
Queste sono le due plausibili direzioni sulle quali lo sviluppo della
tecnologia può incamminarsi. Personalmente, ritengo di gran lunga
preferibile essere un cyborg con il controllo della situazione, che
la mascotte di un robot.
Jeffrey Shaw è stato uno dei primi artisti a utilizzare la realtà
virtuale all'interno d'installazioni semi-permanenti. Una componente
non da poco nella storia della Museologia degli ultimi trent'anni.
“Virtual” ha l'indubbio merito di riconoscere, all'interno di
questo primo numero, ampio spazio e riconoscimento tanto agli
scienziati quanto agli artisti che hanno reso possibile “concepire”
la realtà virtuale come veniva immaginata tra il 1980 e il 1990.
Ho scelto il seguente passaggio per il paragone verso la cultura
dell'estremo oriente, che ritengo tutto sommato azzeccata.
Il mondo ci appare alla luce di quelle finzioni che proiettiamo
sulla sua superficie. Se le culture orientali hanno da sempre
riconosciuto l'importanza di queste proiezioni, il mondo occidentale
ha invece idolatrato la “realtà virtuale” che aveva creato,
chiamandola “oggettiva” e separandola dalla mente dove quella
stessa realtà si era formata. Questa sorta di “complotto” ci
pone come osservatori e consumatori (e in qualche modo anche
“saccheggiatori”) di un modello del mondo coercitivo.
Paradossalmente, i recenti e rivoluzionari sviluppi delle tecnologie
di realtà virtuale sono radicati in questo complotto. Spinta dalla
necessità di dare una sostanza all'immaterialità dei suoi desideri,
la nostra cultura materialista è stata costretta a inventare una
tecnologia che potesse incarnare le finzioni con lo stesso realismo
oggettivo proprio del tradizionale e coercitivo modello della realtà.
Ma questo potere di simulazione è anche in grado di invertire il
meccanismo, facendo scomparire il reale sotto un diluvio di artefatti
iperreali. L'arte ha sempre combattuto contro il “complotto” di
una realtà oggettiva. L'efficacia simulatrice delle nuove tecnologie
offre un nuovo campo di articolazione a questo discorso. Le realtà
virtuali generate dalla tecnologia sono uno spazio di finzione
estremamente persuasivo, il cui realismo apparente potrebbe essere la
porta d'accesso a un meta-realismo che esprima le dimensioni
immateriali della nostra esperienza. Qui nessuno è più un
sonnambulo che si aggira in un mausoleo di oggetti, ma tutti possono
diventare avventurieri in un Nuovo Continente popolato dalle
personificazioni di verità incorporee.
Una figura piuttosto poliedrica, Paul Virilio: filosofo, urbanista,
architetto, post-modernista (purtroppo...). La sua argomentazione
sulla realtà virtuale nel 1993, nonostante una certa fumosità di
fondo, ricorre ad alcune suggestioni notevoli, quali la torre e i
naufragi, col fine di sottolineare alcuni punti di semplice buon
senso.
Per me il virtuale è una dimensione supplementare della realtà,
analoga alla terza o alla quarta dimensione nello spazio. E'
diventato ormai un ambito di azione collettiva sul piano culturale.
La situazione è paragonabile a quella che si è creata quando è
stata scoperta la possibilità di costruire torri e si è avuto così
accesso alla terza dimensione: questo ha cambiato l'aspetto delle
nostre città e quindi anche la nostra vita. Valga per tutti
l'esempio della Torre di Babele.
Allo stesso modo la dimensione
virtuale è destinata ad alterare la struttura delle città e anche i
nostri costumi. Si tratterà di una trasformazione molto concreta.
Trovo piuttosto preoccupante il modo “pubblicitario” in cui
vengono descritte queste tecnologie, facendo credere che siano
totalmente prive di aspetti negativi. Ogni tecnologia emergente ha in
sé la propria drammaticità, è normale che sia così, è una sorta
di “trauma della nascita”. Quando sono state inventate le navi,
sono stati anche inventati i naufragi, quando è stato costruito il
primo treno, sono cominciati gli incidenti ferroviari. Nel caso delle
realtà virtuale, nessuno sembra prendere in considerazione la
“drammaticità” specifica dello strumento. Il mio interesse
attualmente è proprio rivolto a questo aspetto. Non si tratta di
contestare l'importanza della tecnologia ma piuttosto di confermarla
con i corretti elementi di valutazione. Per descrivere ciò di cui
sento la necessità per la realtà virtuale attualmente posso citare
una paragone. Quando è stata inventata la ferrovia, lavoravano ai
progetti tre tipi di persone: gli ingegneri che avevano inventato la
tecnologia, coloro che hanno strutturato le reti ferroviarie e poi
alcuni esperti che non conosciamo, che hanno avuto la funzione molto
importante di far funzionare i “sistemi di blocco”, ovvero
l'organizzazione dei segnali, lo smistamento dei convogli, in grado
di evitare incidenti e di facilitare la sicurezza della circolazione
ferroviaria.
Credo che oggi occorra lavorare al “sistema di blocco” della realtà virtuale. Se no, non ci sarà RV.
Credo che oggi occorra lavorare al “sistema di blocco” della realtà virtuale. Se no, non ci sarà RV.
4 commenti:
Ho letto con molto interesse il tuo articolo.
Mi ricorda un video del Doctor Game che parla del fascino della realtà virtuale nel pre anni '80.
Ora la considero una delle cose più inutili che esistano :P
@Marco Grande Arbitro
Non lo conoscevo, grazie! Gli ho dato un'occhiata su TuTubo. E' vero che tra gli anni '80 e '90 per certi versi avevano più aspettative verso la realtà virtuale che verso Internet.
Adoro pure io cercare vecchie riviste cyberpunk, anche se mi concentro di più su quello che si trova negli internet archives. Vecchi classici quali Future Sex o Mondo 2000 o addirittura la preistorica Phrack Magazine di metà anni 80. Assieme a vecchie riviste di videogiochi, tipo il mitico Zzap per i giochi per Spectrum e Comodore.
Il cyberpunk, come la realtà virtuale, sono passate di moda. Esiste il post-cyberpunk, ma come tutti i “post-“ va preso con le molle.
La realtà virtuale, come era concepita negli anni 80 e 90, era proprio oggettiva, come scrive il Shaw. Il ponte ologrammi di Star Trek mostra la stessa simulazione a chiunque vi entri, e la Matrix (diciamo il culmine) era uguale per tutti, addirittura per gli Agenti stessi del sistema. La rete stessa, come era concepita e come era effettivamente, era identica per tutti.
Quello che è cambiato è la personalizzazione della rete (vedi Il Filtro di Eli Pariser), ormai ognuno vive nella propria bolla virtuale personale.
La realtà virtuale poi è stata sostituita dalla Realtà Aumentata: oggi il virtuale e il reale si mescolano, il problema non è sapere se il mondo è reale o virtuale, ma sapere quali parti sono reali e quali false (come il problema delle Fake News).
Non so se è una cosa che sia ancora stata rappresentata. Forse nell’ologramma d’amore di Blade Runner 2049. Forse nel corto Hyper-Reality di Keiichi Matsuda.
@LorenzoD
Conosco anch'io Zzap, almeno di fama.
Nel campo delle controculture avevo trovato un po' di material su Grafton9, che è bene organizzato: https://grafton9.net/
Non credo ci sia un "post" cyberpunk. L'elemento "cyber" si è piuttosto diluito nel tempo, fino a diventare con la fantascienza dal 2000-2010 un elemento in più: invece che avere "un" film cyberpunk, troviamo un film "con" elementi cyberpunk. Ma nei videogiochi il genere grandeggia... basti pensare a tutta la saga di Deus Ex! <3
Non avevo pensato alla mescolanza tra reale e virtuale. E' vero, in effetti. Credo si stia finalmente andando a perdere l'idea della "fuga nel virtuale"; oggigiorno è piuttosto come se la popolazione sia intrappolata in un limbo tra reale e virtuale, ammesso che i due termini abbiano ancora senso.
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