Quando si verifica un grande successo e un genere – in questo caso
letterario – diventa popolare, è naturale che gli editori
ricerchino immediatamente il suo successore.
The next big thing.
Cosa ci sarà dopo?
Cosa avverrà dopo che quello scrittore, quella serie di libri
risulterà esaurita?
I meno intraprendenti vanno alla ricerca d'imitazioni scadenti,
mentre gli agenti più furbi cercano di creare un nuovo mito, un
nuovo trend.
In seguito al revival tolkeniano degli inizi '2000, gli idioti sono
andati alla ricerca di cineserie alla Terry Brooks, mentre gli
intelligenti hanno iniziato a tenere d'occhio una serie di libri che
sembrava macinare successo per suo conto: The Game of Thrones
di George RR Martin, ovviamente.
Allo stesso modo, a fine anni '80, gli editori erano alla ricerca di
un erede al re dell'orrore, sua maestà King e il movimento
Splatterpunk, come gemello bastardo dello Cyberpunk, sembrava
prestarsi allo scopo.
L'idea ha funzionato a metà. Gli editori sono
andati incontro a una gamma di scrittori che voleva portare l'etica
-punk nell'horror e in questo modo si sono prodotte storie e racconti
veramente interessanti, lontani da quanto pubblicato in precedenza.
Tra questi ironicamente si considerava uno splatterpunker anche
George RR Martin con “Meathouse Man” (1976) ripubblicato nel 1990
nell'antologia “Splattepunks: Extreme Horror”.
Tuttavia il successo di massa che si auspicava da questi scrittori
non è avvenuto: unico a sfondare è stato Clive Barker, ma la sua
icona, ovvero Pinhead, appartiene più al mondo del fantasy che
dell'horror. Lo “splatterpack” non è mai riuscito a conquistarsi
la sua sanguinosa fetta di mercato.
In un certo senso questo è un merito del movimento, non un difetto. Se avessero davvero conquistato ampie fette di mercato, avrebbe
significato che quell'aggettivo, quella particella -punk era lì solo
per bella presenza. Al contrario, le storie dello Splatterpunk
cercavano di coniugare il gusto per la descrizione gore, di
stampo anatomico, alla ricerca linguistica e sociale tesa a superare
quegli horror(ini) borghesi e rurali, tutti preoccupati a non
offendere lo spettatore. Sarebbe ovviamente stupido negare come ci
fosse un elemento pretenzioso nel movimento, a partire da quelle
ridicole giacche in pelle nera, le borchie, le “pose”, i capelli
colorati, la pubblicità di trasgressione mirata agli adolescenti.
Tuttavia dall'altro lo sforzo di scrivere qualcosa di sgradevole e
senza compromessi, rabbioso e brutale, era sincero e deve aver offeso
tanto i lettori quanto gli editori alla ricerca di un nuovo marchio
da mungere all'esaurimento.
A posteriori, gli autori che erano già allora geniali, come Lansdale
e Barker, hanno poi continuato nella loro strada, mentre coloro che
erano meno ispirati nello stile e nella fantasia sono scivolati nel
silenzio. L'etichetta ha dunque funzionato come raccoglitore di un
gran numero di giovani scrittori che desideravano una legittimazione
che potesse “venderli” ai lettori meno avventurosi, scomparendo
quando ciascuno ha seguito la propria, particolarissima strada.
Ovviamente si deve considerare l'elefante nella stanza, ovvero
Stephen King, che continuò a scrivere senza fermarsi negli anni '90,
ha perseverato nel '2000 e continua tutt'ora. The King Lives,
nel bene e nel male...
Questa raccolta di uno dei più spiccati membri dello Splatterpunk,
David J. Schow, si può bene considerare come una delle più
rappresentative di questo “horror estremo”: una varietà di
storie diversissime l'una dall'altra, che spaziano nelle situazioni
più diverse e raccapriccianti.
David J. Schow è sempre stato un autore di storie brevi, più che
romanzi.
Il suo curriculum infatti annovera collaborazioni con le più diverse
riviste dell'horror degli ultimi trent'anni, tra le quali ha lavorato
ampiamente come editorialista, apprezzato particolarmente su
“Fangoria” con l'iconica rubrica “Raving & Drooling”.
Le sue antologie si estendono dal 1990 al 2016, con il triplice debutto di “The Shaft” e le due raccolte “Seeing Red” e “Lost Angels”. In precedenza aveva esordito con il romanzo al cardiopalma “Kill Riff” (1988) in seguito al suo primo rifiuto, un incompiuto romanzo su Jack Lo Squartatore troppo in avanti con i tempi. In realtà Schow aveva già lavorato in precedenza sotto pseudonimo come scrittore di romanzi d'avventura e aveva sceneggiato diversi episodi di “Miami Vice”: una collaborazione cinematografica che ha successivamente trovato pieno frutto nella redazione di script, da “Nightmare on Elm Street 5” (1989), al terzo “Texas Chainsaw Massacre” (1990), a “Critters” 3 e 4, il prequel di “Texas Chainsaw Massacre” (2006) e sopratutto “Il Corvo” (1994).
Le sue antologie si estendono dal 1990 al 2016, con il triplice debutto di “The Shaft” e le due raccolte “Seeing Red” e “Lost Angels”. In precedenza aveva esordito con il romanzo al cardiopalma “Kill Riff” (1988) in seguito al suo primo rifiuto, un incompiuto romanzo su Jack Lo Squartatore troppo in avanti con i tempi. In realtà Schow aveva già lavorato in precedenza sotto pseudonimo come scrittore di romanzi d'avventura e aveva sceneggiato diversi episodi di “Miami Vice”: una collaborazione cinematografica che ha successivamente trovato pieno frutto nella redazione di script, da “Nightmare on Elm Street 5” (1989), al terzo “Texas Chainsaw Massacre” (1990), a “Critters” 3 e 4, il prequel di “Texas Chainsaw Massacre” (2006) e sopratutto “Il Corvo” (1994).
Sarebbe tuttavia un torto limitare l'attività di Show alle sue
(sfortunate) sceneggiature, perchè negli anni ha curato i libretti
d'introduzione, i cataloghi e la saggistica di molta cinematografia
di genere, tra tutti “Un gatto nel cervello”, di Lucio Fulci.
La collaborazione di Schow allo Splatterpunk non si è limitata
tuttavia a film e romanzi, trasponendosi nell'invenzione del termine,
a lui attribuito nella Dodicesima World Fantasy Convention a
Providence (1986), così come nell'inserimento della denominazione
nel Dizionario di Inglese di Oxford (2002).
“Cuoio Nero”, pubblicato originariamente nel 1994, esibisce senza
pudore una scrittura ricca e complessa, che non esita a catturare il
lettore con metafore e passaggi quasi poetici. Nel contempo Schow
mantiene un ritmo sempre alto, con una cura per la descrizione
particolareggiata che inevitabilmente trasforma certe scene horror in
capolavori di repulsione.
E' una strana combinazione, che ricorda un pesce abissale: la
bellezza della luce, in questo caso di alcune espressioni, di alcuni
passaggi, maschera tuttavia denti aguzzi e un corpo deforme.
Ovviamente la storia non è mai sottomessa alla parola, ma c'è una
certa raffinatezza dall'autore, una certa ricerca stilistica. Come
con Clive Barker, sono inoltre storie di violenza urbana, immerse
dentro metropoli e periferie degradate e abbandonate all'abuso di
gang e forze di polizia.
Lo Schow scrittore pulp degli anni '80/'90 doveva inoltre essere un
hipster ante litteram, perchè le storie letteralmente
esplodono di strizzate d'occhio alla cultura pop del periodo: una valanga di
nomi, marchi, loghi, riferimenti espliciti e impliciti. Non sono un
grandissimo fan di quest'approccio, ma è vero che i romanzi
vittoriani sono affascinanti proprio per i riferimenti degli
scrittori dell'epoca a giornali e marche del periodo; vale lo stesso
per Schow. Sullo
stesso filone, Schow preferisce ambientare tante delle sue storie
nella giungla darwiniana di Hollywood e punteggiare i suoi racconti
con riferimenti a vecchi film anni '50 e cinematografia di nicchia.
David J. Schow nel documentario “Never Sleep Again: The Elm Street Legacy” |
Penso che si possa condurre un lettore da un genere a un altro, dirgli “Se ti piace questa cosa, allora prova quest'altra. Provaci! Non devi portarlo a casa e nutrirlo, provaci soltanto! Potresti apprezzare questa variazione”. Qualunque scrittore e in particolare qualunque regista non vuole essere vincolato a fare solo quella cosa tutto il tempo a meno che non siano sul punto di suicidare la propria carriera.
Se siete tra coloro che pensano che l'horror estremo non è “roba
per me”, perchè non siete interessati allo splatter “tanto per”, potreste sbagliarvi. Alcune storie sono
rivoltanti, altre sono gratuitamente violente, eppure la gran parte
sfruttano l'elemento splatter come trampolino di lancio verso
argomenti altrimenti insospettabili in un horror. Forse la soluzione
più comune è una mescolanza di horror e humor nero che scivola
facilmente nel grottesco: si è disgustati da quanto si legge e nel
contempo non si smette di ridere.
Dopo un'introduzione di John Farris, il racconto “Il Condotto” ci
porta nella mente di uno spacciatore di droga in fuga da un affare
concluso male, intrappolato in un condominio decrepito.
Il titolo deriva da un condotto dal fondo limaccioso e torbido, dal
quale il pusher sente ogni tanto un fastidioso rumore.
Il pov di Cruz è reso bene, con una parlata realistica, anche se
affettata:
Un'intera settimana di dannato niente era andata persa, senza nemmeno una parola da Rosie. Ero stato eletto nuovo pusher di alcuni dei ragazzi di Oakdale (uno zoo yuppificato di palomitas platinati con strette di mano decise, sorrisi da PR e occhi come lo schermo di una TV pieno di interferenze).
Alcuni passaggi sono comici e pienamente nello stile “sporco” di
Schow:
Il centro di Chicago non era granché da girare in mezzo alla tormenta. Vagare per Oakdale era come controllare l'attrezzatura da bondage a un incontro sullo studio della Bibbia. Non avevo molta voglia di ubriacarmi. Quello seguente sarebbe stato un giorno di scuola, per me.
Le opportunità orrorifiche create dalla situazione di un uomo
disperato che dispone solo d'immense quantità di cocaina sono simili
a un racconto di King chiamato “L'arte di sopravvivere” (Survivor
Type) del 1985.
“Sedalia” è una strana bestia e uso quest'espressione non a
caso: nell'America anni '80 i dinosauri appaiono all'improvviso e
scompaiono altrettanto velocemente, non prima di aver causato
splatterose devastazioni.
Come i fantasmi sono legati ai luoghi dove sono nati, cresciuti e
morti e alle proprie spoglie mortali, allo stesso modo questi
dinosauri sono fantasmi legati alle proprie ossa e indirettamente al
petrolio cui sono diventati. Logicamente ricompaiono laddove il
petrolio viene attinto e perfino dove viene trasformato in plastica.
In tal modo ogni casa moderna diventa un potenziale pericolo.
Il racconto tuttavia non si sviluppa con toni horror, ma preferisce
un tono trasognato, surrealista: i dinosauri non costituiscono mai un
pericolo autentico, ma sono una presenza enigmatica e ingombrante,
che il protagonista deve allontanare verso il deserto dove
svaniscono, come tanti miraggi. Decisamente weird, ma senza
che si adduca la minima ragione a tanta stranezza.
“Una Settimana nella Non-Vita” è un racconto in prima persona di
un cacciatore di vampiri assolutamente anemico, senza torto e senza
lode: lo leggi in fretta e te lo dimentichi, tanto che non ho nulla
da scrivere al riguardo. Saltatelo.
Un giovanissimo Peter Jackson e David J. Schow a inizio anni '90 |
“Scoop a faccia in giù” è tra i miei racconti preferiti
dell'antologia: parte come la storia noir di un sicario, “Scoop”,
che ha fallito nell'assassinare uno dei suoi bersagli e che viene
condannato a essere gettato nelle fogne cittadine, legato mano e
piedi al cadavere di un altro boss mafioso, “Cherubino”. Metà
della storia consiste nel nostro eroico protagonista a un passo
dall'affogare nella merda della città, incatenato a un corpo in
putrefazione. Quando Scoop riesce infine a liberarsi scopre un mondo
sotterraneo di coccodrilli mutanti e cannibali convinti che sia il
prescelto che li porterà nel “Regno dei 490 hamburger”. Senza
dimenticare i veri padroni delle fogne, ovvero i ratti, con i quali
Scoop ha una scena piuttosto grottesca:
I cinque minuti successivi generarono una versione mutante di una gara del campionato di Whac-A-Mole, quel gioco rivelatore in cui un concorrente cerca di colpire quanti più roditori possibile nei buchi da cui spuntano fuori. Whac-A-Mole non era un gioco così umido, quello sì. In Whac-A-Mole, pensò, i bersagli non facevano un rumore così piacevole, quando la mazza calava. Fu un momento trascendentale. Una volta che si fu liberato, un randello si materializzò nella sua mano, e affrontò giustamente i suoi molestatori. Si vide scagliarli lontano, schiacciati e con le ossa rotte, a soffocare nel loro stesso sangue e affogare. La gran parte di loro avevano la faccia di Roach e Ratso. Questo aiutò la sua mira nell'oscurità.Afferrò pitecantropoidamente l’arma, e si diresse verso il punto più alto, cercando di sentire la strada, insieme a grugniti feroci. Alla fine trovò il margine del tunnel della fogna e salì a tentoni fino a una sporgenza di cemento larga circa quindici centimetri. Era piena di escrescenze viscide.
La storia è assolutamente delirante e nel contempo si mantiene fin
troppo realistica nella descrizione dei combattimenti, delle ferite e
dello sporco onnipresente. E sì, “pitecantropoidamente” è un
avverbio che non si può sentire, nemmeno nell'accezione ironica di
Schow.
“Farfalle Kamikaze” è un omaggio a un breve racconto di Ray
Bradbury, “Rumore di Tuono”. Nell'opera dello scrittore statunitense un turista che viaggia nella preistoria calpesta per
errore una farfalla, producendo conseguenze inenarrabili nel futuro.
Nel racconto di Schow una spedizione scientifica che ha viaggiato nel
tempo fino all'era dei dinosauri vede un manipolo di soldati che li
accompagnava prendere il potere, far saltare la base con tutto il
personale civile e imbarcarsi in una missione suicida di devastare
quanta più fauna locale e quanti più dinosauri per alterare il
tessuto spazio-temporale e possibilmente eliminare la civiltà umana.
I soldati sono infatti guidati da un encomiabile nichilismo, espresso
dal dialogo della voce narrante:
La storia suggeriva che se fossi entrato in una macchina del tempo, tornato indietro e ti fossi immischiato nel macramè di eventi passati, avresti potuto scombussolare in utero il mondo che avevi lasciato. Avresti potuto porre fine a una dinastia familiare eoni prima che gli antenati si evolvessero in esseri senzienti. Il seme di intere razze e culture avrebbe potuto essere schiacciato a terra come il mozzicone di una sigaretta: intere civiltà avrebbero potuto essere cancellate fino allo scheletro e le ossa ridotte in polvere senza tempo, tutto prima che le amebe primordiali di suddette civiltà lottassero per il loro primo cibo. La storia avrebbe potuto essere facilmente pugnalata alla schiena, dal momento che camminava solo in avanti, con gli occhi al futuro.
La squadra che si era autodefinita Omega Team contava sul fatto che la storia avesse ragione.
“Il Banchetto del Mendicante con Summer Sausage”
è la sceneggiatura di Schow per “uno spettacolo di Broadway
prodotto nello stile ridondante e grondante sangue del Grand
Guignol… in parte Alfred Hitchcock, in parte Joe Orton e in
parte Freddy Krueger”. Il progetto fu poi abbandonato nel 1992, ma
lo script dell'autore include tutti i dettagli per la realizzazione,
con tanto di marketing, trucchi di scena e consigli per i souvenir.
Si tratta sostanzialmente della storia di tre barboni che cenano in
cimitero e vengono assaliti dagli zombie. I dialoghi e le gag sono
costruite con il giusto brio e persino dalle righe asettiche
dell'ebook mi sono sorpreso a ritrarmi inorridito. So gross...
“La Notte di Pitt al Cimitero di Lewinstone” è un perfetto
esempio dell'estrema varietà di generi a cui può arrivare Schow:
dal survival horror di Scoop si passa ora a una storia intimista, tutta giocata in quel confine grigio di malinconia e
rimpianti propria dei cimiteri.
Russell Pitt è l'ultimo rappresentante della famiglia dei Pitt e al
suo arrivo in cimitero scopre che sono tutti risorti come zombie
senzienti. Il preambolo potrebbe aprire tanto all'horror quanto al
ridicolo, ma in realtà i dialoghi tra Pitt e i membri della sua
famiglia gli concedono di riconciliarsi col passato, di confessare
quanto non aveva avuto il coraggio di dire quand'erano in vita.
Ah, dimenticavo: con questo racconto Schow è stato accusato di
necrofilia dalle autorità canadesi.
“Wormboy e i Figli di Jerry” fu pubblicato originariamente
nell'antologia “Book of the Dead”, che si proponeva di sfruttare
l'ambientazione all'epoca nuova dell'Alba dei Morti di Romero per
pubblicare una serie di storie sugli zombie che fossero socialmente
impegnate.
Stando ai critici il proposito sfuggì completamente ai partecipanti,
che si sfogarono al contrario nella gara delle più rutilanti e
offensive storie immaginabili.
Tra queste, il racconto di Schow è l'infame tra gli infami, il
disgustoso tra i disgustosi, la summa dello splatterpunk come
splatter e basta. Si consideri solo l'incipit:
Mangiarli era più divertente che far esplodere le loro rozze teste verdi. Ma perché scendere a patti quando puoi fare entrambe le cose?
I più freschi erano blu. Era importante se volevi evitare i crampi e la salmonella. Ne mangiavi uno verde e ti ritrovavi a cantare nel grosso megafono di porcellana in tempo zero.
Wormboy usò delle pinze tagliafili per recidere la punta dell’ultimo proiettile nel blocco di gommapiuma. Spinse la cartuccia tronca nel cilindro della sua .44 a canna corta. Una volta sparata, la pallottola mozza avrebbe colpito di piatto e disintegrato tutte le teste degli svitati trasformandole in poltiglia. I tizi verdi non erano dei veri “zombie”, perché non c’erano stati riti voodoo. Erano tutti degli svitati, lenti come lumache e stupidi come galline e Wormboy adorava che fosse così. Significava che non sarebbe morto di fame in quel pusillanime nuovo mondo. Lui mangiava, a differenza di molti milioni di persone.
La storia si sviluppa in seguito a un'apocalisse zombie, ponendo in
conflitto i due protagonisti umani, “Wormboy”, un adolescente
obeso che si nutre degli zombie e ha un'insana passione verso le armi
da fuoco e il “Reverendo Jerry”, un uomo di chiesa che ha
scoperto come controllare gli zombie iniettando loro un veleno di
serpente che ne inibisce gli impulsi aggressivi.
Il racconto funziona con la logica di un cartone animato diretto da
un sadico ultra violento: l'intera storia è troppo assurda per non
scoppiare a ridere, ma nel contempo la preparazione militare e
l'abilità di scrittura di Schow la rendono impossibile
d'abbandonare. Si deve andare avanti, anche a costo di nuotare in un
mare di budella, sangue e cervella esplose.
Non sono un cinefilo horror, ma ritengo che esista un sottogenere
dove (s)oggetto è il corpo della donna come cadavere, a volte come
ricettacolo di soprannaturale: mi viene in mente “Deadgirl”, “The
Corpse of Anna Fritz” e soprattutto “The Autopsy of Jane Doe”.
“Compagno di Vita” rovescia la situazione mettendo al centro come
(s)oggetto di desiderio il corpo dell'uomo, ma purtroppo la misoginia
esercitata verso la protagonista inficia la buona idea di base.
David J. Schow ha sempre sottolineato il suo amore per i film di
mostri degli anni '50 e '60 con cui ha passato una solitaria infanzia
dopo la prematura morte della madre.
“Ultima Chiamata per i Figli di
Shock” è un omaggio a quegli anni, con il Mostro di Frankenstein,
Conte Dracula e l'Uomo Lupo che si incontrano in un bar per discutere
dei bei vecchi tempi.
Schow si rifiuta di sprofondare nella nostalgia
presentando i diversi personaggi come moralmente discutibili, proni
alla violenza e all'uso delle più diverse droghe.
Divertente, anche
se slegato dal resto dell'antologia.
“Dove c'era il Cuore” è un racconto Kinghiano, nel senso che
prende una singola buona idea e la sfrutta all'esaurimento. Tuttavia
a differenza del Re, Schow osa spingersi nei territori inesplorati
che separano il successo di vendita dalla censura preventiva
dell'editore.
In sostanza è la storia di una coppia perseguitata dall'amante morto
per un accidente che ritorna dalla tomba. Prima come cadavere, poi
come cadavere mutilato, poi come... E' un'idea sciocca, ma viene
talmente estremizzata che diventa interessante.
“Scultura di Sabbia” è purtroppo il tentativo di Schow di
scrivere qualcosa di horror, ma risultando commovente. E non ci
riesce: la storia di questo architetto costretto a rivivere anno dopo
anno la morte della moglie è drammatica nelle prime pagine, ma
presto degenera nello stucchevole. Ovviamente è un racconto
qualitativamente superiore a ¾ della roba che leggo, ma all'interno
dell'antologia è un anello debole della catena con cui Schow
incatena il lettore.
Ci sono antologie che vanno in ordine decrescente, al punto che gli
ultimi racconti sono tranquillamente evitabili. E dall'altro, vi sono
raccolte come questa che scelgono di spegnersi non con un sibilo, non
con un gemito, ma col botto.
“Cappelli da Cattivi” è
un'esplosione splatter che lascia il lettore a bagno nel Mar Rosso.
Schow chiaramente se ne è strafregato di contenersi e scatena una
storia di serial killer che si pensano “cattivi” (hanno il
“cappello”) rincorsi da un duo di vendicatori altrettanto
seriali.
La macchina narrativa di Schow accelera al punto da deragliare ed
esplodere, nel senso che il racconto ha i suoi difetti, i suoi punti
deboli. Eppure, quale grandioso fallimento.
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