lunedì 12 marzo 2018

Monsters, di Clive Barker: un mostro di bravura


Emergenza sangue nella nazione dell'horror, regione splatterpunk, provincia Clive Barker, comune “Books of Blood”: termina ufficialmente con questa sesta antologia di racconti la rilettura barkeriana. 
E quale magnifica, folle, cavalcata: dai territori intrisi di gore degli esordi, a una vasta pletora di futuri adattamenti fumettistici e cinematografici, alle premonizioni weird e dark fantasy delle opere successive. 
I “Libri di Sangue” si possono leggere nell'ordine e nelle preferenze che più aggradano, come dimostrano le riedizioni e le antologie successive, tuttavia danno il loro meglio quando si procede nell'ordine originario, in modo da constatare la graduale evoluzione di Barker, sia nel senso dell'utilizzo di strumenti narrativi e stilistici sempre più raffinati, sia nella padronanza delle diverse idee, spesso compresse nell'arco di poche pagine.

Il tempo sarebbe un ottimo maestro, se non fosse che uccide tutti i suoi alunni.
La relativa immortalità della letteratura le permette tuttavia di sfuggire questo fastidioso inconveniente, solitamente dando giustizia allo scrittore quando ormai è nella tomba, morto di fame, povertà o cure mediche che non poteva permettersi. 
Il che implica, tra parentesi, un ovvio imperativo: sostenete gli scrittori quando sono in vita e lasciate le commemorazioni a rari casi.
Il ragionamento vale per Edgar Allan Poe e si è visto riconfermato con HP Lovecraft.
Clive Barker è fortunatamente vivo e famoso, ma persino nel suo caso il tempo gli sta finalmente dando giustizia, regalando all'oblio le assurdità e le banalizzazioni con il quale era stato propagandato negli anni ottanta.

Trovo ad esempio strabiliante, come accanto al paragone con King, Barker venisse paragonato niente di meno a Dean Koontz, in quel periodo sulla cresta dell'onda. 
Difficile immaginare scrittori più diversi, più lontani nello stile e nella personale filosofia. 
Il tempo in questo caso sta dando ragione a chi meritava più lustro, cioè Barker: Koontz, certo, ha costruito questa sua inarrestabile macchina editoriale che continua a sfornare e pubblicare a oltranza, ma tra dieci, venti, cinquant'anni non verrà ricordato se non come curiosità pulp, esempio di narrativa d'intrattenimento di bassissimo livello. Nessuna offesa: Koontz è un abile mestierante e come tale guadagna tanto. Col tempo i suoi libri restituiranno agli alberi il torto subito. 
Tuttavia, davvero si tratta di paragoni forzati, fuori dal mondo. 
Ad esempio, se la forza di King sta nell'innegabile simpatia e realismo dei suoi personaggi, Barker spesso sfrutta vignette, stereotipi a mala pena tridimensionali. Eppure, a differenza del “Re” e di Koontz, svolge un lavoro di ricerca difficilmente paragonabile nell'ambito. Le sue storie sono rivestite di ragnatele di simboli, riferimenti dotti e ironici, voluti ribaltamenti di determinate aspettative codificate nel genere.

Si rifletta solo sulla sua più fortunata creatura, “Pinhead”, il famigerato cenobita
La parola ci scorre come miele in bocca, ne siamo naturalmente attratti, l'associamo, se fan di Hellraiser, ai chiodi e alla faccia torturata del mostro. Eppure, non è affatto un riferimento ovvio. Il cenobita era infatti un monaco alto-medievale del medio oriente cristiano, dedito a clausura e pratiche di mortificazione della carne. Al di fuori della Treccani, è difficile conoscere la parola cenobita oggigiorno, con tutto il potere di Internet a nostra disposizione. Un giovane scrittore negli anni '80 doveva mettersi d'impegno e volutamente fare ricerca nell'ambito della storia medievale e della chiesa per arrivare a usare un nome così azzeccato. Solo un esempio tra i tanti: Rawhead Rex non sarebbe possibile senza conoscere un po' di antropologia, un po' di cultura pagana, un po' della storia di passaggio tra mitologia politeista e cristianesimo evangelizzatore.
Emerge, da questo lavoro di documentazione che piace tanto dileggiare, la sincera volontà di andare oltre alla semplice paura, all'urlare bau bau verso il lettore. C'è una ricerca estetica. C'è una riflessione sulla religione. C'è un elemento punk. C'è una filosofia di fondo. Ingredienti banali quanto volete, propri di uno scrittore, non un filosofo di professione. L'immaginazione come salvezza dell'umanità dal torpore del quotidiano difficilmente si qualifica come una presa di posizione originale. Ma è un tentativo. Sopratutto, è un tentativo almeno all'epoca assente nei suoi colleghi americani. Mi verrebbe da scrivere che Barker è un autore inglese con una mentalità europea, ma sarebbe commettere un'esagerazione.

La vita della morte

Elaine è una giovane donna recentemente passata sotto i ferri per una isterectomia, che passa le sue giornate sul lavoro in uno stato apatico, intrappolata in uno shock continuo. Un giorno incontra un uomo piccolo e nervoso, dalla pelle tirata sul cranio come un teschio, che le racconta davanti a una tazza di tè di una chiesa sconsacrata destinata alla demolizione lì vicino. Il sotterraneo dell'edificio sembra sigillato e alcune squadre di esperti e archeologi sono curiosi di vedere il contenuto. Affascinata dalla morbosità dell'uomo, Elaine decide d'intrufolarsi di notte nella chiesa ed entrare nel mausoleo sotto terra. Si tratta di un ossario ingombro di cadaveri mummificati, contorti nelle diverse posizioni proprie di un'agonia lancinante.
Turbata, ma in qualche modo rinvigorita da quell'esperienza così strana, Elaine torna a casa. La mattina successiva, al lavoro, si sente piena di energia, come se la bizzarra scappatella notturna l'avesse guarita dalla depressione.
Nel frattempo, tutti coloro che la circondano iniziano a morire uno a uno...

The Life of Death”, dalla serie a fumetti “Tapping Vein”
Una partenza col freno tirato a mano, questo primo racconto.
La protagonista femminile, come da tradizione di Barker, non è molto intelligente, né approfondita, ma nel contesto della storia il suo comportamento allucinato è l'unico possibile.
Barker è come sempre particolarmente bravo a sorprendere il lettore con assunzioni di base presenti già nel titolo e contraddette più e più volte. “La vita della morte” lascia immaginare un certo svolgimento, una certa storia e quest'assunto viene contraddetto una prima volta, poi una seconda e così via...

Se confrontato con “Visions” e “Creature” manca quel qualcosa che faccia davvero risaltare il racconto tra i suoi tanti concorrenti. Si segnalano alcuni bei passaggi descrittivi:

Era una serata limpida: la pelle fredda del cielo si era stirata fino al punto di rompersi.
Non volle chiudere le tende del salotto, anche se i passanti avrebbero potuto sbirciare dentro, perché quell'azzurro che stava diventando più intenso era troppo bello per perderselo. Così si sedette alla finestra e rimase a fissare l'oscurità che incombeva. Chiuse fuori il freddo solo quando si fece completamente buio.

Il sangue dei predatori

Un occidentale chiamato Locke, da bravo contrattualista, nomen omen, ha comprato con alcuni suoi amici mercenari diversi chilometri di terreno dal governo brasiliano. E' una giungla, metaforica e reale: un territorio amazzonico infestato di serpenti, malattie e indigeni di una tribù ostile.
In seguito a un'incomprensione linguistica e diverse minacce, un amico di Locke spara col fucile e uccide per errore un bambino della tribù. Il vecchio dei nativi li maledice e pian piano Locke e i suoi amici scoprono di essere affetti da una ben strana malattia...

Chi desidera informarsi sull'effettiva vita nell'entroterra brasiliano, nelle Filippine, in Cambogia e in generale in questi luoghi situati tra il sud oriente asiatico e l'America del sud, deve fronteggiare diversi inganni dei mass media. In primo luogo, una rappresentazione talmente cupa e brutale da far sembrare questi stati un inferno inabitabile. In secondo luogo, esattamente l'opposto di questa visione: un improbabile paradiso terrestre incorrotto dalla civiltà occidentale, pronto a essere gustato. 
Se il primo approccio ha un certo fondo di verità, probabilmente la migliore rappresentazione viene fornita dai giornali e dai mass media quando al governo in questi paesi troviamo elementi sgraditi al blocco anglo-americano. Le Filippine di Duterte sono un ottimo esempio. I reportage sul paese sono quanto di più crudo si possa immaginare e sono esatti fino all'ultimo millesimo – eppure quanto descrivono è una situazione in atto da tempo, precedente di decenni l'operato di Duterte. Il presidente filippino è un uomo ripugnate, votato alla violenza, ma quanto i media descrivono è il risultato di decenni di azione mafiosa, non è certo il risultato della sua elezione. La ragione per la quale possiamo finalmente leggere reportage decenti al riguardo è ovviamente la posizione di Duterte, che vira verso l'antiamericano (o almeno lo era con Obama).

Dal fumetto “Tapping Vein”, un adattamento così così
Il Brasile di Barker non concede in tal senso sconti, non scivola nell'errore di un'idealizzazione dei nativi o della bellezza della giungla. Le pagine stillano sudore, sciami di insetti, febbri malariche.
Si tratta di un racconto infetto, nel senso migliore della parola.

I mercenari, a partire da Locke, non sono uomini avvezzi alla violenza, sono bruti psicopatici mastica civili, rifiuti cancerogeni dei conflitti etnici dei Balcani e dell'Africa. Si tratta di mercenari che vogliono arricchirsi in fretta e hanno ormai smarrito qualsiasi valore. Siamo bene al di là di quei caratteri, di quegli stereotipi dove il personaggio è politicamente scorretto perchè beve troppo e dice qualche parolaccia.

La natura della maledizione, legata a quel territorio che i mercenari s'illudono di aver comprato da un governo corrotto, con diritti su tutto, vita umana compresa, permette a Barker alcune delle sue migliori descrizioni. La già naturale ostilità della giungla viene elevata a un livello talmente esagerato da sembrare metafisico.

Torri all'imbrunire

Un agente britannico, Ballard, attivo da anni nella Berlino ovest, viene contattato dalla sua agenzia con il compito di gestire la fuga di un agente del KGB, Mironenko, che ha scelto di defezionare. 
Il disertore si comporta in modo strano, racconta bizzarre storie su come al di là della cortina siano capaci di torturarti persino l'anima. Le vicende che seguono pongono Ballard a confronto con una verità su se stesso che non avrebbe mai immaginato...

Il revival degli anni '80, nel suo restare circoscritto ai sobborghi degli Stati Uniti, dimentica come l'Europa fosse ancora stretta nella morsa di una rinnovata corsa agli armamenti, simboleggiata dalla Berlino pre riunificazione. La stessa presidenza Reagan riattizza tensioni altrimenti sopite e per citare un documentario al riguardo, rende di nuovo “cool” il nazionalismo bellicista.

Barker nel 1985 ambienta “Torri all'imbrunire” nella grigia Berlino ovest, imbastendo quanto all'apparenza sembra una classica storia di spionaggio, assassini e tradimenti. Ovviamente nulla è quanto sembra e presto la città assume tratti fantasmatici, assolutamente eterei. Ballard si muove solo di notte, non esistono cittadini nelle strade, edifici e monumenti sono avvolti da nebbia e pioggia battente. Più che una città, una necropoli.

Sono convinto che lo spoiler non sia qualcosa di cui avere paura, anche se la rarità dei Books of Blood rende un peccato svelare alcuni finali. Nel caso in questione, “Torri all'imbrunire” sostanzialmente è un retelling delle storie di lupi mannari. Ballard è stato addestrato a nascondere e sopprimere la sua natura di lupo mannaro, nel contempo mantenendo nella sua attività di spia il fiuto e l'intuito proprio di una creatura soprannaturale. E' in altre parole un'arma del governo inglese, così come i sovietici hanno a loro volta soggiogato i “loro” lupi mannari. L'innovazione di Barker sta nel presentare la metamorfosi nel lupo – mai descritto come tale, è piuttosto un mostro umanoide – come una riscoperta della propria reale natura, un'emancipazione a ritroso, dall'umano all'animale primigenio. In tal senso le ultime frasi del finale sono estremamente evocative.

L'ultima illusione

Harry D'Amour è un classico investigatore privato completo di trench e borsalino, esperto nel risolvere casi relativi al soprannaturale. Un Costantine barkeriano, ma con meno complessi e un sano umorismo auto deprecativo. In cerca di qualche soldo con cui pagare i (tanti) debiti, Harry accetta un bizzarro incarico: vegliare sul corpo di un illusionista, Swan, morto in seguito a uno sfortunato incidente sul palco di una delle sue esibizioni. Tra demoni ansiosi di recuperare anima&corpo del mago che aveva con loro stretto un infernale patto e le difese magiche lasciate in sua vece dallo stesso Swan, non si rivelerà un incarico semplice come sembrava...


“L'ultima illusione” viene considerato dai critici con una serietà imbarazzante, se si considera come sia una storia altamente ironica, dove i personaggi di volta in volta obbediscono ai distorti stereotipi della narrativa hard boiled e/o noir. Harry D'Amour è un investigatore perpetuamente sbronzo, capace all'occorrenza di tirar fuori fegato e intuito, con l'unica eccezione di essere molto più liberale dei suoi antenati. I comprimari egualmente obbediscono ai dettami del genere: l'aiutante del mago, Valentin, classico uomo di fiducia e la femme fatale con un oscuro segreto, Dorothea, la moglie di Swann. Il compito di vegliare sulla salma e assicurarsi che sia consegnata alle fiamme è di per sé stesso ironico, come conferma la stessa Dorothea:

"Desidero che lei resti con lui," dichiarò Mrs Swann. "Diciamo che la assumo come cadaver-sitter. Solo finché non avremo esaurito tutte le formalità legali e potrò prendere accordi per la cremazione. Non ci vorrà molto. Ho già messo al lavoro il mio avvocato."

Le dimensioni notevoli del racconto, quasi una novella, presente infatti anche nell'edizione inglese di “Cabal”, permette a Barker ancora una volta di costruire su tre livelli la storia.
Al pianoterra dell'edificio narrativo di Barker, una classica storia noir, quasi un'auto parodia.
Al primo piano, un arredamento di scene splatter volutamente disturbanti e una massiccia dose di horror per controbilanciare la legnosità dell'impianto giallistico generale.
Al secondo e ultimo piano, a contatto con il cielo della filosofia e delle riflessioni “alte”, i dialoghi e le rimembranze di un Harry che attentamente riflette su cosa sia l'arte, la magia, l'illusione (fondamentale differenza) e non ultimo l'argomento caro a Barker, ovvero l'immaginazione.
La costruzione vacilla e abitarla, in quanto lettori, non è un'esperienza tra le più piacevoli, causa l'immensa distanza tra il noiosissimo primo piano, gli eccessi del secondo e infine il minimalismo del terzo.

Il finale congiunge tutti e tre questi livelli, conflagrandoli dentro un terremoto narrativo che li mescola senza distinzione. Una soluzione convincente solo a metà, eccessivamente strascicata nel tentativo di fare il punto sulle riflessioni precedenti.

Dal racconto è stato tratto “Il Signore delle Illusioni” diretto dallo stesso Barker. Un film affascinante nella maniera con la quale Barker lo dirige, prediligendo una cura della scenografia talmente meticolosa e nel dettaglio da ricordare i teatri della sua gioventù.
Il film in tal senso è bidimensionale, perchè alla cura di Barker per quest'aspetto non si controbilancia un'identica ricerca nella regia e negli attori.
Se siete interessati a un giudizio cinefilo rimando alla recensione de Il Giorno degli Zombi.

Jerusalem Street

Chiosa finale, che si ricollega a “Il Libro di Sangue” nell'esordio di Infernalia.
Wyburd, un sicario di professione, ottiene da un collezionista di pelli, tanto animali quanto umane, l'incarico di recuperare la pelle di Simon McNeal, il falso sensitivo che era stato scelto dagli spiriti per essere il “libro” su cui abbiamo letto le storie delle sei antologie. Wyburd pugnala Simon e lo scuoia da capo a piedi, ma la “pelle” riserva una sgradita sorpresa...

Un finale con lo scopo di chiudere simbolicamente la sestologia.
Oltre che al primo racconto della prima antologia, c'è anche un rimando alle atmosfere ultraterrene di “Nella Carne” del volume precedente, “Visions”.

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