venerdì 20 dicembre 2019

Giorgio Smojver o come si scrive un fantasy classico. Quando Jack London incontra Tolkien


Un uomo e il suo anziano padre, in fuga da una terra devastata dalla guerra, giungono in una landa boscosa. Qui costruiscono una casa, si dedicano all'arte di cui sono maestri: la caccia. Il figlio prende in sposa una donna sola sopravvissuta di una famiglia di esuli, d'etnia cimbra.
Il Padre, la Madre e il Nonno: a cui presto s'aggiungono la bambina e il bambino.
Sono cacciatori, ma eruditi: leggono, scrivono, si tramandano le canzoni e i ricordi della loro gente.
Il Nonno, prima di morire, racconta alla bambina degli Elfi e del mare di Iperborea; il fratello del villaggio dove vendono le pellicce e di Ker Lyonis, la grande città di marmo bianco.
Visioni fantastiche, interrotte da quel sangue, da quella violenza da cui erano fuggiti.
Sono uomini-lupo, gli Ulfhednar: razziatori e assassini, più animali degli animali.
La bambina sopravvive a stento e, allevata dai lupi della Foresta Nera, diventa la guerriera Valawyne...

Helmor è un giovane, ma inquieto cacciatore cresciuto con il nonno.
Le lezioni di spada si alternano ai racconti del regno di Fynias, dominato dagli atlantidei, dove un tempo dimorava il padre.
Un'eredità, una leggenda a cui Helmor va alla ricerca, accodandosi a un gruppo di ragazzi e giovanotti in cerca di una via d'uscita da una breve e ripetitiva vita di caccia e agricoltura.
Ma il viaggio inizia male, prosegue peggio e finisce malissimo quando il gruppo, tradito dalla civiltà che tanto cercava, viene trasformato negli stessi Ulfhednar che avevano massacrato la famiglia di Valawyne. Tutti, tranne Helmor: qualcosa, nel giovane, si è ribellato...

Il suo destino si lega così alla giovane guerriera in un'Europa alto-medievale arcaica e brutale, dove l'eredità del vecchio mondo si mescola con le pulsioni e i flussi di uno nuovo, che avanza inesorabile...


Non potrei definire in altro modo il fantasy di Giorgio Smojver se non “classico”.
Il romanzo breve pubblicato per la Delos nella collana Heroic Fantasy Italia costruisce sulle basi di Tolkien una storia genuina che ha lo stesso feeling de Lo Hobbit, aggiornato però al ventunesimo secolo. E' una storia tradizionale, ma senza essere reazionaria; classica, ma senza essere pedante.
L'incipit stesso, con il suo respiro soffuso e lento, immerge il lettore dentro un'Europa familiare, eppure contemporaneamente straniante. Compaiono nomi riconoscibili, anticipi di un mondo che verrà; dal Reno, alla Germania, ai cimbri. Eppure il romanzo rimane testardamente fantasy, senza cedere alla tentazione di travestirsi in una narrazione medievale.
Leggere le prime righe de Lo Hobbit mi restituisce la sensazione di accoccolarmi in poltrona, con un gatto sulle gambe, un te caldo in mano e un fuoco scoppiettante nel camino. Tranquillità.
La sensazione – rara oggigiorno – di essere tornato a casa. Un ritorno a radici profonde che non gelano, a una narrazione più antica dell'antico.
Senza ovviamente avvicinare Smojver a Tolkien, il suo incipit, così come i suoi due brevi romanzi, catturano bene questa sensazione di venire coccolati da una storia antica e lontana. Che non risparmia sangue e particolari crudi, beninteso, come d'altronde non li risparmiavano i miti e le fiabe. Ma pur sempre una storia antica, lontana dall'arido cinismo del grimdark.

JRR Tolkien così descriveva, nell'esordio de Lo Hobbit, la casa di Bilbo:

In una caverna sotto terra viveva uno Hobbit. Non era una caverna brutta, sporca, umida, piena di resti di vermi e di trasudo fetido, e neanche una caverna arida, spoglia, sabbiosa, con dentro niente per sedersi o da mangiare: era una caverna hobbit, cioè comodissima.
Aveva una porta perfettamente rotonda come un oblò, dipinta di verde, con un lucido pomello d'ottone proprio nel mezzo. La porta si apriva su un ingresso a forma di tubo, come un tunnel: un tunnel molto confortevole, senza fumo, con pareti foderate di legno e pavimento di piastrelle ricoperto di tappeti, fornito di sedie lucidate, e di un gran numero di attaccapanni per cappelli e cappotti: lo Hobbit amava molto ricevere visite.

Il tono è fiabesco, familiare; quello di un genitore o di un amico che racconta una storia affascinante, ma senza inutili orpelli.
Si consideri, dall'altro, l'eguale descrizione di Smojver, specie quel “costruito solidamente” e così via. Ritroviamo nuovamente un lessico fiabesco e paterno, al servizio di una storia quasi orale nella sua narrazione:

La storia non iniziò in una città né in un castello, ma in un casolare nel fitto della Selva Nera; era costruito solidamente, assi di legno di quercia, tetto di terra battuta coperto di zolle erbose. C'era una stalla, un recinto di maiali e un orto. Non era molto, ma il Padre e la Madre ne erano orgogliosi, perché quando erano arrivati lì non c'era niente. Erano di stirpe cimbra e fuggivano dalla loro terra invasa dai nemici, a nord.

Come Tolkien presenta le proprie opere come manoscritti, libri pervenuti da un'altra epoca e pertanto narrazioni soggettive dell'autore, con tutti i difetti che ne comportano la stesura, allo stesso modo Smojver costruisce i due romanzi come racconti personali dei protagonisti.
La voce narrante non è imparziale, ma pur mantenendo una piacevole terza persona dietro Helmor o  Valawyne, chiaramente esprime il suo punto di vista, la sua visione atlantidea del mondo.

Il romanzo però non si esaurisce in una replica tolkieniana, ma dopo averne recuperato la lezione, non esita a scaraventare i suoi protagonisti nell'azione.
L'incipit stesso, dopo una partenza così dolce, sprofonda la protagonista nell'orrore. Tuttavia questa caduta non danneggia la carica fiabesca della storia, ma sembra piuttosto rientrarvi, esserne parte.
La fiaba, così come il mito, mantengono originariamente una forza primeva che non risparmia moti di orrore, di grottesco, di crudeltà. È il caso della matrigna di Biancaneve torturata a ballare con scarpe di ferro incandescenti; ed è il caso di un'orfana allevata dai branchi di lupi delle foreste selvagge. A sua volta il racconto della trasformazione dei compagni di viaggio di Helmor negli uomini-lupo recupera tutta la crudezza dell'incontro tra civiltà e barbarie, tra cultura dei boschi e urbana. L'inganno del mercante, la rozza vendetta del cacciatore.
Sono storie crudeli, ma a differenza di altre narrazioni fantasy, qui la crudeltà non sembra gratuita, ma connaturata all'ambientazione.



La bellezza della natura fornisce il perfetto scenario all'azione degli eroi: le descrizioni sono vivide di colori, ritratte con pennellate dense. Le dita d'antiche montagne sovrastano sterminate foreste nebbiose. La purezza di un'alba madida di rugiada, il soffiare dei venti sulle tombe dimenticate...
La natura guarda indifferente i suoi figli litigare e combattere, bestemmiare e crepare.
Smojver citava tra le sue massime ispirazioni Jack London con speciale riferimento ai suoi romanzi lupeschi, quale Zanna Bianca. E' interessante in tal senso come Jack London venga considerato letteratura per bambini; eppure le opere dell'autore, specie quelle ambientate nel selvaggio Yukon, sono in realtà crudelissime, tutt'altro che consolatorie. Smojver in tal senso è simile: i suoi due romanzi recuperano, specie il primo, le atmosfere di Tolkien e London, ma non abbandonano una crudeltà propria degli animali e della natura senza la quale la narrazione risulterebbe altrimenti troppo leziosa.

I lupi che uccidono, i lupi che salvano, i lupi che diventano uomini, le bambine che diventano lupe.
Il romanzo recupera il lupo quale figura centrale, delineando una contrapposizione tra due umanità, entrambe alla ricerca di un'impossibile fusione con la natura.
La guerriera Valawyne è stata salvata dai lupi; dapprima da uno morto, poi da un branco di “vivi”. Eppure, lontana da una fantasia disneyana, Valawyne non viene mai accettata dai “suoi” lupi.
E' una lone wolf suo malgrado, un'esiliata.
Gli Ulfhednar, al contrario, sono dei berserker senza cervello: uomini pompati di droga, armati di artigli di ferro, avvolti nelle pelli di quei lupi che pure tanto vorrebbero imitare.
Sono lupi artificiali, pallide imitazioni. Non a caso sono il prodotto delle streghe, gli equivalenti di uno scienziato nell'ambientazione fantasy “classica”.

– Da dove vengono? – Dalle brughiere a sud di Iperborea. Il Koningast Valpulis ha sottomesso i popoli di quella regione. Ha al suo servizio streghe malvagie e astute. Attirano i giovani, specialmente gli esuli, gli sbandati, gli orfani. Promettono loro la vendetta sui nemici, l'orgoglio di incutere paura, la libertà delle belve, a condizione che rigettino la propria umanità. Un Ulfhedinn non teme la morte, perché crede che lo riunirà al suo dio, il Lupo che alla fine dei giorni divorerà il Sole e la Luna e persino i Varni nell'Occidente.

Le caratteristiche degli Ulfhednar riproducono quanto l'uomo teme del lupo, il distorto riflesso delle paure che il lupo rappresenta, più che l'animale in sé.

Merita infine una menzione l'ultimo terzo del libro, dominato da una battaglia campale sanguinosa e brutale. Qui Smojver rivela una dedizione alla verosimiglianza ammirevole, descrivendo il movimento delle diverse truppe, la scelta delle armi, gli effetti e le conseguenze delle diverse tattiche. Nessuna scelta irrazionale: picche per fermare una carica, daghe per menare nella mischia, archi lunghi per tempestare di frecce il nemico.

La guerra degli atlantidei è iniziata come un nobile conflitto, è degenerata in una guerriglia sanguinosa, ora passa al suo prossimo stadio: usare la tecnologia più sporca che Finyas abbia a disposizione, pur di vincere. Coinvolto come un marines in Vietnam suo malgrado, in una guerra che non è la sua, Helmor diserta e fugge via mare, quale mozzo a bordo di una nave di Liberi Naviganti, spericolati contrabbandieri con un codice d'onore.

Valawyne ha smesso le pellicce e le armi di guerriera, lasciandosi convincere – riluttante, eppure! - a servire quale madrina in una famiglia di nobili di Ker Lyionis.
Il tintinnio di qualcosa che cade, l'attutito rumore dei passi: una notte Valawyne si sveglia e scorge una figura aggirarsi nel buio: è Shaylo Tar Lanth, una marionettista, maestra d'illusionismo e non ultimo, ladra di professione. L'incontro sembra trasformarsi in una zuffa, ma un comune nemico mette d'accordo Valawyne e la ladra, costretta però a fuggire dalla città.
Disperata, in cerca di una via di fuga, s'imbarca quale clandestina su una nave dove lavora un certo Helmor...

Se sono il lupo e la montagna le due immagini simbolo di “Artigli nei boschi”, il romanzo successivo presenta come tematica dominante la libertà nel suo senso più ampio e spregiudicato.
È un romanzo infatti piratesco, perché i suoi personaggi – i Liberi Naviganti – amano la libertà più di ogni altra cosa. Libertà di commerciare, di combattere, di professare fede &filosofia, ma soprattutto libertà di navigare senza padroni sui mari.
“Flutti Incantati” contiene poi tutti gli elementi associati al genere, popolarizzati dai Pirates of the Caribbean: dagli inseguimenti, agli arrembaggi, ai galeotti ai remi, financo allo scontro con il mostro marino.
Tuttavia vi ho trovato poco dell'atmosfera seicentesca con riferimento ai Caraibi e all'Africa; insomma allo scenario stereotipato dei pirati che assalgono i vascelli spagnoli.
Tutto il contrario, perché i toni ricordano piuttosto il Mediterraneo, con un tocco delle Mille e una Notte. L'impero ottomano, Lepanto, i pirati berberi, così come la pirateria nell'era antica, con popoli quali i micenei e i fenici.
I pirati dei caraibi, nonostante il romanticismo di Hollywood, mi hanno sempre ricordato un'anticipazione del capitalismo libertario, senza alcun freno di tradizione od onore. Quanto Valerio Evangelisti aveva provato (fallendo) a raccontare con “Tortuga”.
In questo caso, tuttavia, l'allegra combriccola piratesca sembra più una scheggia di quell'identico impero multietnico realizzato dagli atlantidei. Il forte cameratismo tra i marinai è lontano dalla brama di oro dei pirati classici. C'è un che' di medio orientale, così come d'italiano e greco in questi pirati. Questi sono contrabbandieri che combattono sulle coste dei Balcani, azzarderei, contro navi dense di schiavi, comandate da tiranni col turbante.



Rispetto ad “Artigli nei Boschi”, “Flutti Incantati” è decisamente più leggero, tanto nelle battute, quanto nelle situazioni. Predomina, accanto alla libertà, il piacere dell'esplorazione. L'invincibile fascino della scoperta del mare aperto, una prua puntata all'orizzonte. Le battute comiche sono tante, gli stessi protagonisti sono meno arcigni, meno distanti dal lettore.
Questo gusto per l'avventura tuttavia non controbilancia un romanzo mal costruito: passa troppo tempo prima che la nostra coppia di eroi sia finalmente sulle onde e ho trovato parimenti troppo lungo e strascicato il finale. Chiaramente siamo di fronte a un romanzo di passaggio che funziona quale raccordo tra “Artigli dei Boschi” e un immaginario terzo capitolo.
L'opera inoltre esibisce una scrittura molto più confidente nelle sue capacità, fluida e precisa.

Se “Artigli nei Boschi” esprimeva bene il conforto di un'opera dal sapore antico, in questo caso la bilancia pende troppo a favore dello zuccheroso indiscriminato.
Certo, d'accordo: questi non sono pirati, ma Liberi Naviganti, contrabbandieri, ecc ecc
Tuttavia Smojver li descrive troppo buontemponi, troppo simpatici. Sembrano più Babbi Natale che truci guerrieri. Quando Shaylo Tar Lanth viene scoperta quale clandestina a bordo non le succede praticamente nulla, anzi viene elogiata per il suo comportamento.
Questo dopo che si era imbarcata illegalmente, dopo che aveva mangiato e rubato alle spese dell'equipaggio, dopo che si scopre il suo essere donna (in una nave tradizionale), dopo che addirittura ha attaccato con pugnali, graffi e calci i Liberi Naviganti...
Non esiste che una ciurma medieval-fantasy reagisca abbracciandola e accogliendola come una figlia. Quanto meno avrebbe dovuto essere frustata, sottoposta a un sano giro di chiglia, condannata a pulire i ponti per il resto della sua vita... Insomma, dai!
Almeno un rimprovero, un litigio, una protesta da quegli stessi marinai che ha appena ferito.
Uno dei pirati, mutilato di un orecchio, addirittura reagisce rassicurando che non è niente di ché, anzi prende in simpatia la ladra. Mentre la strafottente Shaylo Tar Lanth continua a pigliarlo pel culo.

Mozzato un orecchio? Ho solo tagliato il lobo. Ci sentirà bene come prima, e l'orecchino lo può sempre usare come anello, no? E Yvarra ha un braccio che è tre volte il mio, la cicatrice si vedrà appena, sarà una decorazione in più. Gliel'ho pure tagliata a forma d'ali d'aquila.
– È vero capitano – confermò Yvarra che era effettivamente del clan dell'aquila
– La tingerò in rosso e nero, andrà benissimo coi miei tatuaggi. Sei brava con le lame, come ti chiami?
– Shaylokara Tar Lanth. Tu puoi chiamarmi Shaylo. 

Il nostro cupo Helmor continua una timida, ma troppo lenta evoluzione caratteriale, mentre Shaylo sorprende per la freschezza dei dialoghi e dei comportamenti. E' certo, come appena rimproverato, dannatamente impertinente, ma d'altronde è una ragazzina. Ho apprezzato in special modo, oltre alla storia del suo background, l'uso delle illusioni. Ha un che' di piacevolmente gitano.
Se Valawyne era troppo monotematica, troppo stereotipata nella sua azione di figlia dei lupi guidata dalla vendetta, Shaylo è un personaggio femminile sfaccettato, con un fascino guascone.
A questo proposito, “Flutti Incantati” non rinuncia al dramma e alla tragedia, ma sceglie di confinarli nel recinto del racconto biografico: le disavventure già citate di Shaylo e nel caso di Helmor l'episodio di guerra causano un equivalente fantasy della sindrome di stress post traumatico.

Merita infine un applauso lo scontro finale con il mostro marino, descritto con toni a tratti quasi horror, certo disgustosi. Una gradita deviazione verso quei territori mostruosi caratteristici dei migliori racconti Sword&Sorcery di Robert E. Howard.

Bibliografia
Artigli nei boschi di Giorgio Smojver (Amazon)
Flutti incantati di Giorgio Smojver (Amazon)
Heroic Fantasy Italia. A cura di Alessandro Iascy e Giorgio Smojver (Delos Digital).

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