lunedì 5 febbraio 2018

Il virtuoso della realtà virtuale


E' usuale pensare per chi non ha mai usato il mercato dell'usato, che si trovino occasioni e offerte al di là di ogni realistica previsione. Libri antichi gettati nella spazzatura. Grimori antichi smarriti sugli scaffali a un euro. Lampade magiche. Tappeti volanti. Venditori onesti.
Ora, non ho idea sul mercato dell'oggettistica. 
Sono solo un povero blogger che dalle superiori all'università passa molto del suo tempo nelle rigatterie alla ricerca di libri interessanti. So ad esempio che gli abiti, ammesso e non concesso che siano convenienti, risultano spesso impraticabili, perché sempre troppo piccoli, troppo stretti, troppo angusti. Avevo un collega che amava indossare vestiti degli anni '50 e pur essendo di corporatura, altezza e peso nella media, falliva nell'indossare più della metà degli abiti che trovava. Dal 1950 in giù, l'essere umano era uno gnomo, un nano macilento. Basti guardare le foto dei soldati inglesi nella seconda guerra mondiale: una vasta parata di tisici, di facce esangui, di dita scheletriche, di mustacchi spelacchiati. I corpi cambiano a seconda dei decenni, è un dato da considerare con attenzione tanto nello studio quanto nella ricostruzione di film e romanzi. 
E i libri. Oh, i libri. La quantità di libri in arrivo nelle rigatterie supera di gran lunga qualsiasi livello di assorbimento del lettore più inveterato. Migliaia su migliaia di tascabili. Colonne di Harmony. Scaffali su scaffali accatastati di manuali di medicina degli anni '60, di politologia sovietica degli anni '70/'80 e di gossip e tormentoni politici del secondo dopoguerra di scarso interesse allora e di nessuno oggigiorno. Testi già vecchi in partenza, buoni solo l'innesco del focolare.
Si trovano ovviamente gemme e curiosità rare, sfuggite all'aumento di prezzo del rigattiere, mimetizzati nell'intersezione tra il romanzo americano “più venduto negli ultimi dieci anni” e ora dimenticato e l'ennesima auto produzione italiana tutta vanagloria e niente sostanza. Ho acquistato saggi di storia a un euro altrimenti fuori produzione e disponibili solo in biblioteca, così come ho trovato a poco meno di tre euro “Il Corvo” nella prima traduzione italiana di fine anni '90. Sono certo buoni affari, ma solo perchè si è personalmente interessati; non si tratta di un'oggettiva qualità rivendibile.

Passando all'argomento dell'articolo, la scorsa settimana ho dovuto traslocare diverse casse di cartone di un lascito ormai abbandonato: il proprietario esplicitamente ha detto che non gli interessavano più e che io e miei colleghi di volontariato dovevamo buttar via tutto il malloppo.
Un'occhiata alle casse ha distrutto ogni nostra speranza: niente manufatti aztechi, niente Necronomicon, niente libri, niente riviste, ma... quotidiani. Quotidiani catalogati e conservati con cura maniacale dal 1970 al 1990. Mi domando, mi chiedo, mi scervello... quale forma mentis porta una persona a conservare i quotidiani? Se devi fare ricerca, ci sono gli archivi liberamente disponibili in biblioteca. Chi andrebbe a rileggere per divertimento notizie di cronaca e politica, del meteo e dello sport, di uno, due decenni or sono? Non ha il minimo senso. Cioè, comprendo le riviste illustrate, sono il primo a collezionare i national geographic del 1980, ad esempio... ma i quotidiani. E' carta da macero. Letteralmente.

Tra queste tuttavia ho trovato il primo numero di una rivista italiana dall'aspetto curioso: “Virtual”. 1 settembre 1993, 6000 lire, colorata, buona carta e buona impaginazione e una vasta collezione di articoli, saggistica e interviste. Una rivista sorprendentemente densa, se confrontata con le uscite anemiche delle poche riviste cartacee sopravvissute in circolazione.
“Virtual”, agli albori del 1990, si occupava della realtà virtuale e delle sue possibili applicazioni. Si fantastica dentro questo primo numero sui molteplici mondi prospettati dall'avvento tecnologico, sulla liberazione dell'umanità dal reale e dai suoi legacci, dalle rivoluzionarie applicazioni nel campo educativo della realtà virtuale.

Il tono generale è ottimista, ma viene temperato dalle origini cyberpunk di molti dei redattori, così come dalla ricchezza compositiva dell'insieme: non si indietreggia di fronte ai problemi più complessi, non ci si abbassa al sensazionalismo, ma si cerca di comprendere le possibili diramazioni della realtà virtuale.


Scarso interesse riserva in quest'ambito confrontare le previsioni sulla realtà virtuale del 1993 con le continue sconfitte del presente nel 2018. “Virtual” fa lo stesso effetto sul lettore di una rivista di fantascienza degli anni '50, di un romanzo di Verne, di una Dime Novels vittoriana sulla vita nel '2000. Il suo fascino sta nell'essere irrimediabilmente datata. I panorami virtuali descritti e ritratti con crudi programmi di grafica digitale hanno maggiore originalità di tanta arte fotorealistica disponile oggi giorno ed emergono agli occhi del lettore come alieni e “freschi”.
Quando il futuro appare bloccato, è sempre una buona idea tornare nel passato, nella sua idea di “futuro”, e usarla per procedere nel presente. Il brutalismo del 1970 era un futuro architettonico certo più interessante dell'abuso di vetrate e materiali scadenti del 2018; le concezioni socialiste del movimento Arts And Crafts di William Morris (inizio '900) si adattano certo meglio a Kickstarter e alle stampanti digitali 3D dell'industria in serie altrimenti trascinata a forza dal ventesimo secolo. Si dovrebbe recuperare dei diversi periodi storici i diversi “futuri” da loro prospettati, rivitalizzando così situazioni altrimenti stagnanti e senza (apparente) via di sbocco.
Retrofuturismo, in altre parole.

Ho scelto di trascrivere dalla rista tre passaggi sulla realtà virtuale di tre diversi autori. 
Avrei voluto citare almeno uno dei professori italiani intervistati sulla rivista, ma senza voler atteggiarmi ad esterofilo, sembrano confondere già nel 1990 la realtà virtuale come “fuga” dalla realtà o addirittura, come in alcuni casi, come realtà paragonabile a quella delle droghe.

Realtà virtuale e videogiochi: una combinazione tradizionalmente immancabile.
Warren Robinett è stato il designer nel 1979 della prima avventura grafica per l'Atari 2600: “Adventure”. In seguito al rifiuto dell'Atari di riconoscere il suo contributo al gioco nascose una stanza segreto con il suo nome e cognome dentro il gioco, dando così vita al primo easter egg della storia. Dopo aver fondato una sua compagnia, “The Learning Company” (1980-1995), ha lavorato su progetti di realtà virtuale per conto della NASA e dell'Università della Carolina del Nord.
E' una testimonianza interessante, perchè sembra concordare con la convinzione di Elon Musk che l'uomo sia destinato ad auto potenziarsi, a fondersi con la tecnologia come unica alternativa a una schiavitù sotto l'intelligenza artificiale.

Nell'eccitazione per questo nuovo oggetto chiamato “realtà virtuale”, non dobbiamo dimenticare che esso ha alle spalle una tradizione secolare di costruzione di mezzi destinati a sviluppare le nostre facoltà mentali. Il casco per la visione stereotipica (HDM) offre alcune nuove stupefacenti possibilità, ma anch'esso è figlio di questa tradizione. Queste possibilità sono stratagemmi tecnologici per accrescere la memoria, la percezione e l'immaginazione umane. Non possiamo vivere senza i nostri dispositivi, quindi siamo cyborg. Gli occhiali, gli apparecchi per l'udito, i telefoni, gli utensili e le automobili di oggi possono dar luogo a mezzi più potenti, ma oggi e domani essi sono e saranno parte di noi.
Oggi non potremmo “funzionare” senza i nostri mezzi, non più di quanto potremmo funzionare senza i batteri nello stomaco. L'immagine del cyborg – metà uomo, metà macchina – evoca la paura di potenti, intelligenti e inumane creature. Ma il telefono rende meno umani? E la fotografia? La parola scritta? La Tac? Io non credo.
Lo sviluppo elettronico delle facoltà umane fisiche e mentali lascia la nostra umanità, la nostra etica e il nostro giudizio intatti e sotto controllo. Una possibile immagine del futuro contempla un essere i cui sensi e i muscoli sono molto amplificati, un decision-maker umano, consapevole e potente. Secondo una visione antagonista, proveniente dall'intelligenza artificiale, il futuro è un robot super intelligente, autonomo, imperscrutabile e al di là della possibilità di controllarlo.
Queste sono le due plausibili direzioni sulle quali lo sviluppo della tecnologia può incamminarsi. Personalmente, ritengo di gran lunga preferibile essere un cyborg con il controllo della situazione, che la mascotte di un robot.


Jeffrey Shaw è stato uno dei primi artisti a utilizzare la realtà virtuale all'interno d'installazioni semi-permanenti. Una componente non da poco nella storia della Museologia degli ultimi trent'anni.
“Virtual” ha l'indubbio merito di riconoscere, all'interno di questo primo numero, ampio spazio e riconoscimento tanto agli scienziati quanto agli artisti che hanno reso possibile “concepire” la realtà virtuale come veniva immaginata tra il 1980 e il 1990.
Ho scelto il seguente passaggio per il paragone verso la cultura dell'estremo oriente, che ritengo tutto sommato azzeccata.

Il mondo ci appare alla luce di quelle finzioni che proiettiamo sulla sua superficie. Se le culture orientali hanno da sempre riconosciuto l'importanza di queste proiezioni, il mondo occidentale ha invece idolatrato la “realtà virtuale” che aveva creato, chiamandola “oggettiva” e separandola dalla mente dove quella stessa realtà si era formata. Questa sorta di “complotto” ci pone come osservatori e consumatori (e in qualche modo anche “saccheggiatori”) di un modello del mondo coercitivo.
Paradossalmente, i recenti e rivoluzionari sviluppi delle tecnologie di realtà virtuale sono radicati in questo complotto. Spinta dalla necessità di dare una sostanza all'immaterialità dei suoi desideri, la nostra cultura materialista è stata costretta a inventare una tecnologia che potesse incarnare le finzioni con lo stesso realismo oggettivo proprio del tradizionale e coercitivo modello della realtà. Ma questo potere di simulazione è anche in grado di invertire il meccanismo, facendo scomparire il reale sotto un diluvio di artefatti iperreali. L'arte ha sempre combattuto contro il “complotto” di una realtà oggettiva. L'efficacia simulatrice delle nuove tecnologie offre un nuovo campo di articolazione a questo discorso. Le realtà virtuali generate dalla tecnologia sono uno spazio di finzione estremamente persuasivo, il cui realismo apparente potrebbe essere la porta d'accesso a un meta-realismo che esprima le dimensioni immateriali della nostra esperienza. Qui nessuno è più un sonnambulo che si aggira in un mausoleo di oggetti, ma tutti possono diventare avventurieri in un Nuovo Continente popolato dalle personificazioni di verità incorporee.

Una figura piuttosto poliedrica, Paul Virilio: filosofo, urbanista, architetto, post-modernista (purtroppo...). La sua argomentazione sulla realtà virtuale nel 1993, nonostante una certa fumosità di fondo, ricorre ad alcune suggestioni notevoli, quali la torre e i naufragi, col fine di sottolineare alcuni punti di semplice buon senso.

Per me il virtuale è una dimensione supplementare della realtà, analoga alla terza o alla quarta dimensione nello spazio. E' diventato ormai un ambito di azione collettiva sul piano culturale. 
La situazione è paragonabile a quella che si è creata quando è stata scoperta la possibilità di costruire torri e si è avuto così accesso alla terza dimensione: questo ha cambiato l'aspetto delle nostre città e quindi anche la nostra vita. Valga per tutti l'esempio della Torre di Babele. 
Allo stesso modo la dimensione virtuale è destinata ad alterare la struttura delle città e anche i nostri costumi. Si tratterà di una trasformazione molto concreta. Trovo piuttosto preoccupante il modo “pubblicitario” in cui vengono descritte queste tecnologie, facendo credere che siano totalmente prive di aspetti negativi. Ogni tecnologia emergente ha in sé la propria drammaticità, è normale che sia così, è una sorta di “trauma della nascita”. Quando sono state inventate le navi, sono stati anche inventati i naufragi, quando è stato costruito il primo treno, sono cominciati gli incidenti ferroviari. Nel caso delle realtà virtuale, nessuno sembra prendere in considerazione la “drammaticità” specifica dello strumento. Il mio interesse attualmente è proprio rivolto a questo aspetto. Non si tratta di contestare l'importanza della tecnologia ma piuttosto di confermarla con i corretti elementi di valutazione. Per descrivere ciò di cui sento la necessità per la realtà virtuale attualmente posso citare una paragone. Quando è stata inventata la ferrovia, lavoravano ai progetti tre tipi di persone: gli ingegneri che avevano inventato la tecnologia, coloro che hanno strutturato le reti ferroviarie e poi alcuni esperti che non conosciamo, che hanno avuto la funzione molto importante di far funzionare i “sistemi di blocco”, ovvero l'organizzazione dei segnali, lo smistamento dei convogli, in grado di evitare incidenti e di facilitare la sicurezza della circolazione ferroviaria.
Credo che oggi occorra lavorare al “sistema di blocco” della realtà virtuale. Se no, non ci sarà RV.

4 commenti:

Marco Grande Arbitro ha detto...

Ho letto con molto interesse il tuo articolo.
Mi ricorda un video del Doctor Game che parla del fascino della realtà virtuale nel pre anni '80.
Ora la considero una delle cose più inutili che esistano :P

Coscienza ha detto...

@Marco Grande Arbitro

Non lo conoscevo, grazie! Gli ho dato un'occhiata su TuTubo. E' vero che tra gli anni '80 e '90 per certi versi avevano più aspettative verso la realtà virtuale che verso Internet.

LorenzoD ha detto...

Adoro pure io cercare vecchie riviste cyberpunk, anche se mi concentro di più su quello che si trova negli internet archives. Vecchi classici quali Future Sex o Mondo 2000 o addirittura la preistorica Phrack Magazine di metà anni 80. Assieme a vecchie riviste di videogiochi, tipo il mitico Zzap per i giochi per Spectrum e Comodore.

Il cyberpunk, come la realtà virtuale, sono passate di moda. Esiste il post-cyberpunk, ma come tutti i “post-“ va preso con le molle.

La realtà virtuale, come era concepita negli anni 80 e 90, era proprio oggettiva, come scrive il Shaw. Il ponte ologrammi di Star Trek mostra la stessa simulazione a chiunque vi entri, e la Matrix (diciamo il culmine) era uguale per tutti, addirittura per gli Agenti stessi del sistema. La rete stessa, come era concepita e come era effettivamente, era identica per tutti.

Quello che è cambiato è la personalizzazione della rete (vedi Il Filtro di Eli Pariser), ormai ognuno vive nella propria bolla virtuale personale.

La realtà virtuale poi è stata sostituita dalla Realtà Aumentata: oggi il virtuale e il reale si mescolano, il problema non è sapere se il mondo è reale o virtuale, ma sapere quali parti sono reali e quali false (come il problema delle Fake News).

Non so se è una cosa che sia ancora stata rappresentata. Forse nell’ologramma d’amore di Blade Runner 2049. Forse nel corto Hyper-Reality di Keiichi Matsuda.

Coscienza ha detto...

@LorenzoD

Conosco anch'io Zzap, almeno di fama.
Nel campo delle controculture avevo trovato un po' di material su Grafton9, che è bene organizzato: https://grafton9.net/

Non credo ci sia un "post" cyberpunk. L'elemento "cyber" si è piuttosto diluito nel tempo, fino a diventare con la fantascienza dal 2000-2010 un elemento in più: invece che avere "un" film cyberpunk, troviamo un film "con" elementi cyberpunk. Ma nei videogiochi il genere grandeggia... basti pensare a tutta la saga di Deus Ex! <3

Non avevo pensato alla mescolanza tra reale e virtuale. E' vero, in effetti. Credo si stia finalmente andando a perdere l'idea della "fuga nel virtuale"; oggigiorno è piuttosto come se la popolazione sia intrappolata in un limbo tra reale e virtuale, ammesso che i due termini abbiano ancora senso.