Ci si lamenta spesso come
online si diano per scontate troppe cose, si presumano troppi
indizi, ci si abbandoni troppo volentieri a confidenze e scambi
basati sulla sola fiducia.
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Non giudicare un uomo dalla sua pipa,
giudicalo dal suo tabacco |
Indubbiamente, nel mio
campo, se si leggono alcuni blogger per anni, articolo dopo articolo,
specie tra i siti giornalieri, ci si può illudere di conoscere una
persona.
Forse è anche più facile che dal vero; tra un'immagine
profilo e un articolo, tra una riflessione e una dichiarata
affiliazione a un hobby, una politica, una religione, diventa
possibile fraintenderne il carattere, arrogarsi il diritto di
giudicare.
Devo però ammettere, che sarà forse che non ho grandi
contatti online, ma non ho riscontrato quest'arroganza tra i lettori
e i colleghi blogger, almeno quei pochi che ho conosciuto. Ad esempio
ho qualche contatto che commenta e che conosco da anni che raramente
inquisiscono dentro questioni personali, preferendo mantenere il
discorso sui reciproci interessi, pure molto seri.
Al contrario, andrebbe
osservato che ci sono tante, tantissime persone che conosci di viso,
che sei costretto a salutare per ragioni di elementare educazione, ma
che tu non conosci e che loro non ti conoscono.
Mi sto riferendo
sopratutto ai vicini di casa/appartamento, ma rimane una riflessione
aperta anche ad altri campi: conoscenze sul bus, vicini della casa
dell'amico, genitori dell'amico ecc ecc
Quando forzatamente sono poi costretto a una conversazione, rimango sempre sorpreso
dell'arroganza degli stessi; vi potrà sorprendere, ma se vedete una
persona ogni giorno, non vuol dire che la conosciate o che sappiate
chi è e cosa fa.
Guardare una persona non equivale a conoscerla;
vederla “dal vivo” non significa nulla. Ho visto lo stesso
controllore sullo stesso treno per trenta giorni, ma questo non mi ha
rivelato nulla sul suo carattere, sulla sua famiglia. Sopratutto non
mi permetterei mai di dirgli cosa deve fare o come deve comportarsi. E'
solo una persona che “vedi”; non vuol dire niente.
Questo contorto
preambolo per arrivare a dire che qualche settimana fa mi sono
ritrovato in ascensore con una persona di mia conoscenza; devo
ammetterlo, più la conversazione procedeva, più mi sorprendevo
dell'estrema, ottusa arroganza che mi veniva esibita dinanzi.
Sull'unico indizio della mia età, la sgradevole vecchia – perchè
tale era – procedeva a criticare a tutto spiano, al punto che sono
rimasto allibito, le mani che mi prudevano. Ovviamente, di fronte
all'ennesimo esempio della pensionata che ha raggiunto la pensione
solo perché era nel punto giusto al momento giusto e che occupa un
appartamento vuoto tanto quanto le sue idee, non vale la pena
arrabbiarsi.
Il suo stesso comportamento era per me una condanna
sufficiente. Non resta, in casi del genere, che comportarsi
cortesemente, cercando di chiudere ogni contatto il prima possibile.
Inutile reagire, si avvalorerebbero solo la tesi di partenza. Che
incredibile arroganza, però!
Rientrato a casa, mi sono
messo davanti al Pc e ho calpestato la tastiera producendo una decina
di pagine di un racconto distopico. Roba hardcore, nello stile di
Alan D Altieri.
Al che, mi ha colpito il
nesso... La rabbia non mi aveva spinto a scrivere un articolo, non mi
aveva spinto a scrivere una riflessione, una storia fantasy, un
frammento mainstream. No, la rabbia mi aveva spinto a scrivere una
distopia. L'ho trovato interessante: la rabbia mi aveva stimolato a scrivere di fantascienza pessimista, distopica.
Tanto più che proprio qualche giorno prima riflettevo come il genere sia ormai controproducente sotto così tanti aspetti: la distopia
Young Adult è un ossimoro offensivo verso le vittime reali delle dittature; come avvertimento la distopia non funziona perchè
propone sempre una soluzione semplicistica; come critica del presente
di solito si risolve in una generica e irrealizzabile imitazione
della Nord Corea, che come stato è un “fossile”, un'eccezione.
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Il mio "fantasy" (dalla rivista art nouveau Jugend, 1896) |
L'associazione di un
sentimento a un genere specifico non dovrebbe sorprendere.
Ad
esempio, fino agli '40 dell'Ottocento, il romanzo come forma
narrativa predominante in Italia era il romanzo storico, alla
Ivanhoe. La soluzione rispondeva a criteri di praticità – superare
la censura della Restaurazione – offrendo nel contempo quel
divertimento apprezzato sia da chi aveva combattuto per/contro
Napoleone, sia dai figli che scalpitavano per combattere ancora,
mentre sul versante “nazionale” permetteva di concepire
l'unificazione senza realizzarla effettivamente.
In altre
parole, il romanzo storico offriva una soddisfazione a quel peculiare
meccanismo psicologico per cui si desidera qualcosa nel contempo
senza volerla davvero.
I moti del '30 e il fallimento del '48
porteranno alla ribalta il romanzo contemporaneo, ma a interessarci
davvero è il romanzo che prende forma dopo l'unificazione. E'
infatti impressionante constatare come gli ideali del Risorgimento
crollino all'improvviso, scompaiano come niente: c'è un tentativo di
unificazione linguistica con a capo il toscano, ma la disillusione è
forte, fortissima, almeno per come la presenta Tellini nella sua
saggistica. Come va di moda tra i culturalisti oggigiorno, si
potrebbe rimproverare ai romanzieri la colpa di aver fomentato un
clima pessimista con le proprie opere; per chi invece ricerca una
prospettiva razionale e scientifica, diventano evidenti le magagne
immense di un sistema accentrato con l'unica guida della Casa Savoia,
paralizzato da letali conflitti di potere e afflitto da un
analfabetismo imbarazzante, a cui difficilmente potevano far fronte i
libelli e i romanzetti toscani, densi di sentimentalismo e amor di
patria.
E' dunque chiaro come la
narrativa disperata del periodo fosse un riflesso, un prodotto delle
ansie economiche, tra crack in Borsa, fallimenti della
Banca Italiana e una corruzione crescente. Per ogni De Amicis abbiamo
un Verga, o per lo meno un autore Scapigliato pronto a prendersi in
giro, a ricercare il brutto, il grottesco, lo psicologismo rivolto
all'interiorità disinteressata alle visioni eroiche del
Risorgimento.
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Il mio "fantasy" (dalla rivista art nouveau Jugend, 1902) |
Tutta questa pappardella, per spiegarvi come sono convinto che a ogni periodo storico, a ogni
decennio corrisponda un dato genere predominante, che risulta la
concretizzazione delle ansie e della struttura economica del momento.
In tal senso, ritengo di poter dire con sufficiente sicurezza che la
fantascienza distopica, anziché preavvertire una futura distopia,
sia semplicemente la conseguenza del Crack economico del 2007 e da
quel momento in poi sia stata associata per circa un decennio
(2007-2017) al progressivo furore di una popolazione che si riteneva a
buon ragione ingannata.
Motivazioni economiche, la
“pancia”, che hanno suscitato una rabbia che sua volta si è
tradotta, in un clima ancora relativamente benestante, ma velocemente
eroso, in una narrativa fantascientifica a carattere distopico. Il
carattere di buon attivista della distopia andava d'amore e d'accordo con la gran parte dei movimenti e dei gruppi dei successivi cinque anni, da
Occupy Wall Street a Podemos.
Allo stesso modo, però,
dei tanti Divergent e Hunger Games, la protesta è rimasta circostanziata, spegnendosi e risolvendosi in dibattiti sterili,
dove l'ossessione per una “rivoluzione dalla rete” ha presto
perso ogni contatto con la Realtà, quella con la “R” maiuscola.
Probabilmente l'elezione di Trump è stato il canto del cigno di
questo modo di pensare: migliaia su migliaia di giornalisti e blogger
e attivisti intenti a fare campagna dalle proprie pagine blog,
facebook, twitter... dimenticando che i sostenitori del loro nemico,
Drumpf, molto semplicemente non leggevano Internet e certo non
leggevano i post da loro etichettati “liberali”. La prigione
della Rete ha rivelato per l'ultima volta (spero), che senza un
aggancio al mondo reale non produce cambiamenti. Perchè l'Agente
Smith possa incarnarsi, deve passare dalla Matrice al mondo di carne e ossa, il mondo dove a una caduta corrisponde una gamba rotta.
La fantascienza distopica
in tal senso ha dato la stura alla rabbia di quegli anni, senza
tuttavia preventivarne il pericolo o fornirne una minima alternativa.
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Il mio "fantasy" (dalla rivista art nouveau Jugend, 1896) |
In questi mesi, al di
fuori della mia arrabbiatura, pensavo a un altro genere invece
trascurato, ovvero il Fantasy. Non l'Urban Fantasy, o il Weird, o la
fantascienza alla Star Wars, cioè fantasy con le spade laser: no,
proprio il Fantasy inteso come un mondo parallelo al nostro,
straordinario e terribile. Non per forza una landa
medievale, però, sì, qualcosa di classico.
High Fantasy, insomma.
Bene contro Male, nei limiti del kitsch.
Il lavoro sul mio saggio del Signore degli Anelli infatti mi ha rivelato una prospettiva che
già sospettavo: Tolkien attingeva in
profondità alle terre dove viveva. Non all'Inghilterra come nazione
e nemmeno a Oxford come mondo universitario: ma alla regione dov'era
nato, alle terre e ai pochi acri a lui circostanti. E' su quei ruderi
celtici, su quelle montagne erose dal tempo, su quelle lande fangose
dagli strani toponimi che ha estratto l'oro prezioso della sua
narrativa. Gli studi, la filologia gli hanno fornito gli strumenti
indispensabili per comprendere quel mondo, per dargli forma, per
forgiarlo in un'arma narrativa formidabile. Senza la documentazione,
partorisci un aborto. Senza uno stile di scrittura studiato e
rielaborato e rivolto al lettore, non allo stronzo arrogante dentro
di te, non ottieni niente di degno.
Non c'è, almeno per me, alcun
dubbio che la geografia e la bellezza del Signore degli Anelli
derivino dalla comunità locale, dalla terra dove il professore
abitava, da cui ha distillato gli ingredienti che più amava – lo
si vede negli hobbit, ovviamente, ma anche negli uomini di Brea, o
negli elfi di Granburrone.
Qui si pone il passaggio
interessante: proprio perchè legato a un ambiente quasi “di
famiglia”, suo e unicamente suo, non possiamo imitare Tolkien
imitando il suo genere di fantasy. E' un'operazione che non ha senso:
come provare sentimenti per l'infanzia di uno sconosciuto, per i
ricordi a lui cari.
Il lettore può farlo, perché s'immedesima negli
hobbit; lo scrittore non può, perché non ha il “vissuto” che
aveva Tolkien, perché non ha il background inglese e piccolo borghese su cui ha
costruito il suo mondo.
Sarebbe un'opera da
parassita, come cercare di fingere di essere qualcun'altro. Il
risultato è grottesco, non ultimo perché manca, accanto a questo
elemento quasi biografico, la componente di duro lavoro di scrittura e
ricerca.
Per questo motivo, nei mesi scorsi, pensavo a scrivere un Fantasy. E mentre mettevo le mani sulla
tastiera continuavo a pensare come non potevo, sebbene cercassi, attingere a quel background celtico-medievale-rurale di Tolkien. Io
non sono nato in campagna, non ho mai scorrazzato tra i boschi, sono
una persona urbana, a suo agio nell'architettura di una solida città
vittoriana, meglio art nouveau, al più modernista: i moti
dell'animo di chi ama i fioruncoli e i panorami idilliaci non mi
appartengono. Ho pertanto iniziato un lavoro di scandaglio interiore.
Ho lentamente, dolorosamente cercato di individuare cosa amo – a
livello sociale, di identità e comunità – del mondo in cui vivo.
E a sua volta quale mitologia e quale leggende e quali studi
filologici posso svolgerci. L'idea sarebbe di trovare per primi gli
elementi positivi, stavolta; per primi gli elementi quali valori e
immagini su cui poi costruire il mio mondo fantasy. Un mondo pertanto
triestino, in un certo senso; bibliotecario, in un altro; burocratico
e urbano in un altro ancora. Questi sono infatti gli ambienti in cui
mi muovo. Da queste basi indagare quanto più approfonditamente per
scovare localmente e solo localmente, gli elementi di leggenda, i
mattoni lego “mitemi” con cui costruire le fondamenta di cosa
voglio scrivere.
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Il mio "fantasy" (dalla rivista Jugend, da cui Jugendstil, del 1902) |
Perchè questo sforzo, al
di là del fatto che scrivere è l'unica cosa di cui sono capace e
che ironicamente è tra le abilità più inutili e superflue
oggigiorno?
Ci si ricollega al
discorso della distopia e alla rabbia dell'esordio. A livello infatti nazionale e personale, ritengo che la rabbia stia cedendo il passo alla semplice tristezza.
Disperazione, in alcuni casi. Ma tristezza, per lo più. La gente, lo
vedo in strada, lo sento in giro, è semplicemente distrutta. Al di
là dei pensionati che affollano i bus e le Poste e di chi sa che il
suo posto e il suo futuro sono al sicuro, mi sembra che la gran parte
della popolazione sia ormai affranta, con la calma traumatizzata del
reduce. C'è un limite attraverso cui puoi pompare violenza e
minacce e a livello politico, sia sulla scena nazionale che
internazionale, credo sia stato raggiunto. In quest'ambiente, ipotizzo
che il Fantasy come genere classico tornerà a essere letto in gran
numero. Non solo Young Adult, non solo ennesime contaminazioni con
altri generi, ma Fantasy con la F maiuscola, Fantasy puro.
Quando la Compagnia
dell'Anello uscì in sala, non erano passati che pochi mesi
dall'attentato del'11 settembre 2001. Sarebbe bastato che fosse
uscito a ottobre, a novembre e una popolazione ancora “stordita”,
l'avrebbe ignorato e Peter Jackson si sarebbe ritrovato a spasso. Ma
La Compagnia uscì a dicembre... quando le genti erano ormai tristi,
ma erano uscite dallo shock. E fu un successo, perché il Fantasy è
un genere che da speranza quando si è abbattuti, è un genere che
nella sua forma più pura risolleva dalla disperazione.
Quando Tolkien, a sua
volta, scrisse Il Signore degli Anelli, era nella Terra Desolata
degli anni '40 del Novecento, dentro quell'inferno di sangue e
shrapnel della Seconda Guerra Mondiale, dove solo flebili
Irradiazioni come quella di Junger o dello stesso Tolkien brillavano
come fragili fiammelle nel buio più cieco. Tempi tristi, tempi in
cui scrivere Fantasy.
La situazione in cui ci
troviamo, tranne che per pochi privilegiati, è ugualmente cupa:
ritengo che per ragioni geo-politiche ci aspetti un'apocalisse,
l'equivalente del ventunesimo secolo della Grande Guerra. Per questa
ragione, penso che sia di nuovo scoccata l'ora per il Fantasy e per i
grandi romanzi, con cui a tenere a bada l'orrore che ci aspetta.