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Vogel in the Penthouse, di boroszikszai (1995) |
Nuova
Zelanda, ottobre 1999.
Su un altipiano battuto dai venti, cinque
figure infreddolite avanzano avvolte nei mantelli.
La prima, un uomo
di mezz'età vestito di nero e con una spada alla cintura, conduce un
pony macilento.
Le altre quattro indossano panciotti e pantaloni di
campagna e strascicano indolenti giganteschi piedi pelosi, a uno
sguardo attento protesi di lattice.
Uno di
questi giovani uomini giocherella in tasca con un oggetto dalla forma
rotonda, con una scritta sovra incisa e verniciato d'oro: un anello.
Mentre
i cinque uomini camminano verso una collina poco distante, una
moltitudine tanto silenziosa quanto indaffarata si affanna alle loro
spalle. E' una folla di braccia e gambe irta di strumentazioni
tecnologiche: lunghi pali grigi, una rotaia in miniatura sulla quale
manovra un'astronave mediatica con un gigantesco cannone-cinepresa e
più cavi dei fili di una ragnatela.
Un
ometto grasso e ricciuto, con niente più che una t-shirt in quel
freddo polare, dirige questo concerto di attrezzature: le cineprese
scattano a girare, espellono videocassette, schioccano i sibili di
polaroid e macchine fotografiche. Quella scena surreale, quei quattro
uomini intenti a camminare, sono sotto l'assalto di un invisibile,
pachidermico behemot di silicio: un amalgama di nastri, di
cavi, di microprocessori che lavorano tutti assieme per trarre quanto
sarà la ripresa di un film.
L'ometto
grasso è infatti Peter Jackson, l'uomo di mezza età Viggo Mortensen
e infine i quattro giovani “hobbit” sono Eliijah Wood, Sean
Astin, Dominic Monaghan e Billy Boyd.
Il regista sta girando una
scena tra le tante, ancora incerto se verrà utilizzata o meno:
Grampasso conduce quattro giovani mezzuomini verso la collina di Amon
Hen, dove subiranno un attacco notturno dai nazgul.