lunedì 26 marzo 2018

The Great White Space, di Basil Copper: il meglio dell'omaggio lovecraftiano



Inghilterra, 1930
In seguito all'ubriacatura dei Roaring Twenties, nuvole di guerra si addensano nell'Europa continentale, mentre l'Impero Britannico consolida inquieto il suo dominio coloniale, dall'Africa, all'India, ai più remoti avamposti dell'Asia.

Frederick Plowright è un fotografo professionista, che si è fatto un nome partecipando a diverse missioni esplorative di scienziati e antropologi in tutto il mondo. 
Un uomo rigoroso, preciso, totalmente devoto alla sua arte; eppure incline, suo malgrado, a fantasticherie e visioni febbrili. 
Giovane, ma insoddisfatto, Frederick accetta un'offerta di lavoro peculiare: una missione di ricerca di un anziano professore, Clark Ashton Scarsdale, che dichiara di voler esplorare il grande nord. Forse l'Antartide, dove nello stesso periodo, un'altra spedizione della Miskatonic University è andata perduta...

Introdotto nella villa di Scarsdale, Frederick scopre come la destinazione sia tutt'altra, occlusa per segretezza: una sconosciuta contrada nel profondo oriente, tra la Mongolia, Burma e la Cina al confine occidentale, oltre il deserto dei Gobi.
Scarsdale, dopo decenni di ricerca nei più svariati campi scientifici e pseudoscientifici, ritiene di aver scoperto quanto definisce “The Great White Space”. Si tratta di un portale extra dimensionale, descritto nel testo di occultismo “The Ethics of Ygor”, come “Un Grande Spazio Bianco”.
Un varco di accesso, dove le leggi scientifiche vengono distorte e sovvertite, attraverso il quale aliene e superiori entità chiamate gli “Old Ones” entrano in contatto con la Terra. Scarsdale desidera trovare il Portale, studiarne la composizione ed eventualmente essere il primo ambasciatore della razza umana a entrare in contatto con gli Antichi.
La spedizione è bene equipaggiata, con cinque semicingolati dell'esercito, ampie provviste e contatti sul posto: tuttavia Frederick rimane turbato quando scopre tra le provvigioni una mitragliatrice, bombe a mano e addirittura fucili per la caccia agli elefanti.
Il riserbo di Scarsdale sull'effettiva natura del viaggio non può mascherare quanto sembra essere più un mostruoso safari che una spedizione scientifica...


Dopo un lungo viaggio nella desolazione degli altipiani asiatici, il gruppo arriva alle “Black Mountains”, una catena montuosa impervia e disabitata. 
Un monumentale ingresso, centinaia di metri di altezza, fa da preludio a una discesa nel sottosuolo
Un labirinto artificiale scavato da un'antica civiltà, al cui centro, secondo Scarsdale, si trova il Portale, “The Great White Space”.
Un viaggio al centro della Terra, tra le rovine e le tombe di un'incomprensibile civiltà.
Mentre i semicingolati si fanno strada nella necropoli sotterranea, Frederick s'interroga sulla precedente spedizione di Scarsdale: un viaggio, per sua stessa ammissione, dove solo lui era tornato vivo... ma perchè? Chi aveva ucciso i compagni del professore? Cos'era successo all'antica civiltà di costruttori del Portale? 
Sempre più in profondità nella terra, Frederick si rende conto che non sono soli in quei tunnel: qualcuno, o meglio, qualcosa, sta dando loro la caccia.

La profonda ammirazione verso uno scrittore inevitabilmente trascina, specie se si è giovani, a imitarlo nello stile e negli argomenti. Cogli anni si cresce, si matura, ci si rende conto che il miglior omaggio è comprendere l'originalità di quell'autore e cercare di replicarlo nei propri lavori: imitare la struttura, il modus operandi, non l'effettivo contenuto.
Nel campo dei pastiche e degli omaggi, Sherlock Holmes è un perfetto esempio di un classico facilmente imitato: lo stile di scrittura di Arthur Conan Doyle è stato replicato da diversi scrittori con tale esattezza da rendere impossibile distinguere quale sia l'opera originale.
In altre parole, una perfetta contraffazione. Fan fiction? Filologia? Omaggio? Se lo scopo è il divertimento, nulla da obiettare: il problema è quando uno scrittore costruisce la sua intera carriera sull'omaggio gratuito, senza mai rinnovare il genere.
Un interessante articolo del Black Gate, tradotto su Heroic Fantasy Italia, si domandava a questo riguardo quali altri autori del periodo pulp, anni '20/'30, fossero stati imitati con successo. Sono d'accordo che la scrittura di Howard, tanto criticata, non è affatto così facile. Si perde il conto delle opere con Conan protagonista, ma nessuna di queste si avvicina anche lontanamente al genere di atmosfera creata da Howard. C'è quell'indefinibile qualcosa, che dagli anni '70 a oggi, continua a sfuggire. Inimitabile Howard, è il caso di scriverlo.
HP Lovecraft si pone a metà tra Arthur Conan Doyle e Robert E. Howard: inoculare una sfumatura lovecraftiana nelle proprie storie è certo facile, ma scrivere come Lovecraft è sorprendentemente difficile. Sembra quasi inevitabile sfociare nella satira.

Nel caso del romanzo di oggi, “The Great White Space”, del 1974, ci si avvicina all'omaggio a Lovecraft senza parodiarlo o senza sfruttarne il setting per discutere altre tematiche.
Un romanzo lovecraftiano nella sua interezza, dove la mano dello scrittore, il prolifico Basil Copper, è ancora distinguibile dalle citazioni e dagli omaggi sparsi nel testo.
Sono dell'idea che nei confronti di Lovecraft vada attuato un superamentoimmobile”, nel senso che bisognerebbe mantenerne le tematiche e la filosofia di fondo, nel contempo superandone i limiti legati agli anni '30. 
Un fulgido esempio degli ultimi anni è la saga di Providence di Alan Moore, dove il cosmicismo dell'autore viene decostruito e riassemblato. La filosofia è lovecraftiana fino al midollo, ma i materiali di costruzione sono completamente diversi.

Basil Copper dipinge un'avventura a tinte forti, dove la tela è una solida costruzione pulp, i colori derivano dalla fantascienza vittoriana di Jules Verne e infine la cornice che tiene assieme il tutto è il tardo Lovecraft delle “Montagne della Follia”.

I protagonisti, a partire dalla voce in prima persona di Frederick, sono infatti accademici: scienziati, geologi, storici, antropologi posseduti dalla passione per la ricerca e la scoperta. Il romanzo non annovera personaggi femminili e in effetti i protagonisti stessi non hanno fidanzate, mogli o qualsivoglia interesse al di fuori della scienza. Prevale quell'atmosfera di amicizia intellettuale e reciproco rispetto proprio di tanto romanzi verniani, dove i protagonisti, fiduciosi delle proprie capacità, affrontano il pericolo con la razionalità e il positivismo propri dell'età vittoriana.
Il romanzo è in tal senso british, se non fosse che i protagonisti vengono messi di fronte a ostacoli e pericoli che non hanno modo di risolvere con la scienza e l'intelletto: alla bidimensionalità propria di Verne, qui si affiancano le psicosi, le manie, i tic propri dei protagonisti di Lovecraft.
Questi non sono personaggi, quanto fasci di nervi in eterna tensione.

Si consideri il bell'incipit, nella tradizione di Lovecraft, immediatamente ricco di annotazioni bibliografiche e accademiche:

But where to begin? This is indeed the first of my problems, lest my sanity be mocked at the outset. I was born then, Frederick Seddon Plowright; such life as I enjoyed until attaining my majority is no concern of this narrative, still less of interest to the general reader. After graduation I studied various outre subjects on the fringe of my scientific knowledge and eventually drifted into photography. I became an excellent portrayer of scientific and geographic subjects and accompanied a number of important expeditions earlier in the century, notably von Hagenbeck’s penetration of the Quartz Mountains of Outer Mongolia; and of Francis Luttrell’s major earth-boring investigations in the Nevada Desert of 1929, an adventure which almost cost me my life.

Basil Copper, nel primo terzo del romanzo, abilmente descrive la villa di Scarsdale e i preparativi alla spedizione con un tono idilliaco: un rifugio ideale, un club per ragazzi troppo cresciuti, dove si può discutere di amabili argomenti con il giornale sotto mano e un maggiordomo sempre pronto a versarti una tazza di caffè, di tè, di brandy. Le esercitazioni con i semicingolati – una sorta di vagoni corazzati con cambusa e brandine – sono trattate come se fossero costosi giocattoli.
Scarsdale, un brizzolato veterano, professore e esploratore, svolge il ruolo del vegliardo, che guida i giovani allievi scelti per la missione. In sottofondo, si respira una paurosa tensione: ancora la meta del viaggio non è chiara e non si comprende perchè servano così tante armi, così tante precauzioni. Il sardonico narratore, ricordando quei momenti, conclude uno dei capitoli con un tono cupo, uno stridulo contrasto dopo pagine di conversazioni e amichevoli battute:

Thus casually did I commit myself to the most appalling experience of my life.

Il maggiordomo, a sua volta silenzioso, e il cane di guardia della Villa sono gli unici altri protagonisti: Basil Copper non sfrutta mai più di cinque, sei personaggi in scena, trasmettendo un senso di isolamento piuttosto straniante.
Una straordinaria solitudine permea tutto il romanzo: dalla villa come bozzolo, rifugio embrionale nella campagna inglese, al deserto e alle montagne mongoliche, popolate solo di stranieri dall'incomprensibile linguaggio, ai labirinti e alle rovine nel profondo delle Black Mountains. 

La traversata coi tank nel deserto e nelle montagne tra Cina e Mongolia elimina fin dalle prime battute ogni allegria precedente: Copper abilmente sottolinea un'atmosfera soffusa, propria di un'avventura onirica in bilico tra sogno e incubo. Le strane usanze dei popoli locali, che vivono nella prossimità del portale, sono delineati con indovinati accenni, orientalismi come il seguente:

The Palace itself was built of some sort of white volcanic rock or ash, compressed into bricklets, so that it looked like nothing more than a giant wedding cake; at certain times of day it was dangerous to the eyes to look directly at it, so blinding was the light it reflected from the sun, and our party had to wear smoked goggles when we were within the Palace grounds.

Come annota Frederick, sembra di essere nella mente di un mangiatore di hashish. Un riferimento onirico che sembra riprendere Clark Ashton Smith, senza dubbio citato con il nome del professore, Clark Ashton Scarsdale.

Fan Art: "At the Mountains of Madness" by H. P. Lovecraft, di Ivan Laliashvili
Il nucleo horror del romanzo è ovviamente il “Grande Spazio Bianco”, la cui migliore descrizione viene offerta dallo stesso Scarsdale:

They concerned, Scarsdale believed, a portion of the universe which he called ‘the great white space’; it was an area which the Old Ones particularly regarded with awe and which they had always formally referred to, in their primeval writings as The Great White Space. This was a sacred belt of the cosmos through which beings could come and go, as through an astral door, and which was the means of conquering dizzying billions of miles of distance which would have taken even the Old Ones thousands of years to traverse.

Il passaggio degli “Old Ones” attraverso il portale viene messo in correlazione con la comparsa di strane luci nel cielo e il ritrovamento di geroglifici di fattura aliena, decifrati dopo decenni di lavoro dalla mente del professore, con l'ausilio del testo di Ygor, un antico trattato di occultismo.
Scarsdale si riferisce spesso alla venuta degli Antichi come “The Coming”; un'occasione a suo giudizio di progresso per l'umanità.

Se i mostri di Copper difficilmente sorprenderanno gli appassionati di Lovecraft, il romanzo eccelle nella descrizione asciutta e asettica degli ambienti sotterranei: tunnel e cunicoli scavati artificialmente da razze aliene cieche e col solo senso del tatto, dolmen e costruzioni megalitiche d'incomprensibile gigantezza, chilometri su chilometri di anfore contenenti alieni mummificati, gradini dalle dimensioni di una casa e così via.

Una delle migliori scene nel romanzo vede due scienziati armeggiare con quello che sembra un incrocio tra un vaso, un'anfora egizia e un uovo alieno. Battono sul coperchio con un martelletto, cercando di forzare l'apertura, provano con un cacciavite, avvicinano la faccia all'apertura... 
Non può non ricordare la saga di Alien di Ridley Scott. Ero fermamente convinto che Basil Copper avesse infatti copiato dal film, perchè c'è una sorprendente somiglianza nelle atmosfere e nel setting. Tuttavia il romanzo è del 1974/75, quindi tanto di cappello a Copper, Alien prima di essere Alien (1979).

Un altro elemento irrinunciabile per un pastiche lovecraftiano sono gli angoli non euclidei, una geometria (in questo caso urbana) percepita dall'occhio come impossibile:

The square, hewn of what appeared to be enormous blocks of stone, also seemed to run away at disturbing angles, with none of the blocks ever quite seeming to join at the proper juncture; instead of the paving thus formed being square or triangular it seemed to obey no observable law or mathematical formulae so that the eye was always being shocked by strange breaks in the formation or ugly or jarring groupings of lines. This was one of the most difficult aspects of the place and one which we were never able to overcome.

Basil Copper adopera con una certa maestria gli elementi della luce e delle tenebre, associati normalmente a bene e male. Il cavernoso soffitto dei tunnel e dei cunicoli emana una debole luminescenza, che diventa sempre più intensa man mano che ci si avvicina a “The Great White Space”. Il portale emana una luce tale d'accecare l'essere umano, un calore bianco, appunto.
Come le falene, i mostri tendono uscire dal portale, dunque dalla luce e a essere attratti da fonti di illuminazione. Gli esploratori e il lettore di conseguenza associano la luce al pericolo e il buio al conforto di chi è lontano dal portale. Un rovesciamento di significati piuttosto originale, anche se non impedisce ai mostri di vedere e cacciare perfettamente anche nelle tenebre più assolute!

Un discorso simile viene condotto da Basil Copper a proposito dei suoni e dei rumori: il portale emana un ronzio, una sorta di rumore di sottofondo, che diventa quanto più intenso quanto più ci si avvicina. Ancora una volta, il riferimento è al mondo degli insetti.

Il sublime ha sempre giocato un ruolo fondamentale nel genere weird e nella narrativa di Lovecraft; sebbene il lavoro di Copper rimanga quello di un mestierante, alcuni passaggi descrivono in maniera eloquente la bellezza di questo mondo così alieno e terrificante.
Un terrore che affascina, uno spettacolo di tale immensità da lasciare attoniti e disorientati. Il sublime non deriva solo dall'aspetto visivo, o dai calcoli scientifici che sfuggono alle logiche umane (il luogo spesso è troppo grande, troppo gigantesco per essere possibile...), ma anche dalla storia: si tratta di ere e civiltà talmente antiche da far sembrare giovani i dinosauri.

I do not think I shall ever forget the spectacle that was spread before us that afternoon, in a place which had no dawn, day, night or sunset and in which all sense of time was lost; a region of other-worldly beauty which we were forced to subordinate to our man-made notions of time, order and routine.
The first thing we noticed was that the sluggish tide which rose and fell a foot or two on the shallow shelving shore, was itself as phosphorescent as the light which came from the sky. In between was a sort of vaporous mist which hung in thin sheets over the surface of the water, so that we were able only to see about two hundred yards out from the beach, when all was lost amid the indistinct haze. But the faint luminosity of the water, the brief lacunae caused by the mist and the recurrence of the vibrating brightness from the vast roof of the cave, hidden from us, made the whole atmosphere nothing more reminiscent than some great painting of Turner, gigantically enlarged.

In conclusione un ottimo romanzo pulp, divertente e citazionista, senza sfociare nella trappola dell'auto compiacimento post modernista. Sono consapevole di quanto sia superfluo recensire un romanzo del 1974 (anche se con una ristampa del 2013), ma quando ci si diverte nella lettura una piccola menzione come questa è d'obbligo.

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