venerdì 13 settembre 2019

La scure e i sepolcri. L'Axe & Sorcery sporco, ma elegante di Alessandro Forlani


Quand'ero bambino i miei genitori mi portavano spesso in cimitero: dapprima dalle fioraie decrepite all'ingresso, in seguito salutando quel golem del guardiano e infine presso una o più tombe di lontani parenti, a piantar fiori e biascicare preghiere.
Ricordo con grande fascino il cimitero e tutt'ora, se ho modo di visitarne uno, durante un viaggio, mi ci reco volentieri.
La stratificazione di tombe e cenotafi, di edicole e lapidi, esprime meglio di tanti libri lo scorrere inevitabile del tempo e la (vana) lotta di conservare la memoria.
Dapprima ingiallisce la foto, poi scompare la dedica, infine è il nome a sbiadire via, prima di scomparire definitivamente, inghiottito dall'iniziale di un nome illeggibile, financo all'ombra di uno stemma araldico.
Concludendo con le tombe dove solo una croce di legno marcisce nella terra dei morti, prima di trasformarsi in uno spiazzo erboso, delimitato da pietre seppellite dal verde.
Ho sempre compatito chi rifiuta di visitare i cimiteri, così come chi frequenta quelli americani, con quell'egualitaria e deprimente schiera di croci bianche senza passato.
Non voglio negare che il cimitero sia un luogo doloroso, ma l'ho sempre considerato espressione della storia di una civiltà; di una nazione, di un popolo, di una città.
Dopotutto, a inizio ottocento, Ugo Foscolo dei Sepolcri osservava il rapporto sano e razionale degli anglosassoni con i propri morti, lontano dall'adorazione morbosa dell'italiano fermo al medioevo.
Affermazione, certo, discutibile e patriottica, volta a convincere un popolo assai poco “popolo” a sacrificare quanti più figli alla patria, senza piangerli troppo, senza vederci fosco(lo).
Tuttavia la contrapposizione dipinta da Foscolo era quasi fantastica, nella sua estremizzazione; da un lato i cimiteri inglesi, ariosi e lontani dal nucleo urbano; dall'altro quelli italiani, portatori di morbi e sporcizia, incastonati nel cuore della città, persino inseriti quali lapidi nel pavimento delle cattedrali. Il cimitero era qui presente come un ammasso di ossa e teschi, uno strato dopo l'altro.
Una visione gotica e come tale, per noi amanti del fantasy, irresistibile.

Scrivo questo, perchè all'interno del mondo di Thanatolia, finora solo Alessandro Forlani ha trasmesso quell'inquietante stratificazione storica che ritroviamo nei cimiteri europei, laddove più secoli e civiltà si confondono e accavallano.
Mentre nelle altre novelle e romanzi di Thanatolia il cimitero compare nella forma di un dungeon classico, che riecheggia le avventure nella piramide egizia o nella cripta da saccheggiare, solo con Forlani c'è un autentico ecosistema funereo, una mortifera cultura nera.
Il cimitero non è – perdonatemi! – un luogo morto. Tuttora nei cimiteri succedono più cose di quanto uno abbia il piacere di pensare: nella sola Trieste c'erano le usuali coltivazioni di marijuana, ma non sono mancati eventi bizzarri, dall'occasionale cultista che pratica riti, alla donna che ritrovandosi chiusa in un'edicola ha dovuto spogliarsi per cercare di attirare l'attenzione di chiunque passasse.
Il cimitero, luogo vivo per eccellenza.
A fianco dell'elemento storico, la Thanatolia di Forlani è l'unica a presentare qualcosa di più di una tomba, o una fossa, o una cripta. Troviamo invece filari di cipressi, chiesette, edicole votive, fosse comuni, gallerie e claustrofobici cunicoli nel profondo della terra, statue, fontane e così via...
E la scelta di Forlani di prediligere un'ambientazione alle soglie dell'età moderna, con le prime pistole e i primi archibugi, ma lontana dall'essere civilizzata, garantisce quella sporcizia, quel lercio assente nelle altre opere di Thanatolia. Le pire bruciano fumo nero denso di ossa e carne marcescente, i preti agitano incunaboli d'incenso, le cripte puzzano di putrefazione e magia nera.

Ma cos'è Thanatolia, vi domanderete.
È un mondo fantasy dominato dalla morte: lontana dalla contea degli Hobbit o dall'Inghilterra della Guerra delle Due Rose di Martin, Thanatolia è un immenso continente, dalla forma di un teschio.
Qualsiasi tomba, qualsiasi defunto, qualsiasi cenotafio mai vergato confluiscono, per un'imperscrutabile causa cosmica, a Thanatolia, la quale effettivamente è un unico, grande cimitero.
Non c'è anima viva, qui: letteralmente.
A un capo del continente troviamo l'unica città abitata dai vivi, Handelbab. E traversando l'intera, infernale, distesa di tombe e morti che non vogliono riposare, l'altra grande città, Tijaratur.
Non solo cimiteri, tuttavia, perchè troviamo anche giganteschi, mostruosi crematori, con il Deserto di Cenere. E infine, laddove le acque lambiscono il necro-continente, troviamo il Mar dei relitti, dove ogni sfortunata nave della storia approda con il suo carico di ciurme non-morte.
La civiltà umana pertanto ha trovato ricchezza e sostentamento proprio nel commercio dei gioielli e dei tesori nascosti nel continuo, inesausto flusso di tombe e sarcofagi in arrivo a a Thanatolia.
Tombarolo a Thanatolia non è certo un insulto, ma un onesto lavoro. E come si può immaginare, sono i negromanti i veri “re” di Thanatolia, i veri padroni dell'ambientazione.



Negli ultimi mesi l'instancabile casa editrice Delos ha scelto di pubblicare, dietro la supervisione esperta di Alessandro Iascy, una collana di novelle e brevi romanzi a tema heroic fantasy.
Una narrazione veloce e brutale, un setting accattivante e lurido, una storia con colpi di scena e tanta, tanta azione. Quel genere di storie – semplici, ma oneste – che un tempo avremmo letto sulle pagine ingiallite di una rivista pulp.
Leggere storie belle, avvincenti; sopratutto leggere per il piacere di farlo, non per un dovere culturale o per essere “in” sui Social. La collana Heroic Fantasy annovera parecchie opere che proprio da Thanatolia traggono la propria ambientazione e non è certo un caso, perchè l'universo condiviso di Lorenzo Davia ha rivelato un'insospettabile tenacia, degna di uno zombie, nell'agguantare scrittori dalle più diverse frange letterarie.
In tal senso la scelta di partire con uno scrittore del calibro di Alessandro Forlani è programmatica, perchè mette il lettore a fronte di uno stile di scrittura e di un worldbuilding sofisticato, epperò totalmente connesso a un gusto per l'azione brutale e per l'avventura raro a trovarsi.

Malquist è un mercenario al soldo, niente più che un barbaro con un'ascia e decenni di esperienza nello schiantare porte, affettare mostri e fuggire col loot. È un illetterato, ma non è nemmeno un primitivo: sa come comportarsi nella giungla urbana, come orientarsi tra buoni e cattivi affari.
Forlani disegna un uomo semplice, disinteressato a grandi obiettivi: non è il Conan che vuole essere re, né un prescelto degli dei, né l'inconsapevole figlio di un nobile. È solo un soldato a cui piace il proprio lavoro che alla pari di ogni buon mercenario spende la sua paga in soldi e vino.
Esito a definirlo “barbaro”, perché siamo più nell'ambito del tombarolo con i muscoli. Non c'è alcun legame con la natura, solo tanto coraggio e come preannuncia il titolo, una scure.

Lo stile di scrittura di Forlani è lontano dalle espressioni più astruse di alcune precedenti opere, rivelandosi fluido e complesso, ma senza esagerazioni.
A confronto con altri racconti, compaiono espressioni cantilenanti, quasi ritornelli.
Le descrizioni come sempre sono molto attente ai singoli dettagli, non solo visivi, quanto propriamente sonori. Ho trovato invece brutto e irritante l'uso degli aggettivi a cascata, spesso due o tre nell'arco di una frase. Quando accompagnano le parole o l'azione di un personaggio sono particolarmente sgradevoli: se ad esempio una fanciulla arrossisce e trema, capisco immediatamente che è imbarazzata e spaventata, specie considerando il contesto. Trovo superfluo aggiungerlo a posteriori.



Il primo racconto - “Dodici Padroni” - vede Malquist accompagnare un professorone della città alla ricerca di un sepolcro che rivelerà una letale sorpresa.
Una miscela di magia nera e tecnologia preapocalisse. I nemici del racconto sono fantasmi: ricordano i negromanti dei Senza-Tempo, perchè disperatamente aggrappati a una non-vita, paurosi di compiere l'ultimo passo. Sono uomini di scienza che rifiutano di mollare, che sacrificano cervelli in fuga per sopravvivere. Rispetto ai Senza-Tempo, questi fantasmi sono stanchi, esausti: solo la curiosità li mantiene (letteralmente) in vita.

Come sempre notevoli le descrizioni:

Al comando di uno spettro gli ingranaggi si attivarono: le cremagliere, le ruote e i cardini ticchettarono e frinirono, polverizzando le incrostazioni e le radici negli interstizi. Uno scroscio di licheni, ghiaia, polvere e terriccio; crepe aperte fra le volte, le pareti e il pavimento. La porta lucida si aprì ronzando su un corridoio di luce azzurra, l'ultimo spettro fluttuò al di là con il compare fra le braccia.

Un patto nelle tenebre” presenta un Malquist alla sua prima avventura a Thanatolia con la compagnia di un'accozzaglia di mercenari l'uno più scafato dell'altro. L'obiettivo è una lurida cripta, infestata dalla magia più nera immaginabile. Il tema del cannibalismo si mescola bene  a un'ambientazione quale Thanatolia, con descrizioni truculente e maestose.
Il lessico utilizzato mi ha ricordato l'uso di certi registi di una pellicola volutamente sporca e corrosa, lontana dalla pulizia dell'alta definizione.
Se la storia è banale, gli scambi di dialoghi sono spassosi, ricchi di inventiva nella contrapposizione tra Malquist e il mago suo compagno:

– È un marchese dell'inferno – Comedius lo avvertì – ma è solo una metafora che abbia un regno su questo piano.
 – Le metafore non mordono.
– È la ragione per cui siamo qui: se si è insediato materialmente su questo tumulo è perché i varchi si sono aperti, la realtà s'è assottigliata; gli araldi demoni verranno per primi, li seguiranno le regine e i re…
– E poi che cosa? Il settebello e la briscola? Parla comprensibile, mago, ché mi incasini.
– … dopo di loro un'imperatrice: La sfiderò; e una volta che l'avrò sconfitta potrò prendere il suo posto…
– Sono ignorante: che cosa c'entra con…
– Santi déi, guerriero! Non conosci la cavalleria?!
– La si combatte chiusi in quadrato con le picche e le balestre – Malqvist si risentì – che altro c'è da sapere?

Chi di spada ferisce” è un altro racconto dell'antologia di Thanatolia, recuperato ad uopo.
Malquist deve assistere la figlia di una famiglia di nobili intenta a vendicare il fratello morto per un inganno durante un duello d'onore. La figlia pratica la magia, la vicenda coinvolge spade demoniache e tenebrose presenze... insomma è una classica storia di vendetta e investigazione, sebbene con un macabro twist finale.
Ho apprezzato come Forlani sottolinei ripetutamente l'analfabetismo di Malquist, il quale non è solo un dato caratteriale, ma lo danneggia nella sua comprensione dell'ambiente circostante.



Se i primi racconti non brillavano per il senso di ottimismo, ma rimanevano storie con un happy ending (well, sort of...) e una struttura tradizionale, gli ultimi due sperimentano con stili e argomenti, trascinando Malquist suo malgrado in territori imprevedibili.
Personalmente li ritengo i migliori di quest'antologia, sebbene siano i meno appartenenti all'ambientazione di Thanatolia.

Voglio vederti danzare” propone un Malquist stanco, insolitamente confuso e depresso. Un'avventura nelle cripte non è andata come doveva: il negromante ha macellato i suoi compagni, l'ha scacciato, l'ha maledetto. Il guerriero un tempo senza paura è ora un uomo confuso e mentalmente instabile, incapace di distinguere tra realtà e finzione.
Forlani descrive efficacemente la confusione di un protagonista che in realtà anche nei racconti precedenti si era rivelato un uomo confuso su cosa volesse fare della propria vita, a suo agio sì nel combattimento, ma incapace di fornire una direzione alla propria vita.
È davvero un bel racconto, “Voglio vederti danzare”, ma non lesina sulla depressione.
Il colore dell'intera storia è grigio, nero: il finale magnifico e terribile.

Un messaggio a una ragazza” acchiappa Malquist e lo scaraventa da tutt'altra parte: niente meno che in Palestina, al tempo degli antichi romani. La maestria di Forlani è tale che il luogo, così come i romani stesso, non vengono mai menzionati: eppure il lettore comprende immediatamente quale sia il luogo, quale sia il secolo. Piccoli indizi, brevi descrizioni, strizzate d'occhio dello scrittore lasciano indovinare dove si trovi Malquist, ma senza mai eccedere: viene tutto mostrato, senza paragrafi di infodumping. Una mossa di grande eleganza.

Se insisteva per persuaderli, spergiurando le sue imprese, intervenivano quei miliziani vestiti in rosso con corte spade, giavellotti, quattro lettere indecifrabili sugli umboni degli scudi: S, P e Q R; va' a capire che significa… Tizi bassi, ma tignosi, ed addestrati coi controcazzi; legionari di un impero che dominava su quelle terre.

La prospettiva, infatti, rimane saldamente ancorata alle spalle del protagonista, filtrato dal suo sguardo di barbaro abituato a magie&mostri.

L'appuntamento era innanzi il tempio: era facile, fin qui. Questo popolo un po' tirchio, molto astuto negli affari, era avaro anche di fede, ché adorava un dio soltanto: – Ci si risparmia nei sacrifici, ci sono meno solennità. Tranne il sabato, che è sacro – il taverniere gli aveva detto: la prima sera del suo soggiorno senza un goccetto né lo stufato. Va' che usanze, poveracci!
Se Malquist è a Nazareth, quando la Palestina era un'organizzata provincia romana...
Non è difficile immaginare la direzione del racconto che non spoilero, perchè merita davvero.
E' un finale da dio per un'antologia di racconti sicuramente insolita, specie in un panorama editoriale più morto che vivo (ma per chi vive a Thanatolia, questo è un bene....)

Bibliografia
La scure e i sepolcri: Ciclo: Crypt Marauders Chronicles (Amazon)
Gilbert Gallo, ti ho rubato l'espressione Axe & Sorcery: chiedo perdono!
In libreria: LA SCURE E I SEPOLCRI (2019) di Alessandro Forlani (Heroic Fantasy Italia)
Heroic Fantasy Italia. A cura di Alessandro Iascy e Giorgio Smojver (Delos Digital).

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