Difendere
Tolkien vuol spesso significare difendere il Medioevo: i critici
favorevoli all'autore anglosassone se non percorrono il viottolo
spicciolo dell'interpretazione cattolica, preferiscono il rurale, la
campagna, quel medioevo certo così violento, eppure così
incontaminato.
In realtà,
è Tolkien stesso a specificare nel Signore degli Anelli il suo amore
per gli oggetti creati dall'uomo, per le invenzioni belle, ma
ingegnose, per l'artigianato così come per l'industria.
Gli anelli
magici, che siano elfici, dei nani o degli uomini sono in primo luogo
tecnologie, manufatti di artigianato che vengono creati e forgiati
grazie all'abilità di un artista inventore, quale Celebrimbor.
In occasione
del compleanno di Bilbo, i giocattoli dei nani sono considerati
“meravigliosi”, al punto che i giovani hobbit “scordavano di
mangiare”, perché sono oggetti di natura meccanica. Come
chiaramente spiega il narratore onnisciente, la grande capacità
ingegneristica dei nani permette giocattoli semoventi, parzialmente
automatizzati.
Saruman, in
tal senso, non è cattivo perchè usa la tecnologia; al contrario,
perchè la usa eccessivamente, sfruttandola all'esagerazione,
pervertendola allo solo scopo militarista.
E' l'(ab)uso
della tecnica, l'incriminato per Tolkien.
Tom Shippey,
in J. R. R. Tolkien autore del secolo (XX, si intende...) argomenta
in modo magistrale questo punto:
La prima interpretazione è sicuramente l'ingegnosità meccanica, un artigianato che si trasforma in abilità ingegneristica. Barbalbero dice di Saruman che ha “un cervello fatto di metallo e ingranaggi”: i suoi orchi impiegano una specie di polvere da sparo al Fosso di Helm; e in seguito usa contro gli Ent qualcosa di molto simile al napalm, forse (secondo le memorie belliche di Tolkien) un Flammenwerfer. Dal punto di vista etico tutto questo potrebbe rimanere neutro, e Tolkien ha sempre avuto nella sua vita una forte simpatia per i comportamenti creativi (si pensi alla forgiatura dei Silmaril e “l'amore per le cose belle costruite dalla mano e dall'ingegnosità e dalla magia”, il “desiderio dei cuori dei nani” che Bilbo comprende per un istante ne Lo Hobbit).
Il passaggio
è un esempio tra i tanti del modo con cui Shippey affronta la tesi
centrale del suo saggio: Tolkien autore del '900 e a voler osare
ancor di più, Tolkien autore “modernista” senza niente da
invidiare a Joyce, Virginia Woolf e altri pedissequi di quel genere.
Ciò
potrebbe suonare assurdo per chi da anni (verrebbe da dire: da
secoli) si è impuntato nel definire Tolkien un autore medievale,
nella doppia ambivalenza del termine: medievale perchè messaggero
dell'epica guerresca delle Crociate e ancor prima del paganesimo
nordico, o medievale perchè derivante da una religiosità luddista e
anglocentrica.
Tuttavia,
con la vistosa eccezione del nazionalismo inglese incarnato dagli
hobbit, l'argomentazione di Shippey volta a calare Lo Hobbit e il
Signore degli Anelli nelle esperienze e negli eventi centrali del
'900 convince, specie perché anziché bloccarsi all'allegoria o al
gioco di abbinamenti tra personaggi fantastici e personaggi storici,
preferisce addentrarsi nel terreno arduo del lessico.
L'esempio
più impressionante, in tal senso, è fornito dal combattimento tra
il drago Smaug e Bard, dove Tolkien recupera la sua esperienza nelle
trincee della Grande Guerra:
La morte di Smaug viene tuttavia presentata per la maggior parte del tempo (sino al colpo finale) in un modo che sembra molto più modernistico. Innanzitutto si tratta di una scena di massa. Quando il fuoco sputato dal drago appare per la prima volta nel cielo, Bard non prepara la sua armatura, come Beowulf, ma comincia a organizzare una difesa collettiva, come un ufficiale di fanteria del ventesimo secolo. Ordina alla città di riempire vasi d'acqua, di tener pronti dardi e frecce, di abbattere il ponte (il tutto, nell'ottica della Terra di Mezzo, equivale a scavare trincee, raccogliere munizioni e organizzare squadre di ricognizione).
Smaug è così accolto da una postazione fortificata e da una cascata di fiamme, mentre Bard corre avanti e indietro “rincuorando gli arcieri e incalzando il Governatore a ordinare loro di combattere fino all'ultima freccia”. L'ultima parola mette in rilievo la natura composita della scena perché ci si potrebbe aspettare una frase del tipo “combattere fino all'ultimo colpo”, frase che appartiene al mondo dei moschettieri. Similmente, “c'era ancora una compagnia di arcieri che their ground (resisteva) in mezzo alle case in fiamme”. To hold one's ground è un'altra espressione modernista che evoca mappe e prime linee. La versione antico inglese avrebbe portato hold one's stead, dove stead indica il punto in cui si permane. Di fatto l'intera scena, sebbene trasportata all'epoca dell'arco e della freccia, sembra piuttosto appartenere alla Prima Guerra Mondiale (dove Tolkien combattè) che non a una leggendaria battaglia dei Secoli Bui.
Il bersaglio
polemico di Shippey non sono tanto gli scrittori modernisti, quanto i
loro epigoni: osserva correttamente come lo stesso Ulisse fosse stato
all'epoca della pubblicazione disprezzato come illeggibile e osceno e
nota curiose affinità tra Joyce e Tolkien.
Il primo
infatti era per hobby filologo, come lo era invece di professione
Tolkien. Il capitolo I buoi del Sole dell'Ulisse, così come il
capitolo Proteo sono dedicati all'argomento.
Sia Il
Signore degli Anelli che l'Ulisse presentano una scaletta e un
insieme di finalità progettate fin dall'inizio, tra cui spicca la
vocazione “enciclopedica”.
Inoltre, sia
Tolkien che Joyce scrivono dapprima una piccola opera (Lo Hobbit,
Dedalus) a cui segue un'opera magna, la più conosciuta (Il Signore
degli Anelli, l'Ulisse) cui segue un'opera per stretti
appassionati/letterati incomprensibile ai più, rielaborata in
seguito dagli specialisti post-mortem (Silmarillion, Finnegans
Wake/Stephen Hero).
Shippey
ovviamente non vuole affermare che Tolkien sia Joyce e viceversa,
anche perché le differenze contano in questo caso certo più di
casuali somiglianze, tuttavia l'operazione per com'è proposta
risulta sovversiva, perché va a toccare una delle vacche sacre dei
realisti.
Come se non
bastasse, Shippey osserva tuttavia come sia l'Ulisse che in generale
gli scrittori modernisti non esprimano giudizi sulla “realtà”,
ne propongano soluzioni: le storie di questi romanzi sono private,
avventure di signori qualunque che compiono azioni comuni.
Nel '900,
posti davanti alle problematiche, agli orrori e ai dilemmi della
modernità, il comportamento di questi modernisti è chiaramente
immaturo: pur rivendicando che solo lettori “eruditi” e
“raffinati” sono in grado di leggere il modernismo, non offrono
nei loro testi alcuna soluzione, alcuna risposta a queste
problematiche morali. Al contrario, le vite di questi signori nessuno
sono neutre, e come tali vigliacche, amorfe. La soluzione di Tolkien
di un ritorno all'Inghilterra rurale non è detto che vada condivisa,
o piaccia, ma è almeno una risposta.
Nella forma dell'allegoria, del
“fantastico”, Tolkien raffigura il '900 senza ricorrere a trite
metafore (no, l'Unico Anello non è la bomba nucleare e Sauron non è
Hitler...) cercando di sottolinearne le vie d'uscita e le possibili
soluzioni. Ci si può chiedere, come osserva Shippey, chi sia davvero
in fuga dalla realtà, se Tolkien o i fanatici del “realismo”...
Arte di Sara Kipin, ritaglio di copertina. |
Perchè,
sull'esempio di Shippey, non facciamo un esperimento?
Cosa
pensereste se vi dicessi che si può scrivere sulla realtà e
scrivere un romanzo “realista” usando animali parlanti? Sì,
avete capito bene: animali che si vestono e parlano come esseri
umani, ma che restano animali. Un porco resta pur sempre un porco,
anche se in cravatta.
Un romanzo
sul '900, critico verso il '900, che propone soluzioni al '900, in
un'ambientazione e una storia cupissima ma... ma... con animali
parlanti.
Ovviamente,
chi è davvero letterato, avrà già compreso il mio rozzo gioco: il
testo in questione è La Fattoria degli Animali, di George Orwell.
Nessuno mette più in dubbio il valore del romanzo di Orwell, entrato
a pieno titolo anche nei testi delle medie e delle superiori.
Se siamo
riusciti ad accettare che La Fattoria, pur usando animali parlanti,
sia un testo serio, non si capisce perchè un'uguale accettazione non
possa verificarsi con Il Signore degli Anelli.
D'altronde,
in ambito nostrano, tanto per citare un intellettuale morto di
recente, su cui si sono spesi gran fiumi di pianto sui social
e cioè Umberto Eco:
E' nazista ogni vagheggiamento di una forza, eminentemente virile, che non sappia ne leggere, ne scrivere. Il Medioevo, con Carlo Magno che appena sapeva fare la propria firma, si presta mirabilmente a questi sogni di un ritorno alla villosità incontaminata. Quanto più peloso il modello, tanto maggiore il vagheggiamento: l'Hobbit sia modello umano per i nuovi aspiranti a nuove e lunghe notti dei lunghi coltelli. (Dieci modi di sognare il Medioevo, in Sugli Specchi, Bompiani, Milano, 1985, pp 84-85).
Non è la
cosa più bizzarra, ma tutti sanno, persino chi ha letto solo lo
Hobbit, che i mezzuomini non hanno mai la barba: è quanto li
distingue dai nani. Non era ovviamente questo il nocciolo del
discorso: è chiaro infatti come Eco non avesse letto i testi che
accusava.
D'altronde,
consoliamoci con un'altra citazione da Shippey, che dimostra come
certa miopia letteraria non sia solo italiana, ma internazionale:
Ben pochi dei critici di Tolkien (con le dovute eccezioni) sono stati in grado di dare una forma concreta e definita alle loro reazioni negative per permetterne un sano dibattito. Uno dei critici più accaniti ebbe a confessarmi in una conversazione privata, svoltasi nell'ascensore che ci portava fuori dagli edifici della BBC dopo un dibattito radiofonico, che non aveva mai letto Il Signore degli Anelli, libro che aveva appena finito di attaccare.
Sono gli
stessi critici che lamentano il “buonismo” di Tolkien, insistendo
che ogni sua storia ha un lieto finale, il che è una prova
inappellabile di quanto l'universo tolkeniano sia adatto solo a un
bambino. L'escapismo non è un difetto, così come non lo è scrivere
e leggere solo per divertirsi, e scrivere di letteratura per
l'infanzia non dovrebbe mai e poi mai risultare un impiego/ripiego di
secondo grado.
Anche però
ammettendo che questi (pre)giudizi siano veri, non si applicano a
Tolkien.
Difficile
trovare, anche in narrativa per bambini valida come Harry Potter, un
tono responsabile e serio verso il lettore come quello de Lo Hobbit e
de Il Signore degli Anelli.
Ho già
scritto, a livello personale, su come Lo Hobbit sia tutt'altro che un tipico romanzo per l'infanzia, dalla quantità di personaggi e nomi
“difficili”, allo stesso Bilbo, che solo forzatamente si può
assimilare a un “bambino cresciuto”. Un hobbit non è un barbaro
fascista, come non è un bambino fatato.
Raramente si
osserva come nella battaglia finale de Lo Hobbit muoia Thorin, l'eroe
“epico”, assieme a Kili e Fili, i due nani giovani e pertanto più
simpatici. E' una vera mattanza di personaggi, un massacro che
addolora profondamente Bilbo e per suo tramite anche il lettore.
Sempre alla
fine de Lo Hobbit, sia Thorin che il Governatore di Pontelagolungo
subiscono l'influsso dell'oro del drago, la malizia dell'avidità di
potere e ricchezza: Thorin “paga” immolandosi in battaglia, il
Governatore addirittura fugge nel deserto con una borsa piena d'oro,
andando incontro a un'orribile morte per fame e per sete. Una casa
editrice moderna rifiuterebbe (a torto) tematiche del genere, perché ritenute dannose per i bambini. Sarebbe anche da sottolineare il personaggio
di Beorn, mutaforma selvaggio e anarchico, al di fuori di ogni regola
“civile”, così come i rapporti carichi di tensione razziale tra
elfi, nani e uomini ai piedi della Montagna. Incidentalmente, è
proprio il rispetto che Tolkien porta verso il lettore, indifferente
che sia bambino o adulto, a rendere il romanzo così appassionante.
Se il lieto
fine de Lo Hobbit non elimina dunque pianti e morti, i capitoli
finali del Signore degli Anelli risultano se possibile ancora più
ambigui. Sauron è sconfitto, la Contea “liberata” ma nonostante
la vittoria sul Male, le forze del Bene soffrono le cicatrici di
guerra.
Frodo, come
osserva fuggevolmente Shippey e sul quale argomento mi permetto di
approfondire, è un vero concentrato di sofferenze post conflitto:
fisiche, mentali, spirituali, storiografiche.
In primo
luogo, nonostante gli onori, alla prova del Monte Fato ha fallito:
completamente corrotto, è stato “salvato” dall'attacco di
Gollum. La Terra di Mezzo è salva, ma per un insieme di circostanze
che Tolkien definirebbe frutto della Provvidenza e per noi agnostici
conseguenza del Fato.
L'Anello,
com'è evidente dagli Spettri, causa assuefazione, con effetti
postumi di lunga e breve durata, come una droga. Frodo pertanto, è
un hobbit uscito dallo Zoo di Berlino, chiaramente soffre per la
perdita dell'Unico.
A livello
prosaico, come Tolkien era un reduce dalla Grande Guerra e aveva
sofferto a lungo la “febbre da trincea”, così Frodo soffre le
conseguenze del suo viaggio:
E proprio per questo motivo si allontanò da casa ai primi di marzo e non seppe che Frodo si era sentito male. Il tredici di quel mese il vecchio Cotton trovò Frodo disteso sul letto; stringeva una pietra bianca appesa a una catena intorno al collo e sembrava immerso in un sogno.
« E' scomparso per sempre », diceva, « ed ora tutto è nero e vuoto ».
Un altro passaggio ricorda
chiaramente i reduci che sentono, alla pioggia o in certe
circostanze, il dolore per l'arto perduto, o la vecchia cicatrice che
dà noie. Ancor peggio, Frodo sembra rivivere la scena del
combattimento, come i veterani affetti da disturbo post-traumatico.
In autunno sembrò che Frodo fosse di nuovo assalito dalle antiche sofferenze.
Una sera Sam entrò nello studio e trovò il suo padrone molto strano. Era pallido, e i suoi occhi sembravano vedere cose lontane.
« Che c'è che non va, signor Frodo? », disse Sam.
« Sono ferito », egli rispose, « ferito; non guarirò mai del tutto ».
Ma poi si alzò e il malessere parve scomparire; l'indomani egli sembrò di nuovo perfettamente normale. Solo più tardi Sam rammentò che la data era il sei di ottobre. Quel medesimo giorno di due anni prima faceva buio nella cavità ai piedi di Colle Vento.
A completare
la totale sconfitta, Frodo è l'unico hobbit dei quattro “eroi”
che non riceva ne elogi, ne ringraziamenti e il cui valore non è mai
riconosciuto dai suoi ignoranti compaesani.
Merry e
Pipino, all'ultima battaglia nella Contea si comportano come
guerrieri e generali, Sam diventa un buon padre di famiglia,
avanzando anche di “classe”, Frodo... Frodo tenta di tornare alla
sua vecchia vita, fallendo.
Niente gli andò male durante tutto l'anno; l'unica cosa che lo rendeva vagamente ansioso era la salute del suo padrone.
Frodo abbandonò a poco a poco tutte le attività della Contea, e Sam era addolorato dello scarso prestigio di cui il padrone godeva nel suo paese. Poca gente conosceva o voleva conoscere le sue gesta e avventure; l'ammirazione e il rispetto di tutti andavano quasi esclusivamente al Signor Meriadoc e al signor Peregrino, e allo stesso Sam (senza ch'egli se ne accorgesse).
E'
significativo come in Italia si sia sostenuto l'esatto opposto con il
saggio “Frodo Baggins, l'eroe che non ha fallito” contenuto in
“Albero” di Tolkien, a cura di Gianfranco De Turris. L'autore,
Gianluca Casseri, confeziona un insieme di frasi che stento a
definire “testo”, senza note a piè di pagina, bibliografia o
argomentazioni. Per inciso, lo stesso Cassieri alcuni anni dopo darà
di matto in una sparatoria su civili a Firenze, ammazzando alcuni
poveretti colpevoli dell'immenso crimine di essere senegalesi (sic).
In
Inghilterra, dove la critica - grazie ai Valar! - è di maggior
spessore, che Frodo sia un eroe “fallimentare” è un dato di
fatto. Il suo fallimento, insieme all'implicito che Sauron ritornerà
in una forma o l'altra e che tanti sono morti per assicurarsi questa
vittoria rende Il Signore degli Anelli un romanzo dal finale meno
felice di quanto normalmente si consideri.
Fonti:
J.R.R.Tolkien, autore del secolo, di Tom Shippey, Simonelli Editore. Un po'
invadente, ma tutto sommato buono l'apparato di note fornito dal
curatore/traduttore, così come la premessa iniziale. Bella la
copertina di Lorenzo G. Daniele.
Per chi è
di Trieste, ne trovate una copia alla Biblioteca Attilio Hortis, Opac
docet.
“Albero”
di Tolkien: come Il Signore degli Anelli ha segnato la cultura del nostro tempo, a cura di Gianfranco de Turris. Riporto l'ottima critica di Paolo Nardi.
2 commenti:
Ottimo post, come sempre. Ci ho messo del tempo per assaporarmelo tutto... Quando parli di Tolkien mi lasci sempre ammaliato.
Non ti nego che non saprei cosa aggiungere in più...
@ Marco Grande Arbitro
E' tutto merito di Tom Shippey, credimi :-)
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