Sarebbe un campo di studio assai interessante e fecondo di applicazioni, anche al di fuori dell'orticello accademico, studiare il legame tra esoterismo e mondo della scrittura, tra i praticanti di arti occulte e i “maghi” della parola.
H.P. Lovecraft, un ardente materialista, ateo e convinto sostenitore del movimento tecnocratico, riciclava spesso paccottiglia esoterica nelle sue opere, dalle invocazioni magiche all'uso dei nomi, ad esempio nell'Orrore a Red Hook o ne Il Caso di Charles Dexter Ward.
Se questo fatto è universalmente noto, come comprovano i tanti intellettuali che continuano a cascarci e i minus habens che provano a evocare uno Shoggoth in giardino, rimane invece meno conosciuta l'influenza dell'esoterismo d'inizio secolo sulla produzione fantastica anni Trenta.
C'è un intero filone della saggistica, collocabile tra la fine dell'ottocento e i primi anni del novecento, scritto da storici, antropologi e studiosi dilettanti, dove si postulano le origini misteriose di continenti scomparsi, oggetti e reliquie sacre (o magiche, se preferite) e fantomatiche provenienze mitologiche dei popoli europei.
Lungi dall'essere ironiche, sono narrazioni assai pesanti e dimenticate da tutti, tranne che dagli accademici: lunghe digressioni senza metodo e rigore scientifico, dove si inseguono le ipotesi più balzane per giungere a prevedibili conclusioni.
Se storici, ci si diverte a inseguire il filo rosso di documenti manipolati ad hoc o in alternativa li si inventa da zero. In altri casi ci si improvvisa linguisti o glottologi, inventando radici primitive di parole comuni e correlandole ad antiche civiltà.
Questi “ricercatori” erano il più delle volte professionisti della polemica, intellettuali col vizio dello scandalo o giornalisti: non interessava cercare la verità, ma fornire un antenato mitico alla propria nazione o gruppo etnico, per avvalorare un'azione nel presente.
Nonostante quindi siano tesi vecchie e sorpassate, erano su queste basi che si formavano gli scrittori poi attivi negli anni Trenta e successivamente negli anni Cinquanta e Sessanta; era questo genere di paccottiglia a nutrire l'immaginazione e quanto oggi definiremmo la visione “storica” degli scrittori e artisti. Come la nostra visione del Medioevo purtroppo affonda in un misto di preconcetti e stereotipi trasmessi da History Channel, così la visione Fantasy e Weird di quegli anni si alimentava di questi miti vittoriani con i quali erano cresciuti.
A questo proposito uno scrittore fondamentale è Ignatius Loyola Donnelly, autore vittoriano di numerosi studi sul continente scomparso di Atlantide e sicuramente uno dei fondamenti di tanto worldbuilding dello Sword&Sorcery. Ignatius affermava di aver tradotto mosaici Maya che comprovavano l'esistenza di Atlantide ed era convinto che esistesse un continente affondato nel Pacifico chiamato “Mu”.
Le sue teorie riscossero all'epoca un notevole scalpore e – fondamentale dettaglio! – i suoi libri erano ancora molto diffusi quando si iniziarono a scrivere le prime avventure fantasy di Spade&Stregoneria. Il mondo di Hyboria, così come di tanti altri autori, deve molto all'Atlantide d'Ignatius.
William King, durante una discussione su Goodreads del 2015, osservava come la teosofia della Blavatsky – indigeribile miscela di pattume fanta-religioso – abbia però fornito un'insostituibile base a tanto fantasy dagli anni Trenta in poi.
William King si riferiva sopratutto a Lin Carter negli anni Sessanta, ma alcuni degli elementi della Blavatsky mi sembrano caratteristici dello Sword&Sorcery come genere vero e proprio.
La Blavatsky scriveva di un continente chiamato “Lemuria” e nella sua mitologia compaiono uomini-lucertola e armi fantascientifiche inserite nella Terra agli albori della Preistoria. Tutto ciò era per la Blavatsky uno studio “serio”, ma non risulta affatto difficile riconoscervi gli elementi “sottratti” dagli scrittori fantasy per le proprie avventure.
Il continente mitico e ancestrale, dominato da città stato, barbari nerboruti e imperi decadenti, deve molto a questo filone pseudo-scientifico, così come l'idea di una civiltà antichissima che regna tra popoli primitivi, con l'ausilio di avanzate tecnologie.
Edward Bulwer-Lytton, a cui dobbiamo l'infausto “era una notte buia e tempestosa”, scrisse nell'ottocento “La Razza Ventura” (The Coming Race, 1871): un romanzo razzistello dove un ingegnere inglese scopre dentro un sistema di grotte una razza aliena di superuomini nietzschiani. Lytton, il cui figlio a sua volta scrittore rimarrà responsabile di uno dei peggiori genocidi della storia coloniale inglese, inserisce dentro questo romanzo tante tematiche caratteristiche della narrativa di Burroughs e della sua produzione pulp. La Terra Cava, poi ripresa dal Pellucidar di Burroughs, il “Vril” magica sostanza miracolosa, “carburante” del futuro, i poteri psichici e la tecnologia più “fanta” che scienza...
Quanto fanno gli scrittori del “fantastico” è sfruttare questi elementi mitologici, esoterici e pseudo-storici come materiale per le proprie opere. Viene totalmente a mancare qualsiasi rispetto verso una presunta attendibilità della filosofia o mitologia, spietatamente saccheggiata per i propri scopi.
La paccottiglia superstiziosa di tante sette, movimenti e complotti trova così una dignità che non meriterebbe e viene finalmente utilizzata per uno scopo utile: intrattenere il lettore.
La bella antologia di racconti “Armi Narrative Sperimentali” di Massimo Spiga argomentava esattamente questo punto nel racconto “Maschere degli architetti solari”:
L’eccezione a questa regola sono, naturalmente, gli scrittori del fantastico, per cui l’occultismo non è altro che una gigantesca cassetta di attrezzi da usare a scopi narrativi. Possiamo vantarci di come, per noi, Crowley non indossa i paramenti sacri del messia, ma quelli più congeniali e mondani del divertente figlio di puttana. Tra i devoti “crowleyani”, o thelemiti, c’è chi pensa che questo atteggiamento frivolo sia pericoloso.
In questo caso l'autore cita il mago Aleister Crowley, personaggio già di per sé poco propenso a prendersi sul serio, ma il riferimento vale anche per gli autori menzionati.
Il duo Andrea Gualchierotti e Lorenzo Camerini con il romanzo “Le Guerre delle Piramidi” s'inserisce dentro questa tradizione: l'opera rielabora e riutilizza le tante leggende su Atlantide con il fine di costruire un grandioso affresco storico-fantasy, tanto affascinante quanto complesso.
Il romanzo è un vero e proprio studio di “archeologia misteriosa” all'interno del quale si mescolano le più insospettabili influenze: dall'origine atlantidea della civiltà egizia, a suggestioni della civiltà micenea, all'epos classico dell'Iliade più guerresca.
La vicenda si colloca “fra il tempo in cui l'oceano inghiottì Atlantide e il sorgere dei figli di Arias (cit)” ovvero intorno al 10.000 a. C.: il Medioriente e l'Europa annaspano dentro un brodo primordiale di tribù selvagge e variopinte culture, ciascuna in lotta per emergere dal mare delle barbarie e respirare la terraferma della civiltà.
Tra questo caos di etnie e popoli in lotta l'unica oasi di pace è il regno di Adhan-Dar, retto dal saggio sovrano Sybillion. Si tratta di un regno piccolo, ma bene organizzato e fiorente, fondato sulle terre fertili del Nilo, qui chiamato Iteru (antico nome egizio). Una monarchia, ma illuminata: un regno avviato sulla strada del progresso, con edifici in pietra e strade pavimentate.
Ma ovviamente Sybillion è aiutato in ciò, essendo uno degli ultimi sopravissuti dell'Impero di Atlantide, prima che si inabissasse a seguito della Catastrofe. Il suo bagaglio di conoscenze deriva da una civiltà inconcepibilmente avanzata, della quale, assieme a pochi fidi compagni, è uno degli ultimi superstiti: proprio in queste terre tranquille ha ritrovato una stirpe atlatidea dalla quale il suo impero si era separato molti secoli prima e con la quale può far rinascere una razza morente.
Sybillion infatti è il cugino dell'eroe protagonista del romanzo precedente, Adhon, de “Gli Eredi di Atlantide”: con il luogotenente Tih-ger e la vedova di Adhon, Isis, ha trovato un nuovo inizio in questa terra lussureggiante. Giocano poi un ruolo chiave i due figli di questa raccogliticcia famiglia: Ammhon, unico figlio dello scomparso Adhon e il figlio naturale di Sybillion, Ozymandias.
I due sono cresciuti come fratelli gemelli, condividendo avversità e successi, ma l'avvicinarsi dell'età adulta e la questione di chi succederà al trono getta i primi semi della discordia...
Ozymandias sarebbe infatti il primogenito, ma il trono, per una promessa di Sybillion al cugino, Adhon, passerà invece al principe Ammhon. Mentre inizia a delinearsi uno scontro interno alla famiglia reale, una minaccia incombe ai confini del regno: un esercito agguerrito e bene organizzato saccheggia i villaggi dei pescatori lungo la costa. Si tratta dell'orda di Dheineros, un generale atlantideo scampato come Adhon dalla Catastrofe. Con un pugno di guerrieri ha ricostruito anch'egli l'impero perduto, ma il suo dominio, sull'isola di Creta, è quello di un tiranno assetato di sangue. Dheineros non conosce pietà, né rimorsi: il suo governo è quello di uno schiavista, rivolto ad annientare lo spirito delle popolazioni assoggettate e maggiormente interessato a ciclopiche opere di costruzione che allo servire i suoi sudditi.
Il Dr Jekyll – Sybillion – e il Mr Hyde – Dheineros – di Atlantide avranno così modo di conoscersi e scontrarsi: due dinosauri di una civiltà ormai dimenticata, ma capaci ancora di plasmare il destino del mondo.
Sullo sfondo di questo scontro titanico si agita il Velo Nero: una società occulta di spie e sicari, capitanata dal Maestro, l'agente alla base del successo di Dheineros e cancro della vecchia Atlantide. Il sussurro all'orecchio del monarca, la mazzetta nella mano del politico, il pugnale alla schiena... La Guerra delle Piramidi, scoprirà ben presto Sybillion, è una guerra sotterranea.
Solitamente lo scrittore si limita, nella costruzione del proprio mondo, a dare una mano di vernice: un castello sullo sfondo, un paio di servi della gleba, una locanda se si desidera un setting medievale. La nebbia, i vicoli bui, i cappelli a cilindro se invece si desidera qualcosa di vittoriano e così via. Sono cenni, stereotipi che il lettore sa riconoscere.
Il duo Gualchierotti-Camerini invece di passare la vernice, procede a edificare da zero il proprio edificio narrativo: niente paraventi, niente accenni, ma una megalitica costruzione un blocco dietro l'altro. Ho cercato di trasmettere con l'introduzione qui sopra la vastità del worldbuilding, che coinvolge non solo i singoli dettagli, come i villaggi o i paesi, ma direttamente la storia del mondo.
È una storia di lungo periodo, una storia di sangue, più che di culture: un confluire di popoli e civiltà in conflitto, intervallate da titaniche catastrofi naturali. Il lettore avverte nei retroscena l'epicità di una storia millenaria, capace di snocciolare secoli come altri snocciolano gli anni.
Ritroviamo qui la fanta-archeologia di Atlantide, così come l'epica dell'Iliade, ma anche l'atmosfera “avventurosa” di tante opere fantasy classiche: Robert E. Howard, certo, ma anche Jack Vance e Lin Carter. La stessa introduzione, antefatto a una vicenda di secoli prima e la conclusione, a sua volta rimando a monumenti e tracce millenarie, trasmette lo spirito di una storia da matusalemme, ottuagenaria, lontana dal “solito” fantasy.
Accanto al pregio dell'ambientazione, l'opera presenta uno stile insolitamente leggero e conciso: raramente uno scrittore – un duo, pardon – riesce a coniugare così bene un registro epico a una narrazione così chiara e libera da parole “spurie”.
Le frasi rimangono brevi, senza diventare monosillabi, i nomi, esotici, certo, non “sommergono” il lettore e le stesse descrizioni appaiono contenute e circoscritte al minimo necessario. I paragrafi, brevi e chiari, non richiedono di essere riletti e non ci sono passaggi oscuri e/o contorti.
Se questo in un paese normale dovrebbe essere la norma e non l'eccezione, va anche rilevato come il romanzo mantenga comunque un afflato epico impossibile da ignorare. I dialoghi dei personaggi, così come certe descrizioni paesaggistiche, sopratutto urbane – i templi, i palazzi, le isole – sono chiaramente riprese dalla classicità.
E tuttavia quest'afflato omerico non compromette la chiarezza di un linguaggio cristallino.
Un risultato tutt'altro che facile da ottenere.
Il seguente passaggio offre un buon esempio di quanto c'è di buono nello stile del duo: chiarezza delle frasi, lessico ricercato (ma non troppo) e una buona impressione finale.
Le grandi mura di mattoni cotti, sbrecciate e cadenti, erano avvolte dalla vegetazione e gli antichi smalti rilucenti delle sue decorazioni sbriciolati; come denti spezzati, le sagome di torri dirute si stagliavano contro la luce rossastra del sole morente. Le grandi porte, prive ormai di battenti, si aprivano su una desolazione ancora maggiore: ben poco degli edifici era rimasto, se non i perimetri di alcune case e, in qualche caso, alcune sottili colonne di pietra, tenute in piedi dai rampicanti che le avvolgevano. I pochi muri superstiti, laddove si potevano intravedere, erano scuri e anneriti come se fiamme potenti li avessero consumati.
Purtroppo, come già si avverte con questo passaggio, in alcune espressioni, con “una desolazione ancora maggiore” o quel “laddove si potevano intravedere” è uno stile di scrittura facilmente vittima dell'autoparodia.
È un romanzo che si prende sul serio, com'è facilmente intuibile dal registro epico, ma proprio qui sta la sua debolezza: alcuni giri di parole, alcune frasi sono troppo roboanti, troppo esagerate per non far sollevare quantomeno un sopracciglio.
La classicità era epica quando veniva suonata e cantata, millenni addietro: all'epoca quanto narrava Omero o quanto scriveva Virgilio era “realistico” per gli standard di allora. Se si vuole trasporre questo genere di narrazione e adattarla all'oggi, è certo doveroso mantenerne il gusto stilistico e il livello “alto”, ma occorre anche fornire un minimo di realismo.
È innegabile come il Conan di Milius sia epico, ma è altrettanto innegabile come quest'epicità derivi dal sudore, dallo sporco, dall'impatto brutale dei colpi. Senza voler sprofondare negli eccessi della grimdark, mi sembra fondamentale fornire una minima parvenza di credibilità all'azione.
Il problema del romanzo sta nell'eccessiva “purezza” tanto dello stile, quanto delle ambientazioni e dei personaggi: sì, la ricostruzione fanta-storica è assolutamente superba, ma su queste fondamenta manca un po' di colore, un po' di vita.
Lo stile di scrittura, pur molto buono, risente d'intromissioni del narratore, ad esempio: “i misteriosi intrecci del fato tessevano nuove sfide sul loro cammino; l’avrebbero scoperto presto”.
Ci sono tante piccole espressioni e particolari involontariamente comici, da “mani crudeli”, all'indigeribile “guizzanti occhi verdi rivelanti”, a “malvagio compiacimento”, all'“aria malvagia”, al “sole rosseggiava languidamente” ecc ecc.
I personaggi a volte esclamano linee di dialogo decisamente ispirate:
No, non tentare di negarlo, è inutile: avresti potuto acquistare col sangue quello che un destino maligno ti ha sottratto, come quando un atleta è beffato da un ostacolo poco prima del traguardo. Eppure hai trattenuto la tua mano. Perché?
È possibile qui vedere un altro esempio di queste espressioni così banali, come “destino maligno” o la metafora dell'atleta. Dall'altro, il dialogo è perfettamente costruito, con un'enfasi, con quel finale “Perchè?” molto bella.
Eppure il lettore si ritrova di fronte anche espressioni di quest'altro tenore, assolutamente cartoonesche: «Non è giusto, dannazione! Non è giustooo!»
La domanda come sempre è se il lettore sa prendersi così sul serio come i suoi personaggi; io purtroppo non ci riesco e ho trovato molti passaggi involontariamente trash.
Questo problema coinvolge anche gli eroi protagonisti, così come gli antagonisti e i comprimari.
I diversi personaggi sono facilmente riconoscibili, con i propri tic e personalità, ma non sembrano “reali”: Sybillion è un potentissimo Mary Sue e i due figli, naturale e adottato, altrettanto potenti e invincibili. Isis è misteriosa e inconoscibile, mentre Tih-ger è una macchietta, anche se una macchietta umana e come tale con una certa empatia.
Io, come lettore, ho invano provato a simpatizzare con i protagonisti, ma li ho trovati troppo rigidi, troppo freddi, troppo “stilizzati”.
Sybillion, ad esempio, è un perfetto monarca: non una ribellione, non una tassa di troppo, non un singolo errore. Il popolino lo ama senza condizioni e ancora una volta il tutto sembra terribilmente forzato, artefatto: i dialoghi, le azioni... Incisi nel marmo e altrettanto pesanti.
Non contento di essere un perfetto monarca, Sybillion è anche un perfetto padre: lungimirante, disponibile, comprensivo... Non c'è spazio per il difetto, non c'è spazio per l'umano.
La rivalità tra i due figli, certo: anche lì però si tratta di un colpo di scena telefonato fin dall'inizio, largamente intuibile e dall'impatto neutralizzato da una parziale redenzione.
I nemici risultano altrettanto statuari, sebbene dalle motivazioni maggiormente comprensibili, più “umane”: Dheineros è spinto dalla vendetta e dai sogni di dominio, mentre il Velo Nero rimane per l'appunto solo un Velo, uno spunto di narrazione appena abbozzata e gettata via.
Con altri generi e altri romanzi, posso facilmente immaginare i personaggi intenti a mangiare, a discutere, a sbrigare gli affari di ogni giorno: al contrario, in questo caso, i protagonisti sono “immobili”, calcificati nei propri ruoli e stereotipi.
Assomigliano maggiormente alle maschere di una tragedia che a personaggi reali.
Ci sono una serie di manie, di tratti comportamentali, di inflessioni nel parlato che servono a dare quel minimo di realismo ai personaggi. È questo quanto manca al romanzo, dall'ambientazione, ai personaggi, alla trama: una spolverata di dettagli, quantomeno un pizzico del mondo reale.
La saggezza del monarca risulterà tanto più impressionante quando messa a confronto con le difficoltà di un regno difficile da governare e con le inevitabili brutture dell'era antica.
Un contadino che litiga con un allevatore, perché vuole difendere la reputazione del “buon Sybillion” per le sue ultime politiche agrarie risulterà più convincente di una folla che applaude festante. Questo non si deve tradurre nella ricerca del brutto caratteristica di tanto low fantasy, ma va riconosciuta una differenza tra l'utopia e la realtà, fantasy quanto volete, ma pur sempre storicamente vincolata di un'ambientazione.
Il romanzo soffre pertanto di un'atmosfera naif, esageratamente cesellata. I personaggi discutono e agiscono mossi da un disegno divino e conseguentemente non c'è contatto con il lettore.
C'è un'eccezione, ovvero Tih-ger, il classico compagno del protagonista, robusto e affidabile.
Un militare, più che un'eroe: stereotipato, ma con una certa umanità.
I personaggi pertanto agiscono come statue millenarie, scolpite nel marmo, all'interno di un'ambientazione costruita con estrema attenzione, ma vuota di quei piccoli dettagli, quelle piccole scene capace di darle vita. Il problema viene esacerbato da uno stile di scrittura chiaro e semplice, ma improntato a una serietà quasi auto ironica.
Quanto auspico è di vedere nei prossimi romanzi dell'attivissimo duo Gualchierotti-Camerini un minimo, davvero minimo realismo tale da insaporire quanto rimane una capacità narrativa e una padronanza dell'italiano ammirabile e ricca di potenzialità.
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