Emergenza sangue nella
nazione dell'horror, regione splatterpunk, provincia Clive Barker,
comune “Books of Blood”: termina ufficialmente con questa sesta
antologia di racconti la rilettura barkeriana.
E quale magnifica,
folle, cavalcata: dai territori intrisi di gore degli esordi, a una
vasta pletora di futuri adattamenti fumettistici e cinematografici,
alle premonizioni weird e dark fantasy delle opere successive.
I
“Libri di Sangue” si possono leggere nell'ordine e nelle
preferenze che più aggradano, come dimostrano le riedizioni e le
antologie successive, tuttavia danno il loro meglio quando si procede
nell'ordine originario, in modo da constatare la graduale evoluzione
di Barker, sia nel senso dell'utilizzo di strumenti narrativi e
stilistici sempre più raffinati, sia nella padronanza delle diverse
idee, spesso compresse nell'arco di poche pagine.
Il tempo sarebbe un ottimo
maestro, se non fosse che uccide tutti i suoi alunni.
La relativa immortalità
della letteratura le permette tuttavia di sfuggire questo fastidioso
inconveniente, solitamente dando giustizia allo scrittore quando
ormai è nella tomba, morto di fame, povertà o cure mediche che non
poteva permettersi.
Il che implica, tra parentesi, un ovvio imperativo: sostenete gli scrittori quando sono in vita e lasciate le
commemorazioni a rari casi.
Il ragionamento vale per
Edgar Allan Poe e si è visto riconfermato con HP Lovecraft.
Clive Barker è
fortunatamente vivo e famoso, ma persino nel suo caso il tempo gli
sta finalmente dando giustizia, regalando all'oblio le assurdità e
le banalizzazioni con il quale era stato propagandato negli anni
ottanta.
Trovo ad esempio
strabiliante, come accanto al paragone con King, Barker venisse
paragonato niente di meno a Dean Koontz, in quel periodo sulla cresta
dell'onda.
Difficile immaginare scrittori più diversi, più lontani
nello stile e nella personale filosofia.
Il tempo in questo caso sta
dando ragione a chi meritava più lustro, cioè Barker: Koontz,
certo, ha costruito questa sua inarrestabile macchina editoriale che
continua a sfornare e pubblicare a oltranza, ma tra dieci, venti,
cinquant'anni non verrà ricordato se non come curiosità pulp,
esempio di narrativa d'intrattenimento di bassissimo livello. Nessuna
offesa: Koontz è un abile mestierante e come tale guadagna tanto. Col tempo i suoi libri restituiranno agli alberi il torto subito.
Tuttavia, davvero si tratta di paragoni forzati, fuori dal mondo.
Ad
esempio, se la forza di King sta nell'innegabile simpatia e realismo
dei suoi personaggi, Barker spesso sfrutta vignette, stereotipi a
mala pena tridimensionali. Eppure, a differenza del “Re” e di
Koontz, svolge un lavoro di ricerca difficilmente paragonabile
nell'ambito. Le sue storie sono rivestite di ragnatele di simboli,
riferimenti dotti e ironici, voluti ribaltamenti di determinate
aspettative codificate nel genere.
Si rifletta solo sulla sua
più fortunata creatura, “Pinhead”, il famigerato cenobita.
La
parola ci scorre come miele in bocca, ne siamo naturalmente attratti,
l'associamo, se fan di Hellraiser, ai chiodi e alla faccia torturata
del mostro. Eppure, non è affatto un riferimento ovvio. Il cenobita
era infatti un monaco alto-medievale del medio oriente cristiano,
dedito a clausura e pratiche di mortificazione della carne. Al di fuori della Treccani, è difficile conoscere la parola cenobita
oggigiorno, con tutto il potere di Internet a nostra disposizione. Un
giovane scrittore negli anni '80 doveva mettersi d'impegno e
volutamente fare ricerca nell'ambito della storia medievale e della
chiesa per arrivare a usare un nome così azzeccato. Solo un esempio
tra i tanti: Rawhead Rex non sarebbe possibile senza conoscere un po'
di antropologia, un po' di cultura pagana, un po' della storia di
passaggio tra mitologia politeista e cristianesimo evangelizzatore.
Emerge, da questo lavoro
di documentazione che piace tanto dileggiare, la sincera volontà di
andare oltre alla semplice paura, all'urlare bau bau verso il
lettore. C'è una ricerca estetica. C'è una riflessione sulla
religione. C'è un elemento punk. C'è una filosofia di fondo.
Ingredienti banali quanto volete, propri di uno scrittore, non un
filosofo di professione. L'immaginazione come salvezza dell'umanità
dal torpore del quotidiano difficilmente si qualifica come una presa
di posizione originale. Ma è un tentativo. Sopratutto, è un
tentativo almeno all'epoca assente nei suoi colleghi americani. Mi
verrebbe da scrivere che Barker è un autore inglese con una
mentalità europea, ma sarebbe commettere un'esagerazione.
La vita della morte
Elaine è una giovane
donna recentemente passata sotto i ferri per una isterectomia, che
passa le sue giornate sul lavoro in uno stato apatico, intrappolata
in uno shock continuo. Un giorno incontra un uomo piccolo e nervoso,
dalla pelle tirata sul cranio come un teschio, che le racconta
davanti a una tazza di tè di una chiesa sconsacrata destinata alla
demolizione lì vicino. Il sotterraneo dell'edificio sembra sigillato
e alcune squadre di esperti e archeologi sono curiosi di vedere il
contenuto. Affascinata dalla morbosità dell'uomo, Elaine decide
d'intrufolarsi di notte nella chiesa ed entrare nel mausoleo sotto
terra. Si tratta di un ossario ingombro di cadaveri mummificati,
contorti nelle diverse posizioni proprie di un'agonia lancinante.
Turbata, ma in qualche modo rinvigorita da quell'esperienza così strana, Elaine torna a casa. La mattina successiva, al lavoro, si sente piena di energia, come se la bizzarra scappatella notturna l'avesse guarita dalla depressione.
Nel frattempo, tutti coloro che la circondano iniziano a morire uno a uno...
Turbata, ma in qualche modo rinvigorita da quell'esperienza così strana, Elaine torna a casa. La mattina successiva, al lavoro, si sente piena di energia, come se la bizzarra scappatella notturna l'avesse guarita dalla depressione.
Nel frattempo, tutti coloro che la circondano iniziano a morire uno a uno...
“The Life of Death”, dalla serie a fumetti “Tapping Vein” |
La protagonista femminile,
come da tradizione di Barker, non è molto intelligente, né
approfondita, ma nel contesto della storia il suo comportamento
allucinato è l'unico possibile.
Barker è come sempre
particolarmente bravo a sorprendere il lettore con assunzioni di base
presenti già nel titolo e contraddette più e più volte. “La vita
della morte” lascia immaginare un certo svolgimento, una certa
storia e quest'assunto viene contraddetto una prima volta, poi una
seconda e così via...
Se confrontato con
“Visions” e “Creature” manca quel qualcosa che faccia davvero
risaltare il racconto tra i suoi tanti concorrenti. Si segnalano alcuni bei passaggi descrittivi:
Era una serata limpida: la pelle fredda del cielo si era stirata fino al punto di rompersi.
Non volle chiudere le tende del salotto, anche se i passanti avrebbero potuto sbirciare dentro, perché quell'azzurro che stava diventando più intenso era troppo bello per perderselo. Così si sedette alla finestra e rimase a fissare l'oscurità che incombeva. Chiuse fuori il freddo solo quando si fece completamente buio.
Il sangue dei predatori
Un occidentale chiamato
Locke, da bravo contrattualista, nomen omen, ha comprato con alcuni
suoi amici mercenari diversi chilometri di terreno dal governo
brasiliano. E' una giungla, metaforica e reale: un territorio
amazzonico infestato di serpenti, malattie e indigeni di una tribù ostile.
In seguito a un'incomprensione linguistica e diverse minacce, un amico di Locke spara col fucile e uccide per errore un bambino della tribù. Il vecchio dei nativi li maledice e pian piano Locke e i suoi amici scoprono di essere affetti da una ben strana malattia...
In seguito a un'incomprensione linguistica e diverse minacce, un amico di Locke spara col fucile e uccide per errore un bambino della tribù. Il vecchio dei nativi li maledice e pian piano Locke e i suoi amici scoprono di essere affetti da una ben strana malattia...
Chi desidera informarsi
sull'effettiva vita nell'entroterra brasiliano, nelle Filippine, in
Cambogia e in generale in questi luoghi situati tra il sud oriente
asiatico e l'America del sud, deve fronteggiare diversi inganni dei mass media. In primo luogo, una rappresentazione talmente cupa e brutale
da far sembrare questi stati un inferno inabitabile. In secondo
luogo, esattamente l'opposto di questa visione: un improbabile
paradiso terrestre incorrotto dalla civiltà occidentale, pronto a
essere gustato.
Se il primo approccio ha un certo fondo di verità,
probabilmente la migliore rappresentazione viene fornita dai giornali
e dai mass media quando al governo in questi paesi troviamo elementi
sgraditi al blocco anglo-americano. Le Filippine di Duterte sono un
ottimo esempio. I reportage sul paese sono quanto di più crudo si
possa immaginare e sono esatti fino all'ultimo millesimo – eppure
quanto descrivono è una situazione in atto da tempo, precedente di
decenni l'operato di Duterte. Il presidente filippino è un uomo
ripugnate, votato alla violenza, ma quanto i media descrivono è il
risultato di decenni di azione mafiosa, non è certo il risultato della sua elezione.
La ragione per la quale possiamo finalmente leggere reportage decenti
al riguardo è ovviamente la posizione di Duterte, che vira verso
l'antiamericano (o almeno lo era con Obama).
Dal fumetto “Tapping Vein”, un adattamento così così |
Si tratta di un racconto
infetto, nel senso migliore della parola.
I mercenari, a partire da
Locke, non sono uomini avvezzi alla violenza, sono bruti psicopatici
mastica civili, rifiuti cancerogeni dei conflitti etnici dei Balcani
e dell'Africa. Si tratta di mercenari che vogliono arricchirsi in
fretta e hanno ormai smarrito qualsiasi valore. Siamo bene al di là
di quei caratteri, di quegli stereotipi dove il personaggio è
politicamente scorretto perchè beve troppo e dice qualche
parolaccia.
La natura della
maledizione, legata a quel territorio che i mercenari s'illudono di
aver comprato da un governo corrotto, con diritti su tutto, vita
umana compresa, permette a Barker alcune delle sue migliori
descrizioni. La già naturale ostilità della giungla viene elevata a
un livello talmente esagerato da sembrare metafisico.
Torri all'imbrunire
Un agente britannico,
Ballard, attivo da anni nella Berlino ovest, viene contattato dalla
sua agenzia con il compito di gestire la fuga di un agente del KGB,
Mironenko, che ha scelto di defezionare.
Il disertore si comporta in
modo strano, racconta bizzarre storie su come al di là della cortina
siano capaci di torturarti persino l'anima. Le vicende che seguono
pongono Ballard a confronto con una verità su se stesso che non
avrebbe mai immaginato...
Il revival degli anni '80,
nel suo restare circoscritto ai sobborghi degli Stati Uniti,
dimentica come l'Europa fosse ancora stretta nella morsa di una
rinnovata corsa agli armamenti, simboleggiata dalla Berlino pre
riunificazione. La stessa presidenza Reagan riattizza tensioni
altrimenti sopite e per citare un documentario al riguardo, rende di
nuovo “cool” il nazionalismo bellicista.
Barker nel 1985 ambienta
“Torri all'imbrunire” nella grigia Berlino ovest, imbastendo
quanto all'apparenza sembra una classica storia di spionaggio,
assassini e tradimenti. Ovviamente nulla è quanto sembra e presto la
città assume tratti fantasmatici, assolutamente eterei. Ballard si
muove solo di notte, non esistono cittadini nelle strade, edifici e
monumenti sono avvolti da nebbia e pioggia battente. Più che una
città, una necropoli.
Sono convinto che lo
spoiler non sia qualcosa di cui avere paura, anche se la rarità dei
Books of Blood rende un peccato svelare alcuni finali. Nel caso in
questione, “Torri all'imbrunire” sostanzialmente è un retelling
delle storie di lupi mannari. Ballard è stato addestrato a
nascondere e sopprimere la sua natura di lupo mannaro, nel contempo
mantenendo nella sua attività di spia il fiuto e l'intuito proprio
di una creatura soprannaturale. E' in altre parole un'arma del
governo inglese, così come i sovietici hanno a loro volta soggiogato
i “loro” lupi mannari. L'innovazione di Barker sta nel presentare
la metamorfosi nel lupo – mai descritto come tale, è piuttosto un
mostro umanoide – come una riscoperta della propria reale natura,
un'emancipazione a ritroso, dall'umano all'animale primigenio. In tal
senso le ultime frasi del finale sono estremamente evocative.
L'ultima illusione
Harry D'Amour è un
classico investigatore privato completo di trench e borsalino,
esperto nel risolvere casi relativi al soprannaturale. Un Costantine
barkeriano, ma con meno complessi e un sano umorismo auto
deprecativo. In cerca di qualche soldo con cui pagare i (tanti)
debiti, Harry accetta un bizzarro incarico: vegliare sul corpo di un
illusionista, Swan, morto in seguito a uno sfortunato incidente sul
palco di una delle sue esibizioni. Tra demoni ansiosi di recuperare
anima&corpo del mago che aveva con loro stretto un infernale
patto e le difese magiche lasciate in sua vece dallo stesso Swan, non
si rivelerà un incarico semplice come sembrava...
“L'ultima illusione”
viene considerato dai critici con una serietà imbarazzante, se si
considera come sia una storia altamente ironica, dove i personaggi di
volta in volta obbediscono ai distorti stereotipi della narrativa
hard boiled e/o noir. Harry D'Amour è un investigatore perpetuamente
sbronzo, capace all'occorrenza di tirar fuori fegato e intuito, con
l'unica eccezione di essere molto più liberale dei suoi antenati. I
comprimari egualmente obbediscono ai dettami del genere: l'aiutante
del mago, Valentin, classico uomo di fiducia e la femme fatale con un
oscuro segreto, Dorothea, la moglie di Swann. Il compito di vegliare
sulla salma e assicurarsi che sia consegnata alle fiamme è di per sé
stesso ironico, come conferma la stessa Dorothea:
"Desidero che lei resti con lui," dichiarò Mrs Swann. "Diciamo che la assumo come cadaver-sitter. Solo finché non avremo esaurito tutte le formalità legali e potrò prendere accordi per la cremazione. Non ci vorrà molto. Ho già messo al lavoro il mio avvocato."
Le dimensioni notevoli del
racconto, quasi una novella, presente infatti anche nell'edizione
inglese di “Cabal”, permette a Barker ancora una volta di
costruire su tre livelli la storia.
Al pianoterra
dell'edificio narrativo di Barker, una classica storia noir, quasi
un'auto parodia.
Al primo piano, un
arredamento di scene splatter volutamente disturbanti e una massiccia
dose di horror per controbilanciare la legnosità dell'impianto
giallistico generale.
Al secondo e ultimo piano,
a contatto con il cielo della filosofia e delle riflessioni “alte”,
i dialoghi e le rimembranze di un Harry che attentamente riflette su
cosa sia l'arte, la magia, l'illusione (fondamentale differenza) e
non ultimo l'argomento caro a Barker, ovvero l'immaginazione.
La costruzione vacilla e
abitarla, in quanto lettori, non è un'esperienza tra le più
piacevoli, causa l'immensa distanza tra il noiosissimo primo piano,
gli eccessi del secondo e infine il minimalismo del terzo.
Il finale congiunge tutti
e tre questi livelli, conflagrandoli dentro un terremoto narrativo
che li mescola senza distinzione. Una soluzione convincente solo a
metà, eccessivamente strascicata nel tentativo di fare il punto
sulle riflessioni precedenti.
Dal racconto è stato
tratto “Il Signore delle Illusioni” diretto dallo stesso Barker.
Un film affascinante nella maniera con la quale Barker lo dirige,
prediligendo una cura della scenografia talmente meticolosa e nel
dettaglio da ricordare i teatri della sua gioventù.
Il film in tal senso è
bidimensionale, perchè alla cura di Barker per quest'aspetto non si
controbilancia un'identica ricerca nella regia e negli attori.
Se siete interessati a un
giudizio cinefilo rimando alla recensione de Il Giorno degli Zombi.
Jerusalem Street
Chiosa finale, che si
ricollega a “Il Libro di Sangue” nell'esordio di Infernalia.
Wyburd, un sicario di
professione, ottiene da un collezionista di pelli, tanto animali
quanto umane, l'incarico di recuperare la pelle di Simon McNeal, il
falso sensitivo che era stato scelto dagli spiriti per essere il
“libro” su cui abbiamo letto le storie delle sei antologie.
Wyburd pugnala Simon e lo scuoia da capo a piedi, ma la “pelle”
riserva una sgradita sorpresa...
Un finale con lo scopo di
chiudere simbolicamente la sestologia.
Oltre che al primo
racconto della prima antologia, c'è anche un rimando alle atmosfere
ultraterrene di “Nella Carne” del volume precedente, “Visions”.
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