martedì 1 maggio 2018

Il supremo inganno degli anni Ottanta


The Forest” (1982) viene definito tra i più brutti slasher degli anni '80, ma in realtà, se lo si considera come un film a bassissimo budget girato in meno di due settimane, si rivela sorprendentemente godibile: proprio il suo essere inattuale, proprio il suo essere documento storico di quell'anno, di quel periodo, lo rendono prezioso. 

In quanto storico, tanto materiale afferente al mio ambito, cioè il Risorgimento, è spazzatura: poesie, pamphlet, romanzi totalmente illeggibili sotto il profilo della trama, dell'approfondimento psicologico dei personaggi, della coerenza interna. Tralasciando come il giudizio su queste opere sia distorto da quanto siamo abituati a leggere e “sentire”, non ci interessa dare voti su una testimonianza storica, piuttosto dobbiamo cercare di trarne delle indicazioni sul periodo. In tal senso è assurdo scrivere recensioni di film e libri degli anni '70, o '60, o '50, con tanto di pagelline agli attori e alla regia: sono opere storiche, non ne vedo il senso. 

Cosa pensereste di una blogger di moda che recensisce un corsetto vittoriano? 
O di un esperto di tecnologia che recensisce un telegrafo? 
O di un fanatico delle automobili sportive che recensisce una carrozza rococò? 
Sono opere interessanti in quanto inattuali, that's all. 

In questo primo filone horror, dalla fine degli anni '70 alla prima metà degli anni '80, colpisce come la stragrande maggioranza degli attori siano principianti, al più comparse o attori di teatro. 
La natura di videocassetta, di film amatoriale capace di rifarsi del suo costo di produzione, spinge a utilizzare attori misconosciuti, facce anonime difficilmente hollywoodiane. 
La locomotiva che trainava l'intero horror del periodo era strettamente economica, ovviamente: erano film facili da girare e altrettanto facili da vendere. Il circuito delle VHS del periodo permetteva, almeno da quanto ho compreso dai documentari sulle videocassette come Adjust Your Tracking, facili incassi tanto ai registi quanto ai proprietari di questi negozietti in proprio, spesso gestiti da adolescenti o dai genitori come seconda attività. 
Una ragnatela di videorivendite garantiva una buona circolazione del prodotto, con la conseguente attenzione sulla copertina e il puro aspetto grafico della presentazione. 
La possibilità della visione in casa e la diffusione della stessa come attività sociale garantiva inoltre una continua richiesta dal basso, un bacino di ansiosi consumatori impensabile rispetto agli anni '70. La visione del film come attività sociale, ovvero come “qualcosa” da tenere sullo sfondo, come una cornice per rivedere un gruppo di amici o intrattenere la fidanzata, derivava dal drive-in degli anni '50, con il quale condivideva un'origine di genere, bassa, fracassona, horrorifica. Questo passaggio, dall'automobile alla VHS casalinga, è una mia illazione, ma la trovo convincente. 
Con questo, non si vuole denigrare il genere: erano film, tanto ai drive-in quanto con le VHS, capaci di intrattenere un pubblico normalmente restio alla visione di un film o alla lettura di un libro. 
In questo e nel voler costantemente alzare l'asticella dell'accettabile, con tutte le ire della censura, si dimostrarono coraggiosi tanto, se non più, di tante produzioni d'autore. In tal senso si sta finalmente riconoscendo il valore, al di là del fandom, di registi “spinti” come Herschell Gordon Lewis
Mi sembra ovvio come le caratteristiche normalmente associate almeno alla prima metà degli anni '80, con speciale riferimento ai film e agli horror del periodo, siano diretta conseguenza della struttura economica: le condizioni materiali delle VHS e la diffusione delle stesse come supporto avevano creato dal nulla un nuovo modo di girare. Un mondo non a caso scomparso rapidissimamente negli anni '90, quando le VHS vengono monopolizzate e lentamente sostituite dal dvd tramite una nuova struttura economica, con Blockbuster e le nuove multinazionali. 

Le caratteristiche pertanto associate agli anni '80 derivano dalle sue condizioni economiche e hanno poco a che fare con la cultura, lo spirito del decennio e altre spiegazioni piuttosto fumose, viste dallo specchietto retrovisore della propria nostalgia. 
Si trattava di forme diverse d'industria, ma pur sempre industria in ogni caso: la rivendita locale, attraverso un mercato dell'usato e “indie” mirante però a sommergere lo spettatore con quanti più titoli possibili e dall'altro un'industria organizzata e pianificata dall'alto, con negozi e centri multimediali tali da soppiantare gli “artigiani”, nel contempo proponendo una line up di film a cui era impossibile fare la concorrenza. E' possibile mantenere il senso dell'incredulità in un film horror o una commedia, ma sfido a voler competere con colossi come Armageddon, negli anni '90, con tutto il filone catastrofista, o con le attuali uscite della Marvel (2010-2020). Non si può competere, su nessun livello: si può solo diversificare l'offerta e cercare di toccare altri sottogeneri, altre nicchie. 
La balena corporativa aveva inoltre al suo fianco lo squalo della grande distribuzione, capace di mangiare in un sol boccone il piccolo pesce all'angolo della strada, l'umile negoziante di bottega. Monopoli, oligarchie, nuove egemonie: sono questi i movimenti sotterranei, di carattere economico, responsabili in seguito di un terremoto culturale quale può essere una nuova saga, una nuova trilogia, un film “inaspettato”. 

The Slayer (1982)
Tornando agli anni di passaggio tra il '70 e l'80, la nascente industria cinematografica aveva all'epoca bisogno di vendere prodotti, ovvero film, per rispondere a un boom del mercato: si tratta di girare e vendere film con il ritmo di una catena di montaggio, dove non ci si può certo permettere l'operaio specializzato, ovvero la star, il beniamino delle masse, quanto piuttosto i comprimari, i crumiri, le comparse raccattate per strada. 
C'era un disperato bisogno di attori per un disperato numero di registi amatoriali o riciclati al nuovo mercato delle VHS: si pensi soltanto alla Cannon Films Inc. e al loro incredibile numero di pellicole. 
Tutto ciò si traduce, specialmente nel cinema di genere, in una sovrabbondanza di sconosciuti, di facce nuove, emerse senza il filtraggio dei provini e della scrematura hollywoodiana. 
Ugualmente, via gli scenari di cartapesta, i set artificiali, i castelli gotici e tutto il ciarpame precedente: largo spazio agli ambienti naturali, incontaminati, siano fabbriche abbandonate o campeggi in riva al lago. Si continua ancora a dibattere sulla presunta svolta dal gotico classico all'horror urbano di King&soci, senza comprendere come sia stato causato da necessità produttive, esemplificate dal semplice fatto che costava molto meno girare in questo modo che dover allestire fantasmagorie di candelieri, armature e arazzi medievali. 
Un'involontaria conseguenza di un modello produttivo: gente a caso, dentro ambientazioni altrettanto casuali. Chiaramente si tratta spesso di recitazioni over the top, terribili, poverissime. Eppure... eppure difficile non constatare una naturalezza, una diversità di espressioni e forme facciali assolutamente unica nel periodo. Sotto un mascara di linee di dialogo trash, plot inesistente, pessima recitazione, gli attori dell'epoca rimanevano persone di ogni giorno: dal ragazzo ripescato dall'università, al nonno dell'(aspirante) regista, ad anticaglie attoriali di altre epoche. 
Un insieme di coincidenze difficili da credere riunisce così, tutti assieme, gente che non dovrebbe recitare, eppure recita. Stavo guardando un film horror di questo genere, “Night School” (1981) e proprio nei primi minuti, nelle prime scene, mi sono sorpreso a pensare quanto fosse inconsueta la faccia di una delle protagoniste. Non un volto sfregiato o particolarmente strano, ma quel genere di “faccia” che non apparirebbe mai in televisione o al cinema, perchè non risponde ai canoni di bellezza kitch solitamente proposti.  Recitava in maniera goffa, ovviamente, ma si vedeva che ci provava. Non un robot cresciuto in accademia di recitazione, un figlio d'arte, un genietto: solo una persona normale, in una vita normale, che prova a recitare. Incantevole. 
Sono stato sorpreso da una simile realizzazione guardando un altro film nell'identico filone, “Just Before Dawn” (1981): il gruppo di protagonisti chiacchierano, scherzano, mangiano insieme, ma nonostante la stupidità dei dialoghi trapela una genuina emozione. Recitare è fingere, ma oggigiorno nel cinema di massa si è raggiunto un tale livello di manierismo, di perfezione esasperata, che l'emozione è scomparsa. Le nuove leve sono esemplificative di tutto ciò, robot perfetti e monolitici. Si confronti l'amatorialità sincera di queste produzioni con un film d'azione come “Red Sparrow” (2018): Jennifer Lawrence, a prescindere dal ruolo, non trasmette nulla. E' una parete, un muro emozionale. Sì, il ruolo glielo richiede e sì, oggettivamente non c'è nulla da criticare. Migliore recitazione, sia chiaro. Ma l'emozione manca, manca terribilmente. Non c'è nulla, qui. Niente passione, niente naturalezza, niente emozioni. Un mestiere impalpabile come quello dell'attore svolto con il massimo del tecnicismo, nemmeno esistesse una laurea nell'ingegneria delle emozioni. 
La zona perturbante (uncanny valley) si verifica quando un robot troppo simile a un essere umano o in alternativa un'immagine digitale troppo simile all'uomo, genera un effetto di profonda inquietudine. In parole povere, l'estremo realismo del robot ci risulta disturbante, viene inconsciamente riconosciuto dal cervello come sbagliato. 
Sono convinto esista un'uncanny valley delle emozioni negli attori, dove lo spettatore riconosce una performance come “finta” a ogni livello. Pertanto un attore convinto della sua parte, alla Stanislavskij, suona maggiormente convincente di un attore migliore, ma disinteressato emozionalmente. In questo genere di film degli anni '80 il cervello riconosce, nel marasma di difetti, una naturalezza, una sincerità di base. Questa sincerità naif filtra inevitabilmente anche nelle grandi produzioni del periodo, perdendosi poi nelle stronzate fracassone degli anni '90. 
L'ondata di slasher dei primi anni '80 mi sembra emblematica di quest'atteggiamento, quando ancora elementi della moda e della durezza degli anni '70 permangono nel tessuto filmico, generando con il basso budget film estremamente ruvidi e brutali. Nel migliore dei casi, come in “Just Before Dawn”, il regista ha qualche (raro) colpo di genio e trasforma, come nel magnifico finale, un filmetto horror in qualcos'altro, non dico capolavoro, ma qualcosa d'interessante e fuori dagli schemi classici. All'interno degli slasher a basso costo, il sottogenere incentrato nella natura selvaggia sembra funzionare particolarmente bene, specie quando il gruppo di studenti/hippie/laureandi deve andare in campeggio, nella foresta, in montagna, ecc ecc. 

Beyond the Gates (2016)
I film da videocassetta degli anni '80 derivano il proprio fascino dunque dall'essere involontariamente neorealisti – senza però la pesantezza di quel genere di cinema. E' un neorealismo affogato nel sangue di un horror, produzioni con un motore pulp, di puro intrattenimento, che tuttavia adopera scenari e persone più che “reali”. Un genere e uno stile pertanto collocabili negli anni '80 grazie a un sottostante fondamento economico e tecnologico, ovvero il successo delle VHS e il boom di un mercato “indie”. 
Se dunque si considerano questi due assunti, il “realismo” degli attori e le fondamenta economiche, risulterà chiaro perché tutto il revival degli anni '80 sia destinato a fallire. 
Questo decennio 2010-2020 è ammalato di retronostalgismo, di rimpianto per gli anni '80, il decennio meraviglioso: eppure non si comprende come non siano gli elementi superficiali a generare la nostalgia, ma il cuore di autenticità alla base. 
In altre parole la nostalgia verso gli anni '80 si è concentrata negli oggetti, nella moda, nello stile, ingannandosi sul contenuto reale di questo sentimento. 
Chi afferma di amare gli anni '80, in realtà ama il cuore di autenticità, di naturalezza alla base dei suoi lavori migliori. E' una confusione tra forma e sostanza, tra contenitore e contenuto
Se davvero si amassero gli anni '80, bisognerebbe allora amare le produzioni a basso budget con la telecamera a mano, i corti e i progetti fan made, i film girati dagli appassionati e dagli aspiranti registi con due spicci e tanto coraggio. Se dobbiamo cercare un successore alla videocassetta come mezzo di produzione dal basso, chiaramente dobbiamo rivolgerci agli horror found footage, ad esempio. O alle produzioni finanziate via crowdfunding. Ammetto, sono il primo a essere scettico verso questo genere di produzioni. I film con telecamera a mano mi causano violente ulcere. 
E tuttavia... se davvero si amano gli anni '80, è chiaro come oggetto di quest'amore non possano essere elementi superficiali, stilistici: quel tipo di auto, quel tipo di capigliatura, quella moda... impossibile sviluppare un legame così forte e così nostalgico con qualcosa di talmente stupido e terreno. I ricordi, certo, possono spiegare il fenomeno: tuttavia, perchè allora così tanti millenials, gente della mia generazione, adolescenti compresi, affermano di rimpiangere quegli anni? 
Il bisogno di darsi un'identità, un contegno, può spiegare quest'atteggiamento, ma al fondo si riconosce un nocciolo di autenticità

La nostalgia verso gli anni '80 è pertanto un inganno nato da uno sfortunato malinteso, dove si è scambiato la qualità di un oggetto con la “cosa” stessa. Non era l'oggetto, il film degli anni '80, la causa della nostalgia, ma le qualità associate ad esso. Il suo essere “vero”. 
Se vogliamo fare un paragone: un uomo incontra la donna della sua vita. 
Il suo amore incondizionato indossa una giacca in pelle, che associa alla sensazione positiva dell'incontro. L'uomo diventa in seguito orfano di questo primo, indimenticabile amore. Lei lo lascia, muore, si separano, ecc ecc L'uomo allora continua nelle sue disavventure sentimentali, ma invece di riconoscere nel suo primo amore quelle caratteristiche psicologiche che l'avevano avvinto, egli associa la donna alla giacca in pelle. Di conseguenza, dovunque egli sia, a una festa, a un ballo, a un incontro di lavoro, deve sempre provarci con ogni donna che indossa una giacca in pelle. L'uomo ha ormai sostituito quanto era solo un simbolo con un oggetto: la giacca in pelle è il suo amore. Scambiando così oggetto con soggetto, feticismo con amore. L'uomo sono infatti i nostalgici degli anni '80, la donna i film che rimpiangono, i remake le donne con la giacca in pelle. 
In sostanza la nostalgia verso gli anni '80 è questo e non altro. 

8 commenti:

Paolo Nardi ha detto...

Concordo al 100% sulla nostalgia concentrata negli oggetti, nella moda e nello stile, cosa derivata dal ripiegamento totale sull’estetica da parte della nostra società. Non riusciamo più a produrre niente che si discosti dalla vulgata tossica dei social e della tecnologia: un film come Ready Player One, che paradossalmente vorrebbe citare gli anni Ottanta come base del nostro immaginario contemporaneo (tanto che nel 2045 quasi non esiste una cultura pop creata nei decenni successivi, fatta eccezione per dei videogiochi che evidentemente a Spielberg non piacciono troppo), ha dei vistosi limiti e non riesce assolutamente a dire nulla sul rapporto dialettico fra virtuale e reale, che è anche un po’ il problema di Blade Runner 2049, altro film visivamente mostruoso ma poverissimo dal punto di vista dei contenuti. Oggi guardare il primo Blade Runner riesce ancora a dirti qualcosa, vedere il suo epigono contemporaneo provoca solo una sensazione di vuoto.
La mania per gli Ottanta è un fenomeno interessantissimo che segue il disprezzo che c’era fino a una decina di anni fa da parte di una certa critica (Ritorno al futuro era considerato fascista dal Mereghetti, Indiana Jones era disprezzato come volgare da Natalia Aspesi). Personalmente penso che i film girati in quel periodo fossero ottimi prodotti, magari spensierati e ingenui ma comunque permeati di sicurezza: siamo tutti attirati dai film degli anni Ottanta ma allo stesso tempo li criticheremmo subito se fossero girate oggi. Oggi siamo schiavi del politicamente corretto, della critica sociale, delle menate di una società che non è capace di dire nulla: negli anni Ottanta i cattivi erano i russi e i tedeschi della DDR parlavano con la voce metallica. Anche Red Sparrow, che si rifà a quelle atmosfere e che tratta i russi come cattivi di quella volta, è fermo all’immaginario brezneviano e risulta ridicolo nel buttarci dentro le tematiche #MeToo con la protagonista cazzuta che mena gli uomini che la vogliono molestare e violentare.

Coscienza ha detto...


Bel commento, mi trovi d'accordo praticamente su tutto.

La questione dell'estetica è delicata, nel senso che sono tra coloro che ritiene secondaria la “storia” nel cinema. L'immagine in movimento è per me il “cuore” dell'incanto filmico, proprio per questo più il dialogo affiora in un film, più questo ne risulta debilitato. In tal senso Blade Runner 2049 rimane per me un'esperienza fenomenale – ogni componente appare al suo posto, in un grandioso affresco art déco – probabilmente sarei stato contento anche solo di avere un film dove il protagonista gira a caso nella sua auto volante senza una meta precisa e sarei rimasto egualmente soddisfatto. Allo stesso modo rimango – ahimè – tra i fanboy di quel pazzo di Refn.

Il cuore però di Blade Runner 2049 mi sembrava più umano della dialettica virtuale – reale; sono giunto a considerarlo più una narrazione sulla famiglia, con il “carico” di aspettative del protagonista, il quale sceglie alla fin fine di fare la cosa giusta, nonostante non sia “lui” il reale protagonista, il reale prescelto. Un sacrificio ultimo, romantico come la storia d'amore con Jo. Motivo per il quale fa storcere il naso a una certa critica e un certo tipo di pubblico “cinico”, allo stesso modo hater della Forma dell'Acqua di Del Toro.

Devo ancora vedere “Ready Player One”, anche se dalle recensioni Spielberg mi sembra piuttosto critico verso gli anni Ottanta citati nel film e i correlati adattamenti videoludici. Il romanzo originale era divertente, ma vuoto: un carrozzone citazionista, una sorta di self made man in versione nerd. I diversi protagonisti vivono in povertà nelle “cataste”, ma non c'è ragione perchè non si ribellino e creino gruppi e organizzazioni di protesta e rivolta. Come in molta nostalgia anni '80, la politica come cambiamento del reale scompare totalmente, siamo ai livelli di un Fukuyama sotto steroidi.

“Red Sparrow” è un film involontariamente pulp, è talmente esagerato e stereotipato che sembra di vedere un cinecomics, il tentativo di buttarci dentro temi “pesanti” come #MeToo ottiene l'effetto opposto, con lo sguardo lubrico nello stile dei romanzetti d'edicola, costruiti apposta per titillare lo spettatore. Persino film come "Red Dawn" e "Rocky IV" erano più rispettosi del popolo russo ed è tutto dire!

Fleur ha detto...

Bel commento come al solito! Mi ha fato subito pensare ad un confronto tra Evil Dead, l'originale e la serie recente. A parte il personaggio di Ash, preferisco l'originale, soprattutto il secondo.

Coscienza ha detto...


Benvenuta sul blog!

E' vero, la serie tv è (era, oramai?) un veicolo per mostrare Ash in azione, niente di più. Io l'ho trovata simpatica, anche se leggerissimamente ripetitiva...

Twinkle ha detto...

Riguardo agli ultimi paragrafi, è interessante notare come a loro volta gli anni ottanta fossero in buona parte nostalgici, nei confronti del decennio nostalgico per eccellenza per gli americani, ossia i '50. Stand Bye Me, la prima parte di It, il poco precedente American Graffiti, il ritorno ad un certo tipo di romanzo di avventura (Indiana Jones, Goonies) e all'epica (Star Wars), a scapito della fantascienza, che si rifugerà nel cyberpunk, senza più il mito del futuristico 2000 ormai prossimo. E già allora, già con Happy Days, si diceva quanto fossero edulcorati e mistificati nel rappresentare il passato, e che guardavano solo all'estetica. I '50 per gli americani adulti e certi cineasti bambinoni erano belli, prima del Vietnam, prima dell'assassinio di Kennedy, prima dei moti razziali di Detroit e Newark, cose brutte da cancellare per l'estabilishment reaganiano, ricordatevi quando si viveva in case enormi con il domestico nero, si scopava senza sapere cosa fosse l'aids, si ballava e si cantava, e i russi erano i cattivi.
Zemeckins colse bene questa fasulla ciclicità, facendo catapultare l'ottantino McFly nel 1955, il quale si trova perfettamente a suo agio, proprio perché dannatamente simile alla sua di epoca. Se fosse finito nel '68, nonostante la maggior vicinanza al suo 1985, si potrebbe dire lo stesso, nel mezzo dei moti studenteschi? Ovviamente no, avrebbe forse percepito un ambiente estraneo, quasi al pari del presente distopico alternativo di Parte II.
Se c'è qualcosa di diverso oggi nel guardare il passato rispetto a ieri, è internet, che tutto ha cambiato, che tutto amplifica e unisce ma al contempo isola l'indivisuo, il paragone aggregativo tra VHS e Drive In lo leggo per la prima volta e lo trovo a suo modo calzante, tra l'altro avere i propri film preferiti sempre a disposizione era per l'epoca una novità incredibile, li riguardavi e riguardavi cento volte, specie da giovanissimi quando le disponibilità economiche sono quelle che sono, finché non li imparavi a memoria, accrescendone l'affezione, da cui la mitizzazione trent'anni dopo, e un discorso simile lo si potrebbe fare per i videogiochi. Oggi con Netflix, Steam e simili si ha a disposizione il tutto. Quante volte si guarda, oggi, lo stesso film? Dopo la prima visione, massimo due, lo si ritiene una perdita di tempo e si passa al successivo, altrimenti rischiamo di perderci il "tutto", e questo in futuro rischia di creare un vuoto dell'effetto nostalgia di questi anni. Forse il futuro di Ready Player One, plasmato da un nerd che conosce a memoria le battute di Wargames, non è poi così assurdo.

Coscienza ha detto...

@Twinkle

Benvenuto sul blog!

Compimenti per il commento, come nel caso di Paolo Nardi sono riflessioni di questo calibro che arricchiscono un blog e danno senso a un'attività altrimenti disperatamente solitaria.

Gli anni '80 citano e rielaborano il secondo dopoguerra americano, anche nella misura in cui molti registi e scrittori erano cresciuti in quegli anni o come nel caso di Stephen King e Lucas, ne avevano assorbito l'entroterra culturale di fumetti, libri e film.

Tuttavia, nonostante un certo gusto citazionista, negli anni '80 si sfrutta questa piattaforma per girare e scrivere qualcosa di nuovo, anche se con esiti alterni. Al contrario, nell'attuale revival degli anni '80, ci si limita a riciclare e rielaborare materiali a loro volta già citazionisti di un altro decennio. Si tratta di centrifugare idee e storie già derivative dagli anni '50. E' un riuso estremo, di materiali consunti in partenza. Avevo provato a trattare l'argomento nell'articolo “Gli scrittori nerd devono sparire”. Il gusto della citazione divora qualsiasi originalità nel testo.

Sono d'accordo anche sulla mistificazione adottata – inconsciamente o meno - in quegli anni, non a caso coincidente con la presidenza di Reagan: infatti preferisco quando un regista del periodo fa satira sul passato “ideale” del 1950, ad esempio con “Parents” (1989), “Invaders from Mars” (1986), “The Blob” (1988) passando alla satira anti-capitalista con “The Stuff” (1985), “Society” (1989), “They Live” (1988), ecc ecc

Il paragone con “Ritorno al Futuro” è calzante, non ci avevo mai riflettuto. Effettivamente McFly incontra come maggiore ostacolo i diversi “vestiti”, ma non c'è nessun shock culturale... mi chiedo se si possa fare un paragone con Parte III, dove il Selvaggio West rappresenterebbe l'economia senza controllo e avventurista propria degli Stati Uniti nel 1980 (Sto esagerando con le allegorie? Decisamente! :-D).

La VHS permette anche di fermare l'immagine e rivedere la stessa scena più volte, permettendo agli aspiranti registi o agli appassionati cinefili di “studiare” il film. Oggigiorno l'ansia di non perdere l'ultima uscita sta impedendo una visione “a fondo” del film, con le conseguenze di un giudizio affrettato; infatti sono d'accordo col Frusciante quando mette le mani avanti e afferma che per giudicare “capolavoro” quel film occorre passino almeno cinque, dieci anni, indifferente quanto straordinario e “attuale” possa sembrare.

LorenzoD ha detto...

Avevo fatto delle ricerche a suo tempo sul tempo che intercorre tra un film e il suo remake. Avevo usato dei dati presi da Wikipedia e avevo scoperto che la maggior parte dei remake sono fatti dopo 25-30 anni dall’originale.
Non sono il solo ad essermi accorto della cosa, e c’è chi ha suggerito che ci sia un ciclo di 30 anni riguardo le mode e la nostalgia del passato.
E così ora abbiamo nostalgia degli anni ‘80, e negli anni ‘80 avevano nostalgia degli anni ‘50…

Hai indicato dei buonissimi motivi per l’attuale nostalgia degli anni ’80, ma mi viene sempre il dubbio.
Ora ritorniamo a quel decennio perché effettivamente aveva degli elementi che anche a distanza di anni ci attirano, oppure perché è il suo turno nell’eterno pendolo della nostalgia?

Se il Ciclo dei 30 anni è vero, vuol dire che presto saranno di moda gli anni ’90 - e non ho dubbio che qualcuno potrebbe razionalizzare la cosa parlando di come fosse l’ultimo decennio felice prima dell’11 Settembre – o prima della diffusione di internet. O con altre ottime motivazioni, come hai fatto te per gli anni ’80.

E poi, negli anni ’90 c’era mica questa nostalgia degli anni ’60?

Coscienza ha detto...


@Lorenzo Davia

Hai sollevato alcuni validi punti, anche se non sono troppo convinto dall'idea di un ciclo di tot anni, a cui corrisponderebbe uno specifico revival. Mi sembra più un processo avviatosi dagli anni '80, al più collocabile nel secondo dopoguerra.

Bisognerebbe considerare come ogni generazione sia diversa e si rapporti in maniera differente al passato, senza contare come Internet in tal senso pur accelerando lo slancio verso il futuro, nel contempo spesso alimenta una certa nostalgia, specie nelle sub culture (non più tali dagli anni '90, da quando è diventato impossibile essere davvero "sconosciuti" alla massa).

Mi chiedo anche quanto questo retro nostalgismo venga alimentato dal tribalismo ormai rampante, dove la difesa di quel revival, di quegli anni, è solo una mossa identitaria.

Un altro fattore è quanto gli "influencer", i "big" dello spettacolo e dei mass media influenzino questi processi, spingendo per quella nostalgia, quel ritorno specifico al passato. In tal senso, sotto un aspetto cinico di sfruttamento di brand e marketing, ci stiamo senza dubbio muovendo verso un revival degli anni '90, in tutto il suo squallore.
E dopo? Cosa dire degli anni '2000-2010? Dovrebbero essere i "miei" di anni, ma stento a vederci un'identità precisa, anzi...

Io continuo ad aspettare speranzoso un revival degli anni '70...