lunedì 2 febbraio 2015

Alien Dungeon (racconto)


Era da un po' che non postavo un racconto. Al momento – a dire il vero tre settimane fa – sto lavorando su due diversi racconti lunghi (novelle), l'uno dall'ambientazione ottocentesca, l'altra dall'ambientazione (gulp!) fantasy. Quando terminerò la prima stesura di entrambe, magari ve ne scriverò per avere un parere. In questo caso volevo scrivere qualcosa di semplice e diretto. L'idea era di prendere il classico protagonista di uno sparatutto e inserirlo in un racconto full action. Scrivendo in prima persona ho avuto la conferma: per essere il protagonista di uno sparatutto devi essere muscoloso, brutale, disciplinato. In altre parole: un coglione militarista pieno di testosterone, un po' come il protagonista di American Sniper o come molti nerd vorrebbero essere, tolte patatine&Coca Cola. Buona lettura e non scordate di commentare!

Alien Dungeon 



Il corridoio è una sottile linea nera, le pareti brillano ogni tre metri per gli ologrammi color rosso neon. Faccio un passo, poi un altro. Gli stivali rinforzati strisciano silenziosi sul pavimento.  
Il fucile a impulsi pesa maledettamente sul braccio, i chili di oltre venti caricatori affastellati sulla schiena diminuiscono il movimento, rallentano. Li ho raccolti uno dopo l'altro dai cadaveri dei nemici, laggiù nel labirinto. Mi fermo un momento per aprire la culatta del fucile, far scattare uno dopo l'altra le munizioni. Click, click, click. Stringo sulla vita la cintura, allaccio le stringhe del giubbotto in kevlar, strofino via lo sporco dallo stemma sul braccio. 
Araldica rossa e bianca, un incrocio di filamenti sopra uno sfondo blu scuro. 
Great Britain Elite Corps fucking yeah! 
Riprendo a camminare nel corridoio, puntando il fucile ora a destra, ora a sinistra. Gli ologrammi brillano intensi, poi si affievoliscono al chiarore di un lumicino rossastro. Alzo il fucile, allineo alla spalla. Punto verso l'estremità del corridoio. Nel momento stesso in cui una silhouette s'affaccia dall'ologramma stringo il grilletto, scarico una raffica. La figura si piega in due, emette un grido strozzato. Corro in avanti, la raggiungo. E' una donna impaludata in un ampio mantello azzurro, il capo avvolto da un turbante. Tossisce, sputacchia sul vestito un'ampia boccata di sangue. Crepa con un rantolio. La frugo con il calcio del fucile a impulsi, sondando le profondità della veste. 
Niente pistola, niente fucile, niente coltello. 
Azzo' un civile questo mi toglie punti!
Gli ologrammi rosso sangue sulle pareti risplendono nuovamente. 
Alle mie spalle, a sei metri e due ologrammi di distanza, compaiono due nuovi nemici. 
Rotolo a terra, mi volto. Esito, il mirino settato sul torso delle due silhouette immerse nel buio. 
Una raffica mi straccia il braccio sinistro.
Bestemmio, mi getto rasente alla parete più vicina. Coll'avambraccio intatto sventaglio il fucile a impulsi. Sussulta come una bestia ferita, vomitando una gragnola di raggi verso il nemico. 
La prima silhouette falciata al torso scoppia lontano, sbriciolandosi con un glup di piastrine. La seconda striscia a terra, le gambe fracassate. La inchiodo con due colpi secchi alla testa. 
Il braccio ferito stilla sangue sul pavimento nero. Mi accuccio, libero dalla fondina la pistola. 
La poso a terra, pronta all'uso. Poi apro lo zaino, ne estraggo la catena di granate e delicatamente afferro una borsa bianca con una croce ricamata. Arrotolo le bende sul braccio, vi spruzzo una passata di anestetico. Il kevlar della tuta è sbrindellato in lunghe strisce che penzolano inutili. 
Gli ologrammi risplendono ancora, due metri in avanti. Una bassa silhouette compare da destra, solleva il profilo aguzzo di una mitraglietta. Scarico l'intero caricatore della pistola laser nella pancia della minaccia. Zoppico, mi rialzo. Recupero il fucile a impulsi, saccheggio i due nemici. 
Vestono una tuta a strisce bianche e nere. I volti scimmieschi, deformati dalla barba e dall'assenza di chirurgia estetica, sono irrigiditi dal trauma della morte. Un collare puntuto sporge dal collo rigonfio di vene del primo, mentre il secondo esibisce un tatuaggio sul petto villoso. Getto nello zaino i caricatori, poi mi rivolgo al terzo aggressore. 
Da quant'è basso, dev'essere per forza un robot warrior
Il volto di un bambino di dieci anni mi fissa dall'orlo di un casco colorato di blu. Stringe ancora spasmodico la mitraglietta, dal caricatore ormai scarico. Il torso è sventrato da costola a costola dall'impatto della Glock al laser. Gli strappo la medaglietta e controllo l'età, con una certa soddisfazione: dieci anni, esatto. 
Per le baby gang sono un sacco di punti in più. Piccoli, dannati teppisti!
Dopo un quarto d'ora di cammino, il corridoio si biforca. 
A destra gli ologrammi al neon si estendono nell'oscurità, mentre a sinistra il corridoio è nero, qualcuno ha massacrato ologramma dopo ologramma a colpi di mazza. Mi tolgo il guanto destro, sollevo l'indice a tastare l'aria immobile. Un lieve refolo proviene dal corridoio buio. 
Con la forza dell'abitudine ricarico il fucile a impulsi. 
Click, click, click. Mi calo sulla faccia il visore notturno e vado dentro. 

***

Il visore è una maschera dalle fattezze di un insetto sotto amfetamina, il bulbo con visori a infrarossi analizzano il terreno affamati di calore. Ma le mie pupille dilatate non scoprono nulla. E' solo un corridoio deserto, che dopo dieci metri non rivela altro dai cocci rotti sotto gli stivali. Ogni singolo ologramma è distrutto, infranto. 
Deglutisco, la gola secca. Depongo il fucile a terra, frugo nello zaino fino a trovare la borraccia. Inghiotto un sorso di acqua rancida. Sovrappensiero, allungo le dita fino a toccare il muro del corridoio. Le ritraggo di scatto, i polpastrelli in fiamme. La pietra del muro è bollente. A toccarla, sembra che qualcuno vi abbia acceso dietro un gran fuoco. Ma gli infrarossi non rivelano la minima traccia di calore. Traffico con le rotelle, aumento e diminuisco l'intensità dell'affare. Il muro rimane freddo. Eppure... Ah! Al secondo contatto, il guanto brucia come uno zolfanello. La gomma si squaglia, impreco mentre la mia pelle ribolle, arrossata. 
Dopo altri dieci metri di corridoio, mi blocco per una seconda volta. Guardo indietro verso il sottile luccichio all'entrata del tunnel. Confronto le dimensioni del corridoio, tiro una bestemmia. Il corridoio si sta restringendo, quelle maledette pareti infuocate si avvicinano sempre più. Stringo i denti – niente ologrammi, se non altro – e tiro avanti. 
La mia spalla struscia per mezzo secondo sul muro, esalando una lunga, bituminosa striscia di cuoio e kevlar bruciato. Il puzzo mi riempie le narici, mi schizza fino al cervello, stimola i centri del vomito. Barcollo con la lingua annegata nel sapore acre del rigurgito. Incespico in avanti. 
Il corridoio si è a tal punto ristretto che devo posizionarmi di lato, avanzare a passo di gambero. Un braccio col fucile puntato in avanti, il torso posizionato di sghembo, con la schiena contratta. Striscio per altri dieci metri, fino a strofinare il mento sul muro. Urlo, l'odore della pelle bruciata che olezza nel corridoio. Mi ricorda una grigliata coi vicini. Ma non sarò io il porco a finire sotto i ferri. Accelero, striscio ormai senza più ritegno stivali e spalline sul fuoco. Il verde dell'uniforme è picchiettato di cenere, sento un'intera spalla ustionata. Pulsa, le vene esposte sotto la carne fritta, squagliata. Sono meno di trenta centimetri nell'anfratto che continuo a chiamare corridoio. Con un'ultima spinta, disintegro bottoni e giubba per passare. Grido animalesco, quando fuoriesco dal buco. – Sì! Cazzo! Sì! – Getto via frenetico la giubba, i resti in fiamme dell'uniforme. Calpesto sotto gli stivali deformati dal calore il visore. Ho nella guancia schegge di plastica fuse nella pelle, mentre il lobo dell'orecchio è un grumo informe, un tutt'uno con il collo. 
Controllo che il fucile a impulsi sia carico, esamino la piazzola in cui sono finito. 
E' una perfetta circonferenza, all'incrocio di due tunnel, uno davanti e uno dietro. Quello dietro è la sottile rientranza cui sono appena fuggito, quello davanti è invece illuminato con lampade a incandescenza. E' bianco, pulito e asettico. Non scorgo ologrammi e al tatto la parete è liscia, senza grammo di polvere. Sbircio all'entrata del corridoio. Non ho molta scelta. O quello, o la rientranza infuocata. Gambe conserte decido per una pausa. Il mio cervello implora una sosta, ma le mani continuano a muoversi, spinte dall'automatismo dell'addestramento militare. 
Estraggono la pistola laser, la smontano nelle sue diverse parti, dal calcio al caricatore. Puliscono la canna, sgrossano dallo sporco le celle di energia. Intanto rifletto. Posso ancora ricordare il mio nome, John O' Connor. Il lavoro sporco come contractor in Repubblica Centrafricana, il successivo impiego come scorta a un divo metallaro nei Balcani. E l'inferno in Afghanistan. Unità di rinforzo del contingente di pace inglese. L'imboscata di notte, il fuoco degli rpg. L'odore di cordite e terra bruciata. L'abduzione dall'alto. Sono come noi, gli alieni, lo sapete? Hanno una testolina grigia e piccola, bassi come un nanerottolo del circo e (quasi) altrettanto cattivi. E come noi, amano giocare. Noi guardiamo alla tivù i wrestler che se le danno di santa ragione e applaudiamo a ogni colpo. Loro ci rapiscono, ci ficcano dentro un labirinto e ci guardano. Ci guardano giocare. Ammazzarci a vicenda come cani rabbiosi. Non è tanto diverso dall'aizzare i galli l'uno contro l'altro. O dai cari, vecchi scontri nelle arene della Roma imperiale. E ci danno tanti giocattoli con cui giocare. Questa pistola, ad esempio. Lo scatto, il grilletto. Tutto motherfucking uguale a una pistola glock. Ma dentro è tutta diversa. E i raggi che spara vaporizzerebbero la testa di una tigre. Vogliamo poi parlare di questo maledetto dungeon? Ogni stanza, ogni corridoio, ogni ologramma: una trappola. Ne ho incontrati altri, nel labirinto. Ho calpestato lo scheletro calcinato di uno spetznaz con Uzi e coltello. Un narcos bianco di cocaina ha perso in successione una gamba, un braccio e quel poco di cervello sotto il mio fucile a impulsi. Feccia. Ci prendono, ci rapiscono. E sanno che non esistiamo, siamo solo cifre di un tabellone. Soldati, donne e bambini che nessuno vede, nessuno conta. 
Tempo di muoversi. Bevo un sorso dalla borraccia, mi getto nel corridoio bianco. 
E se fosse questa l'uscita? 
Un riflesso sugli occhiali antischegge mi fa voltare. Sussulto, poi salto trenta centimetri in alto. Un laser intravisto con la coda nell'occhio nel riflesso del vetro mi saetta sotto la punta dei piedi. Poi ne scatta un altro, stavolta dall'alto in basso come una falce rossastra. Mi getto pancia a terra, sento che sfiora il casco. Una sottile lamina di kevlar cauterizzato rimbalza sul pavimento. Mi rialzo, scruto ansioso il corridoio. 
Un suono sottile, di cavalletta impazzita preannuncia l'arrivo di un terzo laser. Obliquo, dall'alto a destra dritto in basso a sinistra. Mi getto, protendo il corpo in avanti. Passo per pochi centimetri. Sento l'alluce dello stivale puzzare. Cauterizzato fino alla radice. Atterro sul pavimento, rotolo. Zoppico avanti. Sono tre metri alla fine del tunnel. La melodia infernale scampanella per tutto il corridoio. Mentre zoppico frenetico in avanti, il piede mutilato che striscia sul pavimento, mi volto. Il laser ha formato una griglia, giunge a velocità supersonica. Corro, abbandono il fucile. Esco dal corridoio un secondo prima che la griglia arrivi a destinazione. 
Guardo il fucile a impulsi. E' un colabrodo informe di plastica, metallo, cubetti liquefatti. Singhiozza olio sul pavimento immacolato. Continuo a stringere la pistola con mani che ancora tremano dallo shock mentre cogli occhi frugo il nuovo punto d'arrivo. 

***

E' un'aula conferenze dal pavimento in pietra e tredici file di sedie. Due poltrone ergonomiche sono parcheggiate di fronte a un tavolino con una bottiglia d'acqua e tre bicchieri di plastica. Dietro il palco, uno schermo al plasma trasmette un video, il sonoro disattivato. Zoppico nella stanza. Punto la pistola verso lo schermo, ma non osservo reazioni. La cinepresa del video inquadra a mezzobusto un ometto grigio, giacca e cravatta nere su camicia azzurrognola. Trattengo a stento il grilletto, quando mi accorgo che dal colletto della camicia emerge il collo sottile e segaligno di un alieno. Gli occhietti nerastri senza pupilla mi fissano, sormontati dal frinire di due antenne iridescenti.

- Contractor John O' Connor – Annuncia, sfogliando un cumulo di carte tra le chele. – Trentasette anni, dieci in servizio nell'esercito inglese, nove come mercenario indipendente. Bangladesh, Liberia, Serra Leone, Sicilia, Serbia e Montenegro. Abduction effettuata nell'imboscata a nord dell'Afghanistan, nel corso di un'operazione Search&Destroy. Quarantotto uccisioni nel Labirinto, tre prove del fuoco, diciassette trappole superate con pieno successo. Uso del laser: efficacia all'80%. Uso degli impulsi: efficacia al 93 %. Lieve paranoia da stress di guerra. Nessuna addizione a fumo&alcool. Stato psicofisico: eccellente. In virtù del codice del Labirinto la promuoviamo di livello. Ha conquistato il rango di soldato delle forze speciali nel Sas.  –

Un formidabile mal di testa mi martella il cranio con chiodi incandescenti. Grugnisco, poso la pistola laser sulla sedia più vicina. Mi avvicino allo schermo, ci traffico intorno. Col naso a cinque centimetri dal plasma, socchiudo gli occhi. Fisso l'alieno. Boccheggio, il cervello si contorce a negare il fatto. Quella roba lì non è un alieno. E' un omuncolo di plastica anni novanta. Distinguo ora le chele riciclate da un set di Sharknado. L'ossatura dell'alieno è un vecchio pupazzo di ET camuffato con dello spray. Il baluginio all'angolo dello schermo puzza di ritocco digitale da quattro soldi. L'alieno sembra ritrarsi, a vedermi trafficare così vicino. Avverto il cicaleccio delle telecamere nascoste come una prurigine ai capelli. L'immagine sfarfalla, si esaurisce bruscamente in uno zip terminale. Afferro di nuovo la pistola, tolgo la sicura. Scavalco le sedie, le rovescio a farmi spazio. Lentamente giro su me stesso, la pistola puntata. Non ci sono aperture, né porte né tunnel. Il soffitto è pietra dura, cemento colato in blocchi massicci. Nella pietra delle pareti non scorgo intersezioni. Ho il respiro accelerato, il cuore batte un colpo di più a ogni intuizione. E' vero, a diciotto anni compilai un questionario per l'arruolamento. Pretesi di fare il Sas più di ogni cosa. Ma il Sas non getta vecchi contractor in labirinti gestiti da alieni. Non ti danno armi laser da usare in distopici dungeon da videogioco... Non...
Una sezione della parete slitta all'indietro, scivola su rotaie idrauliche fissate al pavimento. Lo scricchiolio dei meccanismi accompagna lo scintillare dell'olio di macchina. Una coltre di polvere sporca l'ultima fila di sedie. Dall'apertura entrano tre soldati con maschere antigas, giubbotto anti proiettile e fucile a impulsi. Un esoscheletro sperimentale potenzia i muscoli rigonfi sotto l'uniforme nera. Stringono le impugnature, tolgono al sicura. Si posizionano a falange nella sala. 
Dietro, emerge la silhouette slanciata di un uomo sulla cinquantina. Indossa una giacca bianco panna in tono con una cravatta rosa. Il viso sorride, le grinze di un intervento plastico su labbra e guance sono in tensione come cerotti su una ferita. Spolvera una sedia, si accomoda con le gambe incrociate. Un sorriso sul volto finemente abbronzato da lampade solari. 

- Signor John O' Connor! Finalmente! Per un attimo, a guardarla saltare il laser del corridoio bianco, abbiamo temuto il peggio –
Sollevo un sopracciglio. – Lei non è del Sas – 

Scatarra una risata cavallina tanto acuta da far male alle orecchie. Fruga in tasca, estrae una maschera di gomma. Ci ficca dentro la mano, la gonfia fino a riempire con indice e medio i buchi per gli occhi. E' una brutta riproduzione di un alieno. Le zanne in gomma, la pelle grigia, le antenne stroboscopiche. – Intendeva Mister Alieno, vero? L'abduction, come lo chiamiamo. Un piccolo scherzo del nostro settore reclutamento. Le reclute sono motivate, se pensano di trovarsi in un labirinto alieno. O no? – 

- Certo le terrorizzate a morte. Ma questo non è il Sas? – 

- Certo che lo è. Questo labirinto è di proprietà del Sas, ovvero della Società Azionaria per lo Svago. In sintesi. Sas. Siamo una multinazionale in contratto con le principali agenzie per il divertimento internazionale. Abbiamo stretto patti decennali con la Disney, Hasbro, Ea games, Ubisoft e in generale con ogni possibile agenzia per il divertimento, specie elettronico. Siamo altresì al servizio dei principali Social network, Google+ escluso. Non avrà pensato certo che fossimo il Sas al servizio della Regina, vero? Quegli straccioni statali non hanno potere da un pezzo, ormai. Il nostro braccio armato è una milizia privata, sissignore. E ne andiamo maledettamente fieri. – 

- Mai sentito di questa... Società Azionaria per lo Svago. Sas. Cosa implicherebbe il vostro coinvolgimento nel Labirinto? – 

- L'abbiamo creato noi, non l'ha capito? – 

- Avete creato un labirinto con trabocchetti e nemici per... cosa? – 

- Per il reclutamento, ovviamente. I principali stati al mondo ci forniscono liste di mercenari e soldati fuori servizio. Tutti con ottime referenze, tuttavia ormai al di fuori delle normali giurisdizioni. Noi li rapiamo e vi gettiamo qui dentro. Siamo al momento in una lontana contrada asiatica, signor O' Connor. Il Labirinto è ancora in costruzione e prevediamo il suo completamento verso il 2036. Ma si è già rivelato molto, molto efficiente. – 

- Ma non è illegale... – 

- Cosa? Rapire normali cittadini? Se lo stato è d'accordo, e non vedo come potrebbe opporsi, è perfettamente normale. Tutta la nostra attuale milizia ha passato il labirinto e scelto di unirsi alla Sas. – 

- Ma i tizi uccisi... – 

Il manager agita la mano, seccato. – Non li nomini. Spazzatura, nient'altro. Li raccogliamo da carceri e slums in tutto il mondo e li gettiamo in questo tritacarne. Le autopsie che ci procurano sono utili per lo sviluppo delle armi sperimentali che lei già impugna, e con notevole maestria aggiungerei. – 

- Ho ucciso bambini e donne... –

- Un bambino europeo ucciso è un'immane tragedia, concordo con lei. Ma un teppistello delle periferie sudamericane è solo una statistica. Lei ha girato il mondo, no? Ha visto e ucciso “cose”. Non si nasconda dietro queste bugie – 

- Ma gli alieni... – 

- Gliel'ho detto, un utile travestimento. Tutti credono agli omini grigi, no? Non possiamo essere soli a quest'universo, bla bla bla – 

- D'accordo. E se accettassi di entrare nella milizia, cosa comporterebbe questo lavoro? – 

- Le solite cose. Destituire dittatori, torturare blogger, bombardare violatori di copyright e proteggere manager di alto livello. Sono sicuro che si troverà a suo agio. La sua paga sarà il doppio dei contractors, il triplo di un soldato regolare e il quintuplo di una guardia di sicurezza. Allora, cosa ne pensa? – 

Rinfodero la pistola, mi ripulisco dal sudore la fronte. 
Scatto in piedi, il corpo dritto come un fuso. 
La  palma della mano sulla fronte, un saluto militare sincero come non ne facevo da anni. 

- Ai suoi ordini, signore! Dove devo firmare? –

Fonte:
L'immagine in copertina è del disegnatore Kukez, presa dal Tumblr Animate me.

6 commenti:

Unknown ha detto...

Molto bello, mi lamenterei solo del fatto che all'inizio i pensieri sono in corsivo, poi al momento di parlare degli alieni sono invece liberi (preferisco quest'ultimo modo, tra parentesi). Però è un nonnulla e non intralcia il godimento generale. Complimenti.

Marco Grande Arbitro ha detto...

La fantascienza non mi attira, ma questo racconto scorre bene!

Coscienza ha detto...


@Filippo Flegias
Vero, non l'avevo notato. Di solito preferisco una terza persona "fredda" al passato, ma usare la prima persona è tanto più comodo! Penso che toglierò il corsivo dalla prima parte.

@Marco Grande Arbitro
Ottimo, ottimo! Era da un po' che non aggiornavo con un racconto...

Alessandro Forlani ha detto...

L'incipit è uno dei motivi per cui sono restio alla prima persona e al presente indicativo: trovo un po' forzato che uno, in azione, "si descriva". Però capisco: ubi maior... Dovremo pur vedere qualcosa, no? E non si può sempre ricorrere al trucchetto de "è la mia immagine riflessa nello specchio" ;-) La scelta si rivela sempre efficace nei paragrafi di tensione psicologica, ma in quelli descrittivi e di azione ci riporta in maniera troppo brusca al di fuori del protagonista.

Sono contento di rileggere un tuo racconto (un buon racconto, per giunta!).

Se "il solito lavoro" consiste nel "torturare blogger" firmo anch'io!

Coscienza ha detto...


E' buffo. Prima dei vostri commenti pensavo che l'incipit fosse la parte più solida del racconto, mentre era il finale a non convincermi troppo... Non so quanto venga trasmessa al lettore l'amoralità di protagonista&dirigente. Vedrò di riscrivere l'inizio.

L'espediente allo specchio - ahimè - è terribilmente artefatto, tanto quanto il protagonista che si descrive da una fotografia... "Ah già sono alto tot metri e ho barba nera e riccia, con sfumature grigie in punta..." E via dicendo >__<

Alessandro Forlani ha detto...

Non parlare a me di amoralità dei protagonisti & personaggi... :-D