La mia prima
visione di Blade Runner 2049, a pochi giorni dall'uscita nelle sale,
fu un'esperienza estetica ai limiti del doloroso.
Non sono uno
storico dell'arte, non è il mio campo, ma ho avuto modo in passato
di restare ore a soffermarmi sui dettagli di un quadro.
La visione di
Blade Runner 2049 rientra per me in questo genere d'esperienze.
Se il
film è in primo luogo una catena d'immagini e compito del regista è
organizzare queste immagini per darne un senso tanto artistico quanto
narrativo, Blade Runner 2049, come Mad Max: Fury Road, sono entrambe
opere di cinema nel senso più classico del termine.
Il dialogo è
spezzato, pieno di intermissioni; la storia sfilacciata, quasi
inesistente; è cinema che si rivolge all'occhio e all'occhio
soltanto.
Come nell'esperienza visiva del quadro, siamo di fronte a
qualcosa che c'è e nel contempo non c'è: sappiamo che quanto stiamo
guardando è un montaggio di scene girate con una cinepresa, recitata
da persone che si fingono chiamate “attori”; nel contempo
crediamo ai nostri occhi, siamo dentro a un mondo alternativo, che
siano gli acquerelli di un quadro che diventano la Parigi del 1890 o
le scene di una ripresa che diventano un'alternativa Los Angeles del
2049.
A mio
giudizio, a mesi di distanza, Blade Runner 2049 resta un'esperienza
estetica. E' un'opinione e come tale discutibile, ma è chiaro come
il regista abbia escogitato ogni mezzo, ogni risorsa, ogni attenzione
per ricavare il massimo godimento estetico.
Quanto mi
fanno pena le miriadi di recensioni dei professionisti del settore,
dove si avverte sempre questo auto compiacimento, questa
soddisfazione trattenuta, questo sorrisetto di circostanza di chi si
è divertito, ha colto la citazione e ha gustato una “bella
storia”.
Al diavolo!
Io non voglio vedere un film dove esco dalla sala soddisfatto.
Voglio
uscire barcollante, distrutto, traumatizzato nel profondo.
Agogno i
film dove la visione non è solo un piacevole “passare il tempo”,
ma dove lo spettatore sia in orgasmo di minuto in minuto,
d'inquadratura in inquadratura.
Non è
stancante questo atteggiamento sempre compiaciuto e puntiglioso,
attento a non cedere mai all'elogio o all'entusiasmo?
Questa pena
profonda che avverto ogni volta che leggo l'ennesimo riassunto
stitico, dove il recensore fa il suo bel compitino: elenco degli
attori, trama copia-incolla, considerazioni con il naso tirato
all'insù.
Viene il
dubbio: piace davvero quello che fanno?
Amano
davvero il medium che hanno scelto come sbocco professionale?
Posti di
fronte alla cecità visiva di chi scrive che Blade Runner “non gli
ha comunicato nulla”, con i due soliti appunti sui buchi di
sceneggiatura, sugli effetti speciali, su Jared Leto “attore cane”.
Questo
scrivere con la fronte perpetuamente aggrottata, sempre alla ricerca
del nuovo film da distruggere per fare gli alternativi, con le
rivalutazioni della merda più infame, da Fast and Furious a
Transformers. E questa sensazione piccola piccola, dove si apprezzano
le piccole cose, i piccoli film, le piccole commedie, dove si scrive
un piccolo libro, un piccolo articolo...
Com'on!
Non mi aspettavo nulla di piccolo, da Blade Runner 2049. Mi aspettavo
qualcosa di grande. E ho ottenuto qualcosa di gigantesco, di
colossale. Massivo. Gargantuesco.
Come il sublime delle Alpi deriva
dalla sensazione di schiacciamento e incomprensibile meraviglia che
si prova a vederle, senza riuscire a vederle davvero, o il concetto
di infinito viene afferrato senza riuscire mai a comprenderlo
davvero, così è con Blade Runner 2049.
E' un film
sublime nel senso kantiano del termine.
Criticare è
lecito, quando ci si limita a criticare aspetti propri di una cultura
e come tali suscettibili di miglioramento. E' lecito criticare una
religione, perchè l'individuo è libero di lasciarla, di cambiarla
dall'interno, di azzardare una difesa delle proprie convinzioni. Non
è possibile criticare una persona sulla base del colore della pelle,
per il semplice motivo che non è un elemento che possiamo
modificare. Se applichi un'inerente malvagità all'essere bianco,
come fanno i liberal, o all'essere nero, come fanno
i conservatori, poni la data persona in un dilemma
insolubile, perchè non può rispondere a una critica del genere.
Allo stesso modo sarebbe estremamente crudele criticare un
diversamente abile, perchè diversamente abile, uno zoppo perchè non
è in grado di correre, un non vedente perchè non sa descrivere i
colori ecc ecc.
Ugualmente,
non si può criticare Blade Runner perchè “gli spettatori erano
tutti maschi”.
Se questo è ciò che dicono le statistiche, va
bene: Blade Runner ha un pubblico maschile. Ma qual'è il senso di
questa critica? In che modo, io, spettatore maschile posso reagire a
una critica simile?
Sarebbe
egualmente vile lamentarsi che tutti i film romantici hanno un
pubblico esclusivamente femminile. Come può reagire una donna
accusata di guardare “cose da donne”? E che assurdità è?
Al di là
che non esistono film per donne e film per uomini, far sentire una
persona in colpa solo sulla base della sua identità è crudele.
Una critica
a Blade Runner è giunta proprio da questo primo punto, disegnando
l'immagine di un pubblico di maschi – che non so perchè
caratterizzare come maschi e bianchi, considerando che si tratta di
elementi per l'appunto immodificabili – che andavano a guardare un
film “da maschi” che forniva un'immagine negativa della donna.
Qual'è il
senso di accusare una persona di andare a vedere un film “perchè
donna”?
O in questo caso, “perchè uomo”? Mi sembra un punto
facile se si vuole un titolo sensazionalista, ma guardato da vicino
non ha molto senso. Il mondo si muove per un complicato intreccio di
cause economiche e sociali, bene al di là di queste ingenuità
riduzioniste.
Il secondo
punto della critica a Blade Runner, strettamente collegato al primo,
è l'accusa di ritrarre una carrellata di personaggi femminili
fortemente negativi, ridotti a rango di servi o folli assassine.
L'argomento
in questione purtroppo soffre d'una gravissima mancanza d'analisi e
nello specifico, un'incapacità di ragionare per metafore.
Ho
riscontrato un'eguale critica su Polygon a Witcher 3: Wild Hunt, dove si
accusava il gioco di non avere personaggi etnicamente diversi,
specialmente neri.
E' una prova di quanto sia basso il livello del
giornalismo videoludico: da un lato, incapace di attrarre i
giocatori, dall'altro che manca di ogni capacità minima – minima!
– d'analisi.
La metafora
è una banale figura retorica, dove si sottintende una similitudine,
eliminando il come e con l'inserimento di un altro termine
dall'eguale significato.
Esempio: “il ruggire dei motori”. Si
sostituisce al rumore dei motori il ruggito, evitando di scrivere:
“il motore faceva rumore come un ruggito”.
In
quest'ambito, può anche aiutarci l'allegoria: ovvero esprimere un
concetto astratto con un'immagine concreta. In altre parole, usare un
simbolo. Particolare interessante, le allegorie sarebbero da evitare
nei fantasy – convinzione tanto mia quanto di Tolkien. Si prestano
infatti a soluzioni troppo semplicistiche.
In entrambi
i casi, come con Blade Runner 2049 così con Witcher 3, i recensori non
sanno cosa sia una metafora o un'allegoria. Neppure nel senso più
largo e traslato immaginabile.
Grave, ma
non sorprendente.
Nel caso di
The Witcher, gli elfi, i nani e le creature fantastiche
intelligenti sono allegorie delle minoranze oppresse. E' un paragone
reiterato così tante volte nei racconti di Sapkowski e nella
trilogia videoludica che mi sembra stupido doverlo scrivere. Come le
minoranze etniche della Polonia sono state oppresse nel corso della
storia e a sua volta la Polonia è stata oppressa come nazione, così
nel mondo dello Witcher gli elfi e i nani sono oppressi e
perseguitati. Come gli afroamericani delle periferie, sono
cacciati, etichettati e linciati in base alla propria appartenenza
etnica – ovvero in base a un fattore su cui non hanno controllo.
Ripeto: dal
punto di vista narrativo, non è una soluzione ideale.
L'allegoria
è qualcosa di debole e spicciolo, ma non di meno in Sapkowski
funziona egregiamente. Nel primo videogioco assistiamo a un pogrom
nel ghetto dove vivono gli elfi e i nani che non ha nulla a invidiare
a rivolte e linciaggi del mondo “reale”: nei panni di Geralt
assistiamo a folle con torce e forconi, a impiccagioni, a civili in
fuga. Fin troppo realistico. Il doppio paragone balza subito alla
mente: gli elfi e i nani come gli ebrei perseguitati, come la
resistenza polacca sotto il regime sovietico, come nella realtà
contemporanea le diverse minoranze perseguitate nel mondo.
E' una
convinzione talmente universale, talmente ovvia che non sento il
bisogno di un personaggio afro americano per farmi comprendere cosa
voglia dire il razzismo.
La Polonia è un paese che è passato
rispettivamente sotto una dittatura tedesca con i cavalieri
teutonici, napoleonica, zarista, nazista e infine sovietica. In tutti
i casi, tranne che sotto l'Austria-Ungheria, il dominatore ha mirato
a sradicare ogni traccia della cultura originaria polacca. Una
metodica estirpazione che in modo conscio o inconscio è sicuramente
presente in Sapkowski e così nella sua trilogia videoludica.
Potremmo
discutere poi fino a qual punto il dominatore a sua volta influenzi
il dominato, che ne assimila i metodi: sotto l'attuale governo polacco, i metodi sono quelli dei padroni dei secoli precedenti. Non
dovrebbe sorprendere: c'è una continuità purtroppo notevole tra il
governo coloniale britannico e il governo indiano “indipendente”:
identico uso del potere, identica oppressione cieca, identici mezzi.
Se non modifichi le strutture economiche di base, difficilmente cambi
qualcosa, non importa se chi sale in carica è di etnia, nazionalità,
genere diverso.
In ogni
caso, nel mondo di Sapkowski e nei primi due videogiochi dello
Witcher, la lotta al razzismo è un elemento cardine del gioco:
Geralt è continuamente messo a confronto con storie e scelte morali
dove l'umano è peggiore del mostro. A sua volta la fazione oppressa
replica con atti di terrorismo, con una guerra sporca che ha
inevitabili rimandi al contemporaneo: ancora una volta si tratta di
allegorie e metafore, autoevidenti.
Non ho
giocato il terzo Witcher – il mio laptop potrebbe esplodere
sotto tutta quella grafica – ma dai video e da quanto ho letto in
Rete il tema rimane lo stesso.
Nel caso di
Blade Runner 2049, la metafora è ancora più evidente, ai limiti del
lapalissiano.
Il
replicante in fondo è una macchina e dunque un oggetto di consumo,
venduto da un capitalismo post apocalittico. La Terra è abbandonata
a poche multinazionali, l'economia è desertificata, ridotta a
polizia e sussistenza. I replicanti si comportano come persone umane
e sono persone, ma per il capitalismo che li ha prodotti sono
macchine.
Schiavi, uomini e donne ridotti al rango di oggetto. E'
Wallace stesso a sottolinearlo nei pochi dialoghi del film. Un Jared
Leto piuttosto convincente, in barba ai critici.
In quest'ambito, la
condizione delle donne replicanti è una perfetta allegoria delle
condizioni della donna oppressa da un regime economico che la riduce
al rango di oggetto. Non è difficile comprenderlo, è il fulcro
della questione: schiavi che vogliono ribellarsi a un padrone che li
considera elettrodomestici, sullo stesso piano di un tostapane.
L'allegoria dei replicanti come schiavi non è originale nella
fantascienza o nel cyberpunk. Nel videogioco Deus Ex Mankind, la
condizione di chi si sostituisce parti del corpo con parti
artificiali, diventando un cyborg, viene paragonata all'odierno
razzismo, con tanto di sorveglianza della polizia, stereotipi
razziali, ghetti e persecuzioni.
I replicanti assolvono un ruolo
simile: sono allegorie della condizione del lavoratore contemporaneo,
ridotto a ingranaggio, nel caso della donna ridotto a corpo-oggetto
delle Multinazionali.
E' talmente banale, talmente ovvio.
Blade Runner
2049 presenta una donna (umana), ovvero Joshi, il capo di
dipartimento dell'LAPD.
E' una
metafora della donna neoliberale in posizione di potere, Hillary
Clinton docet.
Luv è una
replicante di Wallace: nella metafora schiavile di Blade Runner è
l'Uncle Tom, il nero che aiuta il padrone a rintracciare gli
schiavi fuggiti dalla piantagione. Farà di tutto per leccare la mano
di chi la opprime, perchè indottrinata dalla nascita. Nel caso in
questione, è un'allegoria letterale: il software del replicante Luv
è programmato all'obbedienza incondizionata. Si tratta anche di una
classica allegoria per la moglie/figlia dell'uomo di potere, di cui
difende ad nauseam le posizioni conservatrici, consapevole che la
differenza di status la preserverà dalle disparità che va
infliggendo alle altre donne. La moglie di Reagan, negli anni '80, ad
esempio.
Ryan
Gosling, nei panni di K, è un uomo che dal nome stesso, appare
alienato dal mondo dove vive: serve il sistema, svolge un lavoro
odiato e odioso, è povero e depresso. Come la X di Malcom, K è uno
schiavo. Non è un replicante, ma rimane un uomo disperatamente solo:
senza amici, senza compagni, senza colleghi di lavoro, senza animali
(ricordiamo il collegamento con il rom. originario di Philip Dick).
In questo contesto l'unico contentino offerto dal suo lavoro è Joi,
un programma di accompagnamento in formato umano.
Qual'è la
differenza tra Joi e i replicanti? Non c'è, ovvio. La condizione di
schiavo dei replicanti è la stessa di Joi, con l'aggravante che nel
suo caso è puro software, senza la possibilità di un hardware
“fisico”. Ancora una volta si tratta di un'allegoria facilona:
Joi, intrappolata nel suo ruolo di “angelo del focolare” mima i
vestiti e i modi di fare di una casalinga anni '50. Joi non è
programmata da K, ma dall'azienda di Wallace allo scopo di soddisfare
i suoi clienti come una perfetta incarnazione della moglie ideale. La
riduzione a ologramma di Joi, con la possibilità dell'on e off di K
è un'ulteriore riduzione a oggetto.
Quello che
si può scrivere a difesa dei replicanti, vale ugualmente per Joi.
L'umanità delle macchine diventa tale a contatto con la disumanità
degli uomini – Joi in tal senso inizia come un software
particolarmente evoluto, ma si modifica gradualmente, man mano che K
matura a sua volta.
Nell'originario
Blade Runner Rick Deckard trattava i replicanti come delle macchine,
disumanizzandoli; gradualmente acquisiva coscienza di cosa sta
facendo, man mano che si rendeva conto dell'umanità a cui sta dando
spietatamente la caccia. Sia Rick che K si rendono conto di essere
sfruttati e nel contempo dello sfruttamento che vanno esercitando: il
loro rapporto con i replicanti li rende più umani – e nel contempo
i replicanti stessi, o nel caso Joi, diventano umani a contatto con
la disumanità dei “vivi”. Joi rimane un'illusione, ma
gradualmente si “stacca” dallo stereotipo acquistando un suo
carattere, una sua personalità.
Ancora una
volta, la metafora è tagliata con l'accetta: Joi è un ologramma
programmato sull'esempio di una casalinga anni '50, che entra in
azione nel momento in cui K torna a casa. Il suo luogo è il
focolare, nel senso letterale perchè vi risiede l'hardware di
funzionamento. K, rendendosi conto di avere di fronte a sé una
persona, non un oggetto, la libera dalla casa, ma nel contempo la
scelta di Joi di “uscire” dal ruolo di casalinga è completamente
sua: agli occhi della corporazione non dovrebbe, è oltre che
un'infrazione delle sue leggi di funzionamento, un pericolo per il
prodotto. K le fornisce le “gambe” per spostarsi al di fuori
della casa, ma la scelta di Joi di uscire è tutta sua, anzi K per
primo è riluttante.
Casalinghe,
anni '50, replicanti, oggettificazione derivante dalla struttura
economica capitalista e non dalle scelte culturali... è tutto così
ovvio, steso sulla griglia pronto per un'analisi.
E'
francamente incomprensibile come si sia potuto arrivare
all'interpretazione opposta, ovvero a lamentare una negativa
rappresentazione della donna in Blade Runner.
Azzardo qui
un'ipotesi.
A mio
parere, ciò che davvero irrita i detrattori di entrambi i Blade
Runner è il suo profondo romanticismo. Il nuovo Blade Runner è un
film estremamente romantico.
Alienato dal
suo impiego, K riversa tutto il suo affetto in Joi. Compie pertanto
un atto totalmente disinteressato, senza alcun ritorno: innamorarsi
di un ologramma in vendita, una creazione artificiale al più basso
dei più bassi livelli della società. Questo gli consente nel
contempo di elevare sé e Joi: entrambi i personaggi maturano una
personalità e si smarcano dall'esistenza artificiale che
conducevano.
E' questo un elemento che irrita: K si vota totalmente a
Joi, nega ogni possibile rapporto quotidiano. E' un equivalente degli
otaku con le proprio waifu: votato anima e corpo, pienamente conscio
della sua illusione, ma nel contempo mosso da un romanticismo
totalmente disinteressato.
Questo elemento disinteressato,
incomprensibile per la mentalità meccanicistica e pragmatica di
Wallace e Luv, costituisce oggigiorno un anatema, un'eresia. Lo
spettatore, nell'esigua minoranza, che mesi fa ha guardato Blade
Runner 2049 dev'essere conscio dell'essere un “replicante”: un
estraneo che ha scoperto la sua umanità, contrapposto a masse di
“umani” che si comportano come macchine, che misurano sul
bilancino dei social vantaggi e svantaggi, perdite e ricavi.
Un
replicante umano in un mondo di umani replicanti.
2 commenti:
Incredibile che nessuno abbia lasciato un commento a questo bellissimo post. Ma dopotutto, non c’è molto altro da aggiungere.
È stato interessante come hanno aggiunto nel mondo di Blade Runner questi ologrammi senzienti.
Dopotutto, è facile (o dovrebbe esserlo) riconoscere l’umanità di un replicante: è fatto di carne e ossa, come noi. Ed è sottoposto a vincoli, a ingranaggi che lo tengono fermo nella sua posizione. Come noi.
Oggi, poi, siamo capace di creare replicanti: cloniamo scimmie e pecore. E dopotutto, tutti i migranti che arrivano in Europa, non ci sembrano forse tutti uguali, replicanti?
Il replicante in carne e ossa perde mordente.
Ma un ologramma… non ha solidità. È veramente solo un programma, molto evoluto, senziente, capace di evolversi, ma pur sempre un programma. Eppure il protagonista ne se innamora. Ricambiato, nel limite della programmazione. Hai fatto il paragone dell’otaku per la sua waifu. Ma bene o male tutti su internet ci appassioniamo a un sacco di discussioni virtuali, news su internet, etc… alle quali diamo un’importanza fisica forse eccessiva.
Un replicante in carne e ossa non bastava più. È il virtuale la nuova frontiera sulla quale si combatte la definizione di umano. Matrix ce lo aveva insegnato una ventina di anni fa. Non per niente uno dei personaggi chiave, Ana Stelline, crea ricordi, non un prodotto solido.
È interessante il paragone con Star Trek. Nella serie Voyager uno dei protagonisti è un ologramma, che con gli anni acquisisce carattere e umanità. Forse anche troppo: a un certo punto decide di condurre una rivoluzione per liberare gli ologrammi senzienti dalle loro condizioni di schiavitù.
È una direzione interessante che potrebbe prendere la serie (se andranno avanti con la serie).
@LorenzoD
Hai sollevato alcuni punti decisamente validi all'articolo.
Il paragone con gli ologrammi di Star Trek mi sembra azzeccato, anche se non conosco a sufficienza il lore dell'universo per conoscere le diverse somiglianze. C'è anche chi ha ipotizzato che Joi sia semplicemente una macchina - un riflesso della personalità del protagonista, del quale rispecchia speranze e ambizioni. La pubblicità infatti presenta Joi proprio come il partner che ti asseconda in ogni tua mossa - ed è quanto Joi fa, nel bene e nel male. Non è un'interpretazione che mi convince molto, ma solleva alcuni punti interessanti.
Non credo ci sarà mai un seguito, il film ha fallito tanto al botteghino quanto agli oscar. A pity, ma d'altronde era stato anche il destino del primo capitolo, c'è una certa poetica giustizia.
Posta un commento