Sarebbe ingenuo pensare
che la storia proceda a cicli che si ripetono ogni tot
anni/decenni/secoli, o che al contrario sia una linea retta che
procede dal punto A al punto B, mirando a un indefinito
paradiso/progresso/ultima soluzione. In realtà, più si studia
storia, più ci si rende conto che l'umanità procede per balzi e
brusche frenate, ricordando la guida a singhiozzo di un nervoso
neopatentato.
Nel campo tecnologico, l'utilizzo di un nuovo
strumento, o lo sviluppo dello stesso, non sono necessariamente
razionali, ma obbediscono a quanto l'utente percepisce come
“l'esigenza” dello stesso, lo scopo per cui è stato creato.
Pertanto fino a cinque anni fa, ad esempio, si era convinti che le
diverse funzioni ora riassunte in uno smartphone fossero meglio
esplicitate da diversi, separati strumenti; rispettivamente per la
musica, i video, internet, ecc ecc. Un'idea intelligente e con le sue
buone ragioni – tutt'ora un lettore ebook è notevolmente più
comodo di uno smartphone – ma che dalla gran parte degli
usufruitori era percepito come “arretrato”: si desiderava avere
un cellulare multiuso, che parodiasse i gadget avveniristici degli
ultimi cinquant'anni di fantascienza. In effetti, se si osserva al
microscopio lo sviluppo tecnologico degli ultimi vent'anni, risulta
sorprendente osservare in quanti e quali modi le interfacce utente,
la “leggibilità” delle app e in generale le modalità di
utilizzo di una tecnologia siano state legate a doppio filo
all'ispirazione derivante dai film e dai libri di sci fi. Una
scoperta scientifica che possiede le potenzialità di svilupparsi in
una tecnologia di massa diventa tuttavia tale solo quando viene
filtrata dalla rielaborazione di artisti e designer, che la rendono
“comprensibile” per l'uomo comune. Il saggio Make it So. Interaction Design Lessons from Science Fiction (2012) muove proprio
da queste premesse, dimostrando l'influenza di film come Minority
Report e Blade Runner sulla tecnologia di ogni giorno. Le
schermate touch, le icone, le dimensioni e le forme dei cellulari
sono state radicalmente trasposte dalla fantascienza recente,
cercando di realizzare le invenzioni degli artisti e degli
sceneggiatori. Il punto su cui occorre soffermarsi è come non fosse
affatto scontato che ad esempio il tablet e lo smartphone prendessero
la direzione che hanno preso, che seguissero quella tipologia, quel
genere di rapporto con l'usufruitore. Si è dato al cliente quanto si
aspettava sulla base di quello che pensava fosse il futuro – ma era
un futuro inventato, non necessariamente un destino ineluttabile.
Su scala macroscopica,
l'evoluzione di Internet a partire dagli anni '90 si è mossa su
identici presupposti: cercare di dare all'utente non la soluzione
più efficace o razionale, ma quanto ci si aspettava dal cyberpunk e
dalle fantasie di scrittori e registi. Il futuro, proprio perchè
tale, non è inciso nella pietra, non deve per forza seguire quel
sentiero tecnologico, o economico, o culturale: viene giocato su un
delicato equilibrio di realtà economiche e politiche e aspettative
della persona “normale”. Nel caso di Internet, l'ispirazione
spesso citata di “Neuromante”, di William Gibson, offre un
esempio paradigmatico di quanto facilmente ci si possa fraintendere,
di come si possa soffrire un misunderstanding: il cyberspazio del
romanzo non era infatti Internet e non era un luogo desiderabile, o
utopico, o un paradiso di liberi pensatori, come l'hanno presentato i
fan e i filosofi dell'Internet nel decennio successivo di
preparazione all'esplosione della Rete dei primi del '2000.
In effetti, il cyberspazio
per William Gibson rappresentava una tendenza
molto più oscura, molto più dark della Rete di scambio di informazioni che sarebbe poi diventata in seguito.
Un frammento del
magnifico documentario Hypernormalisation, di Adam Curtis, esplicita
meglio del sottoscritto cosa intendeva Gibson per “cyberspazio”:
Verso la metà del 1980, le banche stavano crescendo e diventando sempre più potenti in America. Quello che era iniziato dieci anni prima in New York, l'idea che il sistema finanziario potesse regolare la società, si stava diffondendo sempre di più.
Tuttavia, a differenza dei vecchi sistemi di potere, era per lo più invisibile.
Uno scrittore, chiamato William Gibson, cercò di romanzare cosa stava succedendo, in un modo potente e fantasioso, con una serie di romanzi. Gibson aveva notato come le banche e una serie di corporazioni avevano iniziato a collegarsi tra di loro, attraverso un sistema di computer. Quello che avevano creato era una serie di grandi network di informazioni, invisibili alle persone comuni. E ai politici. Ma questi network, davano alle corporazioni giganteschi poteri di controllo. Gibson diede a questo nuovo mondo un nome: cyberspazio.
Il suo romanzo descriveva un futuro pericoloso e terrorizzante: gli hacker potevano letteralmente entrare nel cyberspazio e nel momento in cui lo facevano, entravano dentro sistemi così potenti, che potevano raggiungere e schiacciare gli intrusi, distruggendo le loro menti.
Nel cyberspazio non c'erano leggi e non c'erano politici a proteggerti.
Solo la pura, elementare forza bruta delle corporazioni.
Se in questo momento non
riuscite a riconoscere nella Rete il cyberspazio qui descritto da
Curtis, state iniziando a comprendere il problema... Il cyberspazio
di Neuromante e dei primi romanzi cyberpunk di Gibson non era un
luogo dove fuggire dalle ansie della vita reale, ma effettivamente
era un incubo, una rappresentazione visibile dei legami interni al
mondo dell'alta finanza e delle grandi corporazioni che si erano
affermate sulle rovine degli anni '70, artificialmente coltivate dal
laissez-faire della politica di Reagan nel 1980. Se preferite, il
cyberspazio era un'arguta metafora che funzionava egregiamente come
strumento narrativo e proiezione futuristica. Per Gibson non era
certo un progetto da perseguire attivamente, un destino auspicabile
per l'umanità.
Turning the bull loose
(Reagan, The Eighties Series, "Greed is good")
Si potrebbe
ragionevolmente argomentare che lettori abituati a letture
impegnative e a cercare livelli e sotto livelli di lettura avrebbero
colto il riferimento di Gibson e magari si sarebbero mossi per
evitare una profezia all'epoca già in compimento. Tuttavia, come
osserva Curtis, si scelse invece un percorso esattamente opposto:
invece di attribuire la distopia di Gibson al cyberspazio, si scelse
di attribuirla all'ambiente dello Sprawl, alla vita “reale” dei
protagonisti dei romanzi cyberpunk.
Il cyberspazio di Gibson
era invece un luogo terrorizzante. Si poteva entrare nel cyberspazio,
ma solo gli hacker più esperti potevano sperare di uscirne vivi. In
Cyberpunk 2020, il rischio che il tuo personaggio di ruolo si ritrovi
col cervello che gli gocciola dalle orecchie dopo una sessione su
“Internet” è reale, anzi un'eventualità più che probabile.
L'Internet di inizio anni '90 viene rappresentata come un luogo
darwinista, dove l'hacker si intrufola come un topo nelle condutture,
costantemente all'erta per programmi di difesa e avversari in grado
di raggiungerlo dallo schermo nella vita reale. Nessuno sceglie il
cyberspazio per divertirsi, per rilassarsi, per comunicare con gli
amici e gli sconosciuti. E' quasi un Game of Death, una disumana
arena dove dominano solo i colossi dell'economia, che governano un
parco giochi con pena di morte.
Il neoliberalismo
affermatosi negli ultimi trent'anni persegue esattamente l'obiettivo
proposto nel cyberspazio di Gibson: un luogo “vuoto”, libero da
interferenze dei cittadini o di strutture statali, dove il libero
mercato possa affermarsi incontrastato, lottando per la supremazia
dentro una “libera” catena alimentare. Nel neoliberalismo
attuale, o nel cyberspazio del 1990, il singolo cittadino non ha voce
in capitolo, l'unica libertà di cui gode è di poter perseguire i
propri piaceri, a patto che non interferiscano con quelli altrui. E'
il vecchio concetto di “libertà negativa” di Isaiah Berlin.
Gli stati europei che
dispongono di strutture assistenziali e scolastiche rafforzate negli
anni '50 possono sopportare questa temperie economica, mentre negli
stati “liberati” dalle dittature, come l'ex Unione Sovietica o
l'Iraq post Saddam Hussein, il neoliberalismo promosso dai
neoconservatori americani insegue il sogno impossibile di una
struttura statale praticamente inesistente, all'interno di un
ecosistema che si autogoverna sulla base del fallace ragionamento
che l'uomo faccia scelte per natura egoiste e razionali. Il caos
dell'impero russo e la balcanizzazione dell'Iraq sono un efficace
testamento del fallimento neoliberale.
Al contrario, la visione
che si è affermata tra i lettori e i fan del cyberpunk vede nel
cyberspazio, oggigiorno la Rete, lo spazio “libero” per
eccellenza, mentre il mondo di Blade Runner o dello Sprawl di
Neuromante e di Deus Ex è una terribile distopia, una mostruosità
tecnologica, architettonica e culturale senza controllo.
Tuttavia, avendo
analizzato come il cyberspazio non fosse per i primi pensatori del
cyberpunk un'utopia, è davvero corretto definire distopico il mondo
di Neuromante?
La Los Angeles di Blade
Runner è una città così terribile in cui vivere?
O non sarebbe forse il
caso di rivalutare lo Sprawl come un'ambientazione tra le tante altre
se non, in effetti, un'utopia piuttosto desiderabile?
Lo Sprawl dei primi
romanzi di Gibson è un'ambientazione altamente tecnologica, ricca di
opportunità e di cultura, dove il basso costo degli affitti e del
cibo si somma a un proliferare di sub culture eccezionalmente
creative.
E' un luogo senza pregiudizi di genere; l'uguaglianza è
stata pienamente raggiunta, come evidenziava il femminismo degli anni
'90 a proposito dell'innovativo personaggio di Molly.
E' un luogo
senza pregiudizi di razza; si ritrovano mescolati africani, europei e
giapponesi, tutti a modo loro uniformati dal rullo compressore
dell'evoluzione tecnologica.
E certo, lo Sprawl è il rifugio dei
freak, dei rifiuti della società, un luogo di estreme
disuguaglianze.
Il mondo di Neuromante è inoltre piagato
dall'inquinamento, dal climate change. Sono le famose “piogge
acide” di Blade Runner. Tuttavia, questi due elementi erano e sono
caratteristica di tante megalopoli nel mondo, non un scenario
distopico, ma una semplice descrizione dello stato di cose nella
periferia di Detroit, di Johannesburg, di Glasgow, di Varsavia ecc
ecc. Blade Runner è persino più ottimista di Neuromante, perchè
immagina una corsa allo spazio, con la speranza delle “colonie
extra-mondo”. Pericolo criminale e pericolo climatico sono inoltre
elementi immutati dal 1970, non possiamo considerarli delle
“distopie”.
E' Gibson in persona a
chiarire l'equivoco durante un'intervista a Paris Review (2014):
(Intervistatore) Il mondo della Sprawl è stato spesso definito distopico.
W. G. Umh, forse se sei una persona di classe media dal Midwest. Ma se stai vivendo nella maggior parte dei luoghi in Africa, salteresti su un aereo per lo Sprawl in due secondi. Molte persone a Rio hanno vite di gran lunga peggiori degli abitanti dello Sprawl.
Sono sempre stato preso alla sprovvista dal presupposto che la mia visione è fondamentalmente distopica. Ho il sospetto che le persone che dicono che sono distopico debbano avere vite davvero sicure e protette. Il mondo è pieno di luoghi molto più cattivi delle mie invenzioni, luoghi che i reietti dello Sprawl considererebbero una punizione esservi trasferiti, e molti di questi luoghi sono in costante peggioramento.
Ammettiamolo, il fascino
del cyberpunk di Blade Runner non sta nell'orrore dell'ambientazione,
sta nella sua bellezza, architettonica e umana. Il monolocale di
Deckard è la Ennis House, di Frank Lloyd Wright; il rifugio gotico e
romantico dei Replicanti è il Bradbury Hotel in stile fin de siecle.
L'ambientazione urbana è
certo sporca e degradata, ma è anche ricca architettonicamente: c'è
un miscuglio mortale di art deco, di art nouveau, di modernismo e
brutalismo. Si abbandonano le superfici lisce, blande, senza coraggio
dei film di fantascienza hard per esaltare l'ornamento, il puro
decorativismo senza requie per lo spettatore. Ogni muro, ogni
pavimento, ogni vetrina è rigonfia di roba, che siano tubi al neon,
manichini, spogliarelliste, teste di gargoyle, pubblicità pulp,
foglie d'acanto, bancarelle di venditori, intarsi aztechi, intarsi
neoclassici, intarsi romantici e ancora: capitelli corinzi, putti e
puttane, statue neoclassiche, statue barocche, statue art deco, busti
ottocenteschi e poi tubi di gomma, tubi colorati, tubicini, tubi di
rame, di ferro, al neon...
Se proprio dobbiamo
rassegnarci a vivere dentro un mondo cyberpunk e distopico, perchè
quantomeno non possiamo farlo con stile?
Perchè devo leggere di
continui cyberattacchi, di terroristi che usano i droni, di chirurgie
plastiche per assomigliare ad attori e cartoni animati, di
cambiamenti climatici e protesi bioniche... cioè di una serie di
elementi cyberpunk, per poi camminare per strada e dover sopportare
questo continuo attacco di colori accesi, di tecnologie indossabili e
impalpabili, di linee smorte e blande, senza personalità, senza
coolness, senza storia, senza gusto artistico, senza coraggio.
Non se
ne può più.
Se dobbiamo vivere un mondo di merda, almeno forniteci
una moda e un gusto estetico adeguatamente cupo, che rispecchi
l'atmosfera “pesante” che viviamo al di fuori del SOMA che
assumiamo via Social ogni giorno per convincerci che va tutto bene.
Cosa sono questi azzurrini, questi gialli, questi colori pastello
d'asilo d'infanzia?
Com'on. Dov'è sono
gli edifici decadenti, i taxi volanti, le pistole a dardi, gli
impermeabili in pelle?
Scherzo, ovviamente. Ma
davvero viviamo un mondo cyberpunk che soffre di un'inarrestabile
crisi stilistica. I mercati e i clienti sembrano letteralmente
spaventati di mostrare un'identità coraggiosa. Persino la ricchezza
visiva di Blade Runner ci è tolta.
Un altro aspetto che
convalida la città di Los Angeles come utopia, non distopia del 21'
secolo, viene offerta nel brillante documentario di Thom Andersen,
Los Angeles Plays Itself.
Il regista, analizzando la
città attraverso i diversi film di Hollywood che l'hanno raffigurata
(e fraintesa), osserva come in Blade Runner nulla sembri funzionare
davvero: la trama è inconcludente, un groviera di buchi narrativi
dove nessuno degli attori sembra convinto della sua parte. Deckard,
ad esempio, è letteralmente un investigatore che non sa investigare;
l'intero film funziona perchè ambiguo, perchè imperfetto.
Curiosamente Ridley Scott condivide in questo caso una certa
impostazione volutamente fallace di Gilliam.
Se gli attori e la trama
in apparenza non collaborano tra loro, ma anzi sembrano respingersi
vicendevolmente, la “presunta” città distopica a un occhio
attento è tra le più efficaci si possa immaginare, il sogno
realizzato di ogni progettista e architetto urbano.
Neon beyond our wildest
dreams
(Andersen in Los Angeles Plays Itself, 2003)
Sorvolando sulla
criminalità rampante, le piogge acide e le droghe, sarebbe davvero
un tale incubo vivere nella Los Angeles di Blade Runner?
La vita notturna è
vibrante, multiculturale. Cibo giapponese gestito da veri giapponesi
a prezzi bassi. Tolleranza per ogni cultura, ogni religione, ogni sub
cultura. Neon everywhere.
Il sistema stradale? La
gran parte della gente si sposta a piedi o in bici.
Le auto volanti,
a differenza che in Quinto Elemento, sembrano volare senza cartelli
stradali o traffico di sorta.
Le gallerie, le arterie urbane? Vuote.
I mezzi della polizia, i taxi e i servizi pubblici? Puntuali
e accoglienti.
A metà del film, Deckard
passa accanto a una fila di parchimetri... ma non ci sono auto
parcheggiate, l'intero posteggio è deserto.
Niente più Suv, ma Vtol:
design ricchi di carattere, eleganti e slanciati. Nessuna 4x4 che
romba per il cento storico, nessun Suv ormeggiato sul parcheggio
dei disabili. Le interfacce all'interno dell'auto sono solide,
affidabili, funzionali per l'utente senza fronzoli inutili.
Quando Deckard rientra a
casa, se osservate bene il suo veicolo è l'unico del condominio:
letteralmente, nell'ecosistema urbano di Blade Runner, possedere un
auto è un lusso superfluo, da riservare a manager corporativi e
detective imbranati.
E infine, i Replicanti
sono creature affascinanti e sensuali, capaci di discorsi letterari e
di riflessioni filosofiche sulla vita e sulla morte. Al confronto,
quanto poco romantico è l'attuale mondo della robotica, dove tutto è
noioso ed efficiente e dove l'unico, reale pericolo è che il robot
ci rubi il lavoro. Ah, sì: per i romantici, Blade Runner è
un'utopia da rimpiangere.
3 commenti:
Continuo a dire che rimango sempre stupefatto dai tuoi articoli!
Purtroppo non ho molto d'aggiungere...
Questo articolo è da incorniciare. Concordo in tutto.
@Marco Grande Arbitro
@Davide Imbraguglio
Siete decisamente troppo generosi! :-D
Posta un commento