mercoledì 8 agosto 2018

Recensione di "Thanatolia" (Watson Edizioni): dove i morti seppelliscono i vivi


Copertina di Vincenzo Pratticò
Un cimitero presenta, nella sua stratificazione, nella sua diversità, nei suoi differenti quartieri e abitanti, visitatori e guardiani, la cultura della sua città, villaggio o nazione che dir si voglia. 
La storia di quel luogo, quel centro urbano, viene espressa dal suo cimitero. 
I cimiteri ricordano in tal senso le carote di ghiaccio estratte in Antartide, nella misura in cui rappresentano uno spaccato della storia di quella comunità, dagli albori al presente. 
Senza nemmeno addentrarsi nell'aspetto artistico e/o architettonico, i cimiteri costituiscono una testimonianza storica fondamentale per una comunità, che sia una capitale o un paesino campagnolo. 
Le origini ottocentesche di Trieste, ad esempio, affiorano evidenti nelle tombe borghesi e con simboli massonici, mentre il cimitero ebraico di Praga rappresenterebbe già di per sé tesso un motivo sufficiente per visitare la città. 
In alcuni casi i morti assumono tale importanza da sopravanzare i vivi ed è il caso della magnifica New Orleans; in altri ancora invece vengono costretti negli impossibili spazi delle sovrappopolate metropoli dell'estremo oriente, da Tokyo a Hong Kong. Quando poi il popolo non ha né storia, né cultura, si riducono a distese di croci bianche, come in tanti centri urbani degli Stati Uniti. 

Thanatolia eleva questo concetto all'ennesima potenza, elaborando un mondo fantasy dove esistono solo due città di esseri umani, Handelbab e il porto di Tijaratur, situate ai lati opposti di un continente popolato solo da cimiteri di ogni sorta, dalle piramidi, agli ossari, ai mausolei e così via...
Thanatolia è dunque un continente e allo stesso tempo uno sterminato luogo di sepoltura. In questo posto intere civiltà sono (letteralmente) morte e sono state sepolte... con ovviamente ogni ricchezza e oggetto magico. E qui entrano in gioco i tombaroli: avventurieri, tagliagole e mercenari alla continua ricerca della tomba con cui commettere il “colpo grosso” o in alternativa dove trovare quell'anello, quell'elmo magico desiderato dal committente. 
Thanatolia pertanto è un mondo sacro, innegabile, ma nel contempo è anche un mondo dove comanda l'avidità, dove gioielli e oggetti esoterici di altre civiltà, di altre razze ora scomparse dominano gli scambi. 
Chi comanda i morti, comanda Thanatolia e non deve pertanto sorprendere come la nemesi dei tombaroli siano i negromanti, coloro in grado di riportare in vita gli scheletri sotto le sabbie. 
Temuti, invidiati, perseguitati... i negromanti sono gli autentici feudatari dei territori di Thanatolia, una minaccia tanto per i tombaroli, quanto per le carovane dei mercanti. 

Le Crypt Marauder Chronicles, come vengono chiamate le avventure nella terra di Thanatolia, sono un progetto di Lorenzo Davia & Alessandro Forlani da tempo in corso di svolgimento: aperto a chiunque voglia partecipare, le terre di Thanatolia hanno negli ultimi anni accolto le più svariate avventure, ospitate da Heroic Fantasy Italia. Il passo successivo, grazie al curatore Alessandro Iascy e la traduttrice Annarita Guarnieri di Watson Edizioni, era naturale: pubblicare un'antologia, dove raccogliere la crème de la crème delle avventure “criptiche” di Thanatolia. 
Dopo una lunga gestazione, l'antologia è finalmente disponibile, su ebook e su carta: un voluminoso malloppo, che non ha nulla da invidiare a produzioni più blasonate o pubblicizzate. 
Con un'introduzione di Gabriele Campagnano, l'immaginifico patrono di Zweilawyer e le violentissime illustrazioni di Alex Reale, Thanatolia è il Graal nella tomba, il tesoro alla fine del Dungeon. 

E' interessante come, nonostante l'antologia abbia lasciato una notevole libertà ai suoi partecipanti, i diversi racconti si siano rivelati molto simili tra loro, specie nell'utilizzo di alcuni stilemi e argomenti. L'oralità, nella forma di un racconto in taverna o davanti a un fuoco, rappresenta l'incipit preferito, mentre i protagonisti sono risultati tutti avventurieri, eroi o tombaroli. Un mercante in un caso, un negromante in un altro... ma pur sempre guerrieri e umani. 
E a questo proposito, gli scrittori hanno preferito tombe e sepolcri occidentali, afferenti all'età medievale, rinascimentale o, con un salto all'indietro, egizia. Si tratta di un'evidente influenza fantasy e ruolistica, anche se viene a mancare quella diversità di “sepolcri, cripte, sarcofagi, tombe, catacombe, mausolei, cenotafi” proposta nella sinossi. Sarebbe stato possibile inventarsi tombe aliene o apocalittiche costruzioni megalitiche, dalle impossibili dimensioni. Si è invece preferito utilizzare luoghi di riposo più “tradizionali”, con tanto di guadagnato nelle aspettative dei lettori. 
Una graditissima sorpresa invece la profonda diversità di periodi storici a Thanatolia: si passa dalle ambientazioni arabeggianti e autoironiche di Lorenzo Davia, al fantasy visionario e barocco di Henriet, alla sporcizia e al decorativismo seicentesco di Forlani, degno della Guerra dei Trent'Anni. Senza tralasciare il fantasy medievale di Aztori e tanti altri...
Se qualcuno chiedesse la mia opinione, ed è noto che nessuno la chiede, come ricorda Gimli, Thanatolia funziona al suo meglio come ambientazione cinquecentesca, alle soglie dell'età moderna, o come ambientazione barbarico-fantasy, arricchita dalla visione di civiltà decadenti e corrotte. 

Riusciranno i nostri eroi a sconfiggere gli stereotipi del fantasy e a conquistare il tesoro più prezioso di tutti, ovvero l'interesse del lettore? 
Vediamolo insieme, racconto per racconto. 



La prima storia, “La versione di Margutte”, di Mauro Longo, riassume bene il tono generale della raccolta: una voce narrante, un'avventura tra le tombe e un mostro finale, il tutto trasfigurato dai richiami alla letteratura rinascimentale e un certo qual tono scanzonato, molto italiano. 

Il protagonista, Boccaporco, un mezzo gigante, meno stupido di quanto sembri, viene ingaggiato dallo Sparviero per mettere assieme una posse con la quale compiere una pericolosa missione. Sparviero è un “ladro-stregone” famoso nelle bettole di Thanatolia per gli esperimenti di magia nera: un damerino tanto azzimato quanto pericoloso. Lo Sparviero desidera i “Mostri” e Boccaporco è più che lieto di accontentarlo, mettendo mano a un A-Team di mutanti e psicotici. 
Una scelta azzeccata, perchè il misterioso obiettivo dello Sparviero richiederà una notevole dose di follia per essere solo pensato, tantomeno affrontato...

Nonostante l'introduzione nella taverna sia un clichè, la storia si sviluppa rapidamente con una serie di scene ad alto tasso di gore e uno scontro finale senza dubbio degno della tensione accumulata. 
C'è una genuina cattiveria sottotraccia l'intera storia, espressa al suo meglio nell'indifferenza con la quale Boccaporco accoglie la morte dei compagni di viaggio. 
Il punto di vista dello scavafosse viene trasmesso bene, con un raschiare di gola e una volgarità che non trasborda mai nell'eccesso tarantiniano. Boccaporco è un uomo pratico, ma nonostante lo scarso intelletto, possiede la furbizia di una belva. 

Scavafosse. Il miglior mestiere di Handelbab. Il lavoro non manca mai e non bisogna neanche ammazzare la gente, ché te la trovi già morta davanti alla porta, pronta da seppellire. Insomma, scavo le fosse e ce li butto dentro, i corpi di quei poveracci senza soldi da parte per farsi cremare, e li lascio lì per i ghoul che arrivano poi da sotto. Il trucco, dice, è di scavare abbastanza così non se li mangiano i ratti, ma senza andare troppo giù perché altrimenti si apre un buco nelle tane dei ghoul e quelli poi si prendono il morto con tutto lo scavafosse. Dice anche che la profondità perfetta la conosce il vecchio Lettera, che scava fosse da quarant’anni, e dice che sta scritta nei libri. Ma quello se lo sono preso i ghoul prima che arrivo io, e quindi non me la può spiegare più.

La voce del narratore scivola certe volte nel grottesco puro, ad esempio nella descrizione dell'armamentario di Boccaporco: 

Io non voglio sprecare tutto quell’oro per comprarmi di nuovo le armi, e cosi mi porto dietro la vanga e un blocco di pietra delle Fosse di Sotto, una lapide che ho attaccato a una catena lunga venti braccia. Gli altri invece sono carichi come quelli che vanno alla guerra.

Altre volte invece Boccaporco è troppo intelligente, troppo sofisticato nel voler rompere la quarta parete e rivolgersi al lettore/uditorio della taverna, ad esempio in questo caso: 

No, ma che fate? Vi stranite? Senz’offesa compari, non lo dico per insultarvi. Questa è la mia parlata, che io sono ignorante e popolano.Qui sotto parliamo tutti cosi. Lo faccio, come si dice, senza malizia. Se vi devo dire quello che penso veramente di voi, allora in quel caso sì che sono cazzi vostri…

Nessun redneck ammetterà mai d'esserlo, così come nessun stupido si considera tale, altrimenti non sarebbe così stupido. Che Boccaporco si autodefinisca in questo modo è un'intromissione dell'autore, evidente quanto una voce dal cielo. Non è molto diverso dal protagonista che si descrive allo specchio o che ricorda al lettore il proprio nome, cognome, altezza, provenienza e colore degli occhi... fortunatamente è l'unico cedimento nella voce di Boccaporco, che rimane dall'inizio alla fine fieramente rozzo e brutale. 


Si procede di bene in meglio con il racconto seguente, “Chi di spada ferisce”, di Alessandro Forlani
Nella città di Haldebab, il mercante Vashqa gestisce un ring dove il suo guerriero, Montoya, sfida chiunque abbia il coraggio di affrontarlo a duello, con un sostanzioso premio in palio. Montoya è solo un ragazzino, ma per lo stupore degli astanti, sembra impossibile da sconfiggere. Quando un giovane nobile, Frederigo, muore in punta di fioretto per vendicare l'onore della sorella, Camilla, il cui fidanzato era già stato ucciso da Montoya, la giovane ingaggia Malqvist, uno sporco mercenario. L'indagine metterà a dura prova lo scetticismo di Malqvist verso la magia...

Mentre l'ambientazione di Longo era ancora ascrivibile a un generico Rinascimento, Forlani traspone Thanatolia nell'età moderna: l'agire dei personaggi ricorda le avventure del capitano Alatriste, di Arturo Pérez-Reverte. Una dose di umorismo picaresco miscelata a raffinatezza e crudeltà in egual misura, versate nel contenitore di un lessico che alterna volgarità a espressioni erudite: si va dal “ragazzino di un metro e un cazzo con quel ridicolo spadino” a “La sua bocca era un rubino corrucciato e delicato”. 

E' inoltre interessante come Forlani si mantenga attento alle differenze sociali interne all'ancient regime di Thanatolia, con il mercenario Malqvist involontariamente deferente verso la nobiltà e nel contempo la contessa Camilla che non risparmia insulti verso il suo ingaggio, definito “selvaggio con un'etica” e “bifolco”. 

«Cedi il passo, bifolco, ché son venuto a lavare un'onta». Il suo tono, il suo furore, la giustizia che lo incendiava non ammettevano discussioni: Malqvist lo lasciò passare, obbedendogli con istintiva e timorata soggezione: il diritto di un nobile, il diritto di un dio… Ma la ragazza, avvinghiata al giovane, lo implorava di non battersi.

Pur concedendo che il punto di vista sia quello di Malqvist, gli aggettivo che accompagnano i diversi personaggi a volte suonano ridicoli, a partire dal “laido Vashqa”.

Il patriarca di Thanatolia, Lorenzo Davia, scrive il successivo racconto, “Il Vecchio Pharank”.
La città di  Tjaratur ha lungamente sofferto l'oppressione del negromante Pharank, fino a quando la popolazione si è ribellata e i “Cinque Valorosi” hanno sconfitto il nemico, spogliandolo di ogni potere magico. Diversi anni dopo, Pharank è solo un vecchio che mendica nella città dove un tempo dominava, riciclando spazzatura per pochi soldi. Belsh l'Apprendista, una giovane spia, lavora al servizio dei Cinque, tenendo sott'occhio il “Vecchio Bastardo”. 
Ma lo stregone non è inoffensivo come sembra...

Lorenzo Davia garantisce sempre un'avventura assolutamente bonkers, fuori da ogni schema e il seguente racconto non fa eccezione, con un colpo di scena degno della professione d'ingegnere dell'autore. Quando si tratta di “osare” senza timore di sfociare nel ridicolo, si può sempre fare affidamento su Davia. 

Il racconto, rispetto ai due precedenti, mantiene un'ambientazione medievale, vagamente arabeggiante. Si segnala una sovrabbondanza di nomi, specie all'inizio, con quel “Belsh l’Apprendista era nascosto tra i vicoli di Tjaratur e spiava il Vecchio Pharank”, dove si sbatte in faccia al lettore tre nomi e due soprannomi nell'arco di una riga. 

Laura Silvestri tratteggia ne “La collina di Bakenoteph” una classica storia fantasy: un gruppo di avventurieri, un dungeon da esplorare, un mostro da sconfiggere. 
La storia è nell'insieme piacevole: un'atmosfera dapprima western nelle prime pagine cede il passo all'azione e ai combattimento di uno Sword&Sorcery

Il racconto viene narrato dalla prima persona di Baizan Raghall: un pischello alle prime armi accodatosi ai “grandi”, tra cui spicca il personaggio di Tuya, l'eroina della storia. L'obiettivo della quest è il mausoleo di Bakenoteph, dove secondo la leggenda viene conservata la Coppa della Conoscenza. 

Specie all'inizio il racconto incespica su alcune espressioni e descrizioni involontariamente comiche, dove l'attrazione del protagonista verso le due guerriere del gruppo viene descritta come il “giovane corpo” sempre “pronto a bruciare di passione” verso “l'attraente predatrice”. 
Il secondo personaggio femminile, Tuya, si rivelerà poi verso la fine della storia un'autentica Mary Sue, capace di distruggere tutto e tutti. 
Come nei racconti precedenti, è difficile galleggiare nell'alluvione di nomi scaraventati in faccia al lettore. 

Uno di questi è il nome di Narantuya delle terre dell’Est. Io, il Sopravvissuto, ho avuto la fortuna di conoscerla quando ancora era nota soltanto come Tuya, la più fedele prezzolata al soldo di Levias Aurotene, e di poter vantare, negli anni a seguire, il beneficio della sua amicizia. 

Dal genere avventuroso alla storia di formazione con un twist fantasy con il racconto successivo, “La prima volta”, di Domenico Mortellaro
Garen di Altoscoglio, come altri giovani della sua generazione, deve compiere il rito di passaggio all'età adulta cercando fama&fortuna nel mondo: una spada in mano, qualche soldo e tanto coraggio. Garen è appena arrivato con gli amici presso il porto di Grande Città, quando viene avvicinato da una cortigiana che batte le strade, Maureen, che gli offre a un modico prezzo i suoi servigi e un alloggio per la notte. Nell'intimità delle lenzuola, Maureen regala al ragazzo delle dritte su dove cercare una buona tomba da saccheggiare. 
Ma non è oro tutto ciò che luccica, come si suol dire...

Ho apprezzato lo sforzo, quasi antropologico, di Mortellaro per ricostruire questo momento di passaggio per i giovani di Altoscoglio, simboleggiato dallo strappo al mantello. Garen è il classico giovane eroe, ma con un suo carattere e una sua motivazione. 

Ricordò le parole di sua madre, baro come tutte le madri di villaggio che salutano i figli nel giorno del taglio: «C’è qualcosa di più dei pezzi di ferro, Garen… scambiali bene, che sono ori antichi.» Funzionava cosi, sempre, per tutti quelli che alla diciottesima primavera venivano allontanati dalla famiglia e dal villaggio, per esservi riammessi solo dopo aver fatto esperienza nel mondo.Ti buttavano addosso una scorza di cuoio per proteggerti alla bell’e meglio, ti mettevano tra le mani uno spadino o un ferro vecchio per difenderti in qualche modo, un sacco sulle spalle con dentro qualche fesseria per non dover temere troppo la notte e il freddo, e un mantello strappato, di sotto, perche tutti capissero che era la prima volta che uscivi nel mondo. Gia, perche lo capissero tutti, senza distinzioni: buoni di cuore e avidi di spirito.

La scena della seduzione ad opera dell'ammaliante Maureen scivola nel trash, ma ovviamente de gustibus non est disputandum, ecc ecc 

Per un attimo temette per la piccola bisaccia appuntata sul retro della spianata di cuoio… poi sentì le dita fredde dirigersi altrove. E allora tremò per un timore diverso, una paura che aveva desiderato da anni e mai aveva confessato… che prima del taglio di certe cose non è bene nemmeno confidare. La punta delle unghie, i polpastrelli freddi, quella stretta gentile e sicura: tremò spaventato per quelle sensazioni nuove. Non tanto quel sentire il ventre premere furioso, teso, quanto le nuove sensazioni che quel tocco così diverso dal suo – rude, inesperto e sbrigativo – gli aveva regalato. 

E per infierire, dopo una notte d'infuocata passione (sic), Galen è diventato un “castigafanciulle”.

«E si, Garen. Non sarai ancora un ammazzadraghi e di certo i segreti per terrorizzare un ghoul ti difettano ancora… ma fidati, puoi dirlo forte, da oggi… castigafanciulle lo sei, per davvero!»

Complessivamente un buon esempio della diversità di generi e atmosfere presenti nell'antologia. 



Si passa all'azione muscolare con “L'Arena”, di Fabio Andruccioli, un racconto di sudore, sangue ammazzamenti nell'anfiteatro. 

Kurd è un cavaliere di nobile origini, la cui casata è da tempo caduta in rovina. Si guadagna da vivere come mercenario, alla ricerca di un'impossibile redenzione. Lo stomaco vuoto e la scarsella al verde, viene ingaggiato da un certo Ghasulgha, il regnante di Masarat, una città abbandonata nel deserto. Kurd è stato contattato per combattere nel circo contro altri soldati suoi pari, per decretare chi sia il “miglior guerriero di Thanatolia”. La città è una deserta necropoli, i cui abitanti sono tutti ultimi arrivati e dove regnano in realtà i non-morti, autentici padroni delle sabbie. Kurd scoprirà presto come a essere in pericolo non è solo la sua vita, ma la sua stessa anima...

Il racconto di Andruccioli è un solido pezzo d'intrattenimento: una sessione videoludica di Battle Royale ambientata a Thanatolia, arricchita da un protagonista convincente e una buona resa dell'azione. I combattimenti sono girati con efficacia e i diversi personaggi tratteggiati ciascuno con quei tic, quei dettagli che li allontanano dai soliti stereotipi. 

Abbiamo Bankimul, l'oscuro alchimista di Tijaratur. Le gemelle Isera e Samrade, sinuose e velenose come vipere. Il gigante muto Oeno. Mastro Liovio e la sua magia meccanica. Resaj, detto il guaritore. E in ultimo, ma non ultimo, Kurd il mercenario di Handelbab, detto il Rinnegato. Domani mattina sarete nell'Arena, davanti a un pubblico maestoso. Suggellate le vostre alleanze, confrontatevi pure. Domani sarete tutti nemici. 

Il finale purtroppo tenta un colpo di scena decisamente poco credibile, abbozzato letteralmente nell'ultima riga. Senza far spoiler, sembra il jump scare di un filmetto horror. Ovviamente dipende dallo stile e dalla tipologia di narrazione, ma anche un colpo di scena ha bisogno di un minimo di respiro, di preparazione per rendere al meglio. 

Il racconto che segue, “Di mille secoli il silenzio”, è un eccellente aggiunta all'antologia da un vero maestro della parola scritta, ovvero Andrea Aztori

Il protagonista, Graham Larson, è un taglialegna in un mondo, quale Thanatolia, “che da millenni non faceva che fabbricare casse da morto e cremare corpi”. La storia esordisce con Graham in procinto di raccogliere le ceneri dell'amatissima figlia strappatagli anzitempo. Il cadavere tuttavia è stato trafugato, assieme a quelli del crematorio, da una banda di cultisti agli ordini di un negromante. Pieno di rabbia, ascia alla mano, Graham si prepara ad “accettarei malviventi...

Aztori modella dal nudo tronco di una semplice revenge story un racconto brutale e nichilista, senza digressioni o variazioni comiche. Graham non cerca compagni per l'avventura, non è interessato ai tesori delle tombe, ma desidera solo la vendetta. L'azione concitata viene resa bene, così come la rabbia del protagonista. 

Purtroppo il racconto soffre di un'eccessiva genericità, a malapena ravvivata dall'inaspettato finale: Aztori poteva ambientare il racconto a Thanatolia, così come in qualunque altra ambientazione fantasy. I riferimenti a Thanatolia e un paio di descrizioni non detraggono da quant'è piuttosto un racconto medieval-fantasy. 

Si ritorna alle atmosfere gotiche e imperiali con “La Prigione di Zaffiro”, di Alessandro Forlani
Levias, un mercante dal passato di mercenario, gestisce un banco dove acquista e sovvenziona spedizioni dei tombaroli nel profondo di Thanatolia, alla ricerca dei più disparati tesori. 
Un giorno, tra i gioielli dell'ultima spedizione, scopre un anello di zaffiro: un oggetto magico, capace di custodire all'interno una cella, dov'è imprigionato un fantasma con un libro di magia nera. Qualunque persona di buon senso getterebbe l'anello nel più profondo dei pozzi, ma Levias è un mercante e come tale diventa ossessionante dall'anello, consapevole come sia la chiave per una grande ricchezza...

Il racconto riprende le atmosfere e il lessico della precedente storia di Forlani, ma l'arricchisce con un protagonista notevolmente più approfondito, la cui conoscenza demonologica e fame di ricchezza lo rendono convincente e sgradevole. La cella dimensionale, miniaturizzata nell'anello, per quanto non sia un'idea nuova, permette sviluppi della storia imprevedibili, destinati a culminare in una delirante mischia finale. Entrare nell'anello, soddisfarne i desideri, saperlo comandare beneficiano tutti dell'usuale conoscenza esoterica dell'autore: 

Un'ombra inquieta si dibatteva dentro la pietra quadrangolare. Levias guardò meglio: all'improvviso rabbrividì, e un olezzo di putrido gli mescolò le budella. Lo circondarono le quattro mura di una sala senza uscite, una triste e foca luce gocciolava da una grata. Si trovò rannicchiato, nudo, in un angolo di quel carcere, stordito dal terrore e dalla vertigine del luogo. 

Si tratta anche del racconto in assoluto più brutale, che colleziona un insieme di mercenari e tagliagole l'uno più repellente dell'altro, decisamente lontani dall'immagine idealizzata o fintamente dark dei “soliti” romanzi. Citerò tra tutti la malvagia virago al servizio di Levias, quanto di più lontana dalle guerriere impellicciate di tanto fantastico di mezza tacca. 

Si calzò l'elmetto a punta con la cresta di crine di cavallo, trattenne il fiato a indossare un giaco e infoderò le balestrine. Prese bussola, mappe e il cannocchiale, montò in arcione e uscì in strada ad arringare quei prezzolati. Lo psicopatico con la lametta fra i testicoli, che sprizzarono sangue nero sulla sella, ebbe l'onore di presentargli uno squadrone di cavalleria dei peggiori criminali che gli fossero capitati. Più di tutti lo colpì quella ragazza macilenta, con tatuaggi di neonati come tacche su una spada: «Sono gli aborti dopo ogni stupro, vossignoria» lo prevenne la tagliagole. Fece un cenno al capobanda e gli soffiò all'orecchio mozzo: «Non mi sta bene di avere sul libro paga una cagna che in così tanti si son presi con la forza: vi avevo chiesto dei tipi tosti.» «È lei che li stupra e uccide» spiegò lo psicopatico, arrossendo.

Il creatore di Thanatolia ritorna a deliziarci con un breve intermezzo, “La forma della tua morte”. 
Tre avventurieri scelgono di compiere una deviazione per un cimitero abbandonato, dove scoprono una serie di tombe modellate nella pietra: ogni sagoma corrisponde a un diverso essere vivente, dall'uomo, alla donna, agli animali... 

Il racconto è divertente e possiede alcuni elementi conturbanti. Se confrontato con il racconto precedente risulta anche meno confuso nell'uso dei nomi. Un problema non indifferente è nella fonte d'ispirazione: il racconto è davvero troppo, troppo ispirato al manga L'Enigma di Amigara Fault di Junji Ito
Nel fumetto dell'autore giapponese, una serie di spaccature nella pietra attraggono irrimediabilmente gli abitanti della vicina città, che avvertono come le diverse forme nella pietra corrispondano alle proprio silhouette, ai propri corpi. Il racconto di Davia è una declinazionetombale” di quest'espediente e come tale si esaurisce in esso. 


Il tasso di violenza non accenna a diminuire (e questo è un bene!) nel racconto successivo, “La tomba sul mare delle Messi”, di Domenico Mortellaro
Alek e Larissa, marito e moglie, inseparabile coppia di tombaroli, sono sulle tracce di un antico sepolcro che si crede maledetto. Alek è convinto come siano tutte sciocchezze, Larissa invece non perde occasione per fare marcia indietro. Come sempre, la verità sta nel mezzo...

Un racconto piuttosto convenzionale, che parte in medias res, si arresta nella minuta descrizione dello scoperchiamento e saccheggio della tomba, per poi rivelare un finale a sorpresa. Mortellaro compie un bel lavoro nell'aumentare gradualmente la tensione, al punto che lo scontro finale risulta essere (quasi) un sollievo. La parte centrale tuttavia tende a trascinarsi, mentre le scene di passione tra i due amanti, ancora una volta, risultano ridicole (Harmony docet). 

Laura Silvestri continua le disavventure di Tuya con il racconto “La chiave di Narayagan”. Nuovamente raccontato dalla voce di un Baizan ormai anziano, la guerriera e i suoi compagni devono affrontare una minaccia non morta nel cuore della città. 
Meno banale del precedente racconto, il colpo di scena garantisce un buon finale. I dialoghi sono di tanto in tanto imbarazzanti, mentre l'immagine di Tuya che rotea una pesante spada lunga sopra le spalle alla pari di un fioretto poteva essere evitata. 

Alberto Henriet, immancabile presenza nelle antologie Sword&Sorcery, torna alla carica con “Nikolai il negromante”. 
Seguiamo le disavventure di un negromante, Nikolai, esiliato dalla sua terra natale, Kryptoria, e condannato a vagare nelle lande di Thanatolia. 

Sono sempre stato piuttosto critico nei confronti dei racconti di Henriet nelle diverse antologie e con ragioni squisitamente oggettive: letteralmente la storia nei suoi racconti non sembra sussistere, sostituita da un'intelaiatura di simboli e immagini scollegate tra loro. I suoi protagonisti allora vagano sconsolati di scena in scena, senza si venga a creare un vero intreccio narrativo. Questo non detrae dalla bellezza delle descrizioni o dalla ricchezza esoterica dei racconti, ma è innegabile come non vi sia un interesse a intrattenere il lettore. 
In questo caso tuttavia spezzo una lancia a favore di Nikolai, perchè tra tutti i racconti Henriet sembra essere stato l'unico a catturare la potenza immaginativa propria di Thanatolia. L'abilità descrittiva dell'autore sprigiona una tale ricchezza – lessicale e figurativa – che Thanatolia finalmente si distacca dalle simil-copie fantasy dei racconti precedenti, per elevarsi a luogo con una sua dignità, barocca e mostruosa. 

La piramide si elevava al centro di un deserto costituito in parte dalla cenere di milioni di cadaveri che si era accumulata nell'arco di centinaia di anni. L’atmosfera era allucinata, e il sole era una macchia di rame lustro sospesa all'orizzonte e pronta a scendere oltre la scabra catena montuosa che segnava il confine con l'Oceano. 

Henriet è anche l'unico autore ad aver intuito, nel riferimento alle “tombe aliene”, come Thanatolia sia terra di cimiteri di ogni creatura e non solo di sepolcreti medievali. Ovviamente questa cura nella descrizione si riflette anche nei personaggi, ammazzando il lettore con i dettagli sul colore delle scarpe del negromante, mentre i dialoghi sono talmente monchi da risultare gutturali. 

Il racconto inoltre viene troncato a metà dello svolgimento e come tale sembra più uno spaccato delle avventure del negromante, che una storia compiuta. Pazienza! Ci rimangono alcune immagini di rara bellezza, il che non è poco. 

"Middenheim", vecchia illustrazione interna di Russ Nicholson

Il patriarca di Thanatolia torna con un'altra creatura, ovvero “La colpa”, di Lorenzo Davia
Il mercenario Elgon de Sinaia scopre di essere il bersaglio di un misterioso nemico, che utilizza i non-morti per dargli la caccia. In quello che a tutti gli effetti è una storia giallistica ambientata a Thanatolia, dovrà smascherare il suo nemico, con l'aiuto di una monaca, Inalhia. 

Racconto un po' sottotono rispetto ai due precedenti, anche se il personaggio di Elgon è abbastanza simpatico. Per il resto, tanto umorismo e alcune scene di vita civile a Thanatolia.

Passò per teatri anatomici dove si dissezionavano i cadaveri meglio conservati, incrociò apprendisti barcollanti sotto il peso delle pergamene, interruppe una lezione di storia sull’Antico Impero seguita da sbadiglianti studenti e infine giunse allo studio di Idichius il Saggio.

Un Alessandro Forlani in gran forma scrive il racconto che segue, “Un patto nelle tenebre”, dove ritorna all'attacco il Malqvist della prima storia dell'autore. 
La pancia che rumoreggia, la scarsella vuota, Malqvist decide di cercare fortuna come tombarolo, aggregandosi a una sgangherata spedizione di tagliagole con niente da perdere. L'avventura che seguirà costringerà ancora una volta lo scettico Malqvist a doversi confrontare con la peggior magia nera...

Riferimenti a Levias permettono di mantenere la necessaria coerenza tra le diverse storie tra loro intrecciate, mentre ancora una volta colpisce quanto siano diverse le bande di avventurieri di Forlani rispetto agli “eroi” delle altre storie. I toni horror qui prorompono con forza. 
Doveroso segnalare almeno questo scambio di battute con una strizzata d'occhio al lettore di Heroic Fantasy: 

«Ne sei capace, tu?!». 
«Sono Comedius, un negromante.» 
«Come no. E io sono Re Kull»

Domenico Mortellaro re-inventa da zero Thanatolia con poche pagine di racconto: “Fosse anche solo un cerchio di ferro, un coccio di vetro.” presenta il continente asservito e soggiogato dalla Necromadre, dove i diversi cimiteri sono stati divisi in lotti, tassati e distribuiti tra chi se li può permettere, una versione letterale di Capitalism Kills
Una malattia, di cui non ho bene capito la natura in realtà, spazza il continente, ammalando gli esseri umani con una graduale corruzione della carne, che diventa incartapecorita fino a mummificare la vittima. La trasformazione è molto lenta e pertanto i malati vengono rinchiusi negli appositi campi, alla pari dei lebbrosi medievali. Il protagonista, innamorato di un'altra malata, desidera regalarle un anello, ma per farlo deve saccheggiare una tomba...

Tralasciando un'overdose di corsivi, il racconto è decisamente una tacca sopra il precedente: le atmosfere nel “Lazzaretto 41” sono bene descritte, così come la debolezza e la disabilità del protagonista a cui la malattia sta rinsecchendo la gamba. I riferimenti politici all'anarchismo nell'ultimo colpo di scena sono un po' eccessivi, ma ci possono stare. 
Chi l'avrebbe mai detto? Una Thanatolia distopica e/o post apocalittica!

Un continente quale Thanatolia non si presta alla navigazione, in effetti non ricordo di aver visto sulla mappa fiumi o laghi, anche se è possibile immaginare alcuni bei scenari con tombe sotterranee al centro di laghi abitati da mostruosità acquatiche... ma sto divagando: “La nave maledetta” di Fabio Andruccioli è l'unico racconto “acquatico” dell'antologia.

I mercenari chiamati i “Fratelli Linderbalg” vengono assoldati da un sospetto individuo di nome  “Azaroth-al-Abel” per fare incursione su una nave ormeggiata presso i moli e rubarvi un magico oggetto. 

Come avranno intuito i lettori più attenti, è un'avventura in odore di Lovecraft, con tanto di uomini pesce, tentacoli e profezia finale. Andruccioli è portato a descrivere buone scene d'azione, le quali si susseguono senza sosta. Rimane un racconto molto clichè, scollegato dal filone principale. 

Lorenzo Davia continua a narrare le disgrazie di Elgon con il racconto alla Joyce “Ritratto del tombarolo da giovane”. 
Elgon trova un insperato ingaggio come scorta e modello (!) di un famoso artista di Handelbab, desideroso di dipingere i suoi quadri “dal vivo”, scene di battaglia e non-morti compresi. 
Giù dunque tra sepolcri e tombe, a duellare con una mano e dipingere con l'altra, cavalletto dietro e scudo davanti. A complicare le cose, i colori dell'artista non sono prodotti in fabbrica, ma come poterlo spiegare? Sono ben più “naturali”... 

Raggiunsero l’ultima camera della tomba, dove giaceva il sarcofago dello stregone. Un servo teneva in mano la torcia illuminando gli affreschi sulle pareti. «Graziosi» commentò Pathein, dopo averli studiati, «anche se la tecnica prospettica è un tantino superata»

Il racconto congiunge il meglio della follia inventiva dell'autore con il suo senso dell'umorismo, ingenerando un Frankenstein di citazioni, battute e scene esilaranti. Una nerissima commedia, a cui non viene risparmiata l'usale dose di combattimenti. 

A dare la mazzata finale al lettore, ecco giungere l'ultimo racconto, “L'Inferno non ha mappe”, di Luca Mazza
Veltro di Penumbria è uno spadaccino e pistolero, di mestiere sicario: un'offerta “di lavoro” per conto del boss mafioso Tiamat Aurotene, imparentato con quel losco Levias di Forlani, lo porta a Thanatolia. Tiamat è stato umiliato da un furfante tombarolo, Mantera, la cui banda ormai minaccia l'assoluto monopolio di Tiamat sul commercio dei manufatti dei cimiteri. 
Veltro scoprirà presto come in Thanatolia non solo i furfanti non rispettano la legge, ma gli stessi morti non rispettano la legge della vita...

Mazza intesse con quest'opera qualcosa di più di un racconto, piuttosto una vera e propria novella, che si inserisce perfettamente come pezzo finale ai precedenti tre racconti di Forlani. 
L'incipit desertico e surrealista cede rapidamente il passo agli orientalismi della città, per passare alle solide atmosfere di un western shackerato con l'horror più puro. Una miscela capace d'incendiare gli stomaci delle anime candide che ragionano a scomparti chiusi, di genere in genere, ma che personalmente ho trovato squisita, al punto da volerne un'intera bottiglia, diamine facciamo pure una cassa intera, anzi, l'intero bar già che ci siamo...

Il racconto soffre di una partenza troppo brusca, dove letteralmente non ci si raccapezza chi sia Veltro, chi siano i Vitruviani, dove accidenti siamo... Tuttora non ho ancora compreso chi sia “Calcabrina”. Probabilmente il personaggio era già comparso in altre storie, ma così com'è si rischia di restare disorientati. 

Man mano che si procede, la storia diventa invece comprensibile. Lo stile di scrittura adopera il termine più specializzato possibile, rifuggendo da ogni espressione vaga: questo è un bene, ma si sprofonda in alcuni passaggi nell'incomprensibilità
Qualche esempio: “tersicorea”, “emicicli di divani”, “plinti colmi di gradali”, “volutabro”, “ubbie irrazionali” e così via... alcune volte questa scelta esprime bene la stravaganza del luogo, come nel caso del “gineceo di baiadere”. 
Quando si tratta di descrivere mostri (e quali mostri, dannazione!) Mazza sfodera un lessico medico/chirurgico/chimico degno del migliore scienziato folle. 
Quando invece sono scene di vita civile, ci regala alcune belle immagini, degne dello scomparso Alan D. Altieri e dell'epigono horror Manzetti, ad esempio con “attirò l'attenzione dell’oste, un quintale di lardo ginoide nudo fino alla cintola”; oppure l'efficace “Il nano lo radiografò dietro gli assurdi oculari”. 

L'elemento soprannaturale, ben gestito, oscilla tra il fantasy e il weird, quest'ultimo inteso come fusione di horror e fantascienza. Mi ha vagamente ricordato il soprannaturale presente nelle storie di Eymerich di Valerio Evangelisti, con la fondamentale differenza che ci vengono risparmiati i pipponi dell'autore. 

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